giovedì 10 febbraio 2011

SIMBOLI ANTICRISTIANI
INTERVISTA SULLA MAGIA AL CARD. RATZINGER
N.B. Con piacere ho trovato questa intervista molto chiara e pertinente data dall'allora cardi­nale Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI. Con i tempi che corrono, è un insegnamento ancora molto utile. Certamente il Papa attuale è sempre d'accordo con quello che disse alcuni anni fa da cardinale. (…)

Don Beppino

 
Ringraziamo don Beppino Cò di averci concesso il permesso di pubblicare questa intervista al card. Ratzinger sulla magia, che mettiamo a cap­pello sullo studio dei simboli anticristiani in voga.
 

La magia può dare dominio sulla realtà

D. - Eminenza, cos'è la magia?
R. - È l'uso di forze apparentemente misteriose per aver un dominio sulla realtà fisica e anche psicologica. Il tentativo, cioè, di strumentalizza­re le potenze soprannaturali per il proprio uso. Con la magia si esce dal campo della razionalità e dell'utilizzo delle forze fisiche insegnate dalla scienza. Si cerca - e a volte anche si trova - un modo di impadronirsi della realtà con forze sco­nosciute. Può essere in molti casi una truffa, ma può anche darsi che con elementi che si sottrag­gono alla razionalità si possa entrare in un certo dominio della realtà.
 
I riti magici ripercorrono il peccato di Adamo ed Eva nell'Eden
D. - Sia il Nuovo che l'Antico Testamento con­dannano in modo ferreo ogni pratica magica, così come il ricorso all'occultismo in tutte le sue forme. Come commenta questo dal punto di vista teologico?
R. - Vediamo intanto l'origine più profonda delle superstizioni, della magia e dell'occultismo per capire meglio la condanna nei loro confronti. Direi che ci sono due elementi: da una parte nel­l'uomo, creato a immagine di Dio, esiste la sete del divino. L'uomo non può limitarsi al finito, all'empirico: avrà sempre il desiderio di allargare la prospettiva del suo essere e di entrare nella sfera divina, di uscire dalla pura realtà fisica e toccare una realtà più profonda. Questo deside­rio, di per sé innato nell'uomo - immagine di Dio - è smarrito perché sembra troppo difficile anda­re realmente alla ricerca di Dio, elevarsi lasciarsi elevare dall'Amore Divino e arrivare così a un vero incontro con il Dio personale che mi ha creato e mi ama.
Allora accade un po' come nel mondo umano: le avventure passeggere sono più facili di un amore profondo, di una vita. E così come in questa vita umana un amore fedele, un vero amore, che va fino alle profondità del nostro essere, esige un impegno ben diverso dalle facili avventure, così anche le realtà spirituali esigono un impegno profondo, una fedeltà, una disciplina interiore, l'umiltà di impostare la propria vita alla sequela di Dio. Allora l'uomo cerca le cose più facili, un esperimento immediato della profondità dell'es­sere.
Possiamo anche dire che qui si verifica una dot­trina fondamentale della Chiesa, cioè che nel­l'uomo da una parte troviamo la natura creata da Dio, dall'altra anche questa tendenza opposta: lo smarrimento e il peccato originale che lo devia­no dalla sua origine e trasformano in una carica­tura il suo desiderio innato di amare Dio e di entrare nell'unione con Lui. Ecco, questa secon­da tendenza si realizza nel cercare un cammino più facile, un contatto più immediato e soprattut­to un modo per non sottomettersi all'amore e al potere divino. Allora l'uomo comincia a farsi dominatore della realtà sfruttando questa presun­ta possibilità del suo essere. E ciò mi pare una profonda inversione e perversione della relazio­ne più profonda del nostro essere: invece di ado­rare Dio, di sottomettersi a Dio, l'uomo intende farsi dominatore della realtà usando queste potenze occulte, e si sente il vero dominatore.
E la tendenza che troviamo nel capitolo 3 della Genesi: io stesso divento Dio e ho il potere divi­no e non mi sottometto alla realtà. 'Ma il ser­pente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrec­ciarono foglie di fico e se ne fecero cinture" (Genesi 3, 4-7).
 

Nei riti magici e nell'occultismo agisce sempre il demonio

D. - San Paolo a Cipro, definisce pubblicamente il mago Elimas «Figlio del diavolo». Possiamo dunque affermare con certezza che dietro la magia e il mondo dell'occulto c'è sempre il demonio?
R. - Sì. Io direi che senza il demonio, che provo­ca questa perversione della creazione, non sarebbe possibile tutto questo mondo dell'occul­tismo e della magia. Entra in gioco un elemento che va oltre le realtà della ragione e le realtà riconoscibili con la scienza unita a una ragione sincera. Si offre un elemento apparentemente divino, cioè delle forze che possono prestare dei successi, esperienze che appaiono come sopran­naturali e spesso come divine. Sono invece una parodia del divino. Poteri, ma poteri di caduta, che in realtà sono ironie contro Dio.
D. - È questa la radice della ferma condanna espressa anche dalla Chiesa nei confronti della magia e dell'occultismo?
R. - Sì. Ciò comincia nell'Antico Testamento: pensiamo al conflitto tra Samuele e Saul. È pro­prio la caratteristica della religione del Dio rive­lato: non si fa uso di queste pratiche, che sono caratteristiche delle religioni di questa terra, e perciò pagane, perché pervertono la relazione tra Dio e l'uomo. Questa condanna continua in tutta la storia della Rivelazione e riceve la sua ultima chiarezza nel Nuovo Testamento. Non è - sia chiaro - un positivismo che vuole escludere qual­cosa della ricchezza dell'essere o delle esperien­ze possibili, ma la verità di Dio che si oppone alla menzogna fondamentale.
Il nome del diavolo nella sacra Scrittura, «padre della menzogna», diventa comprensibile in modo nuovo se consideriamo tutti questi feno­meni, perché qui troviamo realmente la menzo­gna nella sua purezza totale.
D. - In quale forma?
R. - L'uomo si fa dominatore del mondo sfruttan­do ciò che appare come Dio e quindi usa il pote­re per dominare il mondo in se stesso, entrando così in una menzogna radicale. Questa menzo­gna appare in un primo momento come un allar­gamento del potere, delle esperienze, come una cosa bellissima: io divento Dio. Ma alla fine la menzogna è sempre una realtà che distrugge. Vivere nella menzogna vuol dire vivere contro la realtà e quindi vivere nell'autodistruzione.
In questo senso possiamo vedere due aspetti di questa proibizione. Da una parte, semplicemen­te, le pratiche occulte e magiche sono da esclu­dere perché pervertono la realtà, sono menzogne nel senso più profondo. Il secondo aspetto, quel­lo morale dopo quello ontologico, è che, oppo­ste alla verità, esse sono distruttive e distruggono l'essere umano cominciando dal suo nucleo.
D. - Quali sono dunque i pericoli per chi ha da fare con la magia e l'occulto?
R. - Cominciamo anche qui dal fenomenologico. Il tranello viene teso con cose promettenti, con un'esperienza di potere, di gioia, di soddisfazio­ne. Ma poi una persona entra in una rete demo­niaca che diventa poco tempo dopo molto più forte di lui. Non è più l'uomo il padrone di casa. Poniamo che una persona entri a fare parte di una setta o di un gruppo magico. Diventerà schiavo non solo del gruppo, il che sarebbe già gravissimo, dato che queste sette possono aliena­re totalmente una persona. Ma sarà schiavo della realtà che sta dietro il gruppo, cioè una realtà realmente diabolica.
E così va verso una autodistruzione sempre più profonda, peggiore di quella della droga.
D. - Quali sono le radici di questa sete di occul­to?
R. - Mi sembra questa mescolanza di una ten­denza verso il divino e lo smarrimento che chiu­de l'uomo in se stesso.
D. - Nessuno degli occultisti dichiara apertamen­te di operare con il concorso dei demoni. Anzi, quasi tutti affermano di essere credenti e di fare il bene. Usano immagini sacre, crocifissi...
R. - Sì. La menzogna profonda poi si concretizza in menzogne più evidenti. Il mago, nel suo orien­tamento personale, è arrivato alla menzogna. Poi, diventa naturale usare tutti i modi concreti per esprimere e fare agire la menzogna. Naturalmente il sincretismo (spiegazione: Sincretismo può essere considerata qualsiasi tendenza a conciliare elementi culturali, filosofici, o religiosi eterogenei appartenenti a due o più culture o dottrine diverse.) è uno degli elemen­ti fondamentali del mondo magico e occultista, che si serve delle religioni, e soprattutto degli elementi cristiani, pervertendoli sia allo scopo di attirare la gente e rendersi credibile, sia anche nella speranza di usare la forza nascosta della realtà cristiana. Lo vediamo negli Atti degli Apostoli con Simone mago, che vorrebbe com­prare la forza degli apostoli. «Simone, vedendo che lo spirito veniva conferito con l'imposizione delle mani degli apostoli, offrì loro del denaro dicendo: 'Date anche a me questo potere perché a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo Spirito Santo'. Ma Pietro gli rispose: 'll tuo dena­ro vada con te in perdizione, perché hai osato pensare di acquistare con denaro il dono di Dio. Non v'è parte né sorte alcuna per te in questa cosa, perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio. Pentiti dunque di questa tua iniquità e prega il Signore che ti sia perdonato questo pensiero. Ti vedo infatti chiuso in fiele amaro e in lacci di ini­quità'» (Atti 8, 18-23).
D. - Si afferma che esistono forme di magia e divinazione innocue e "leggere" come la lettura della mano, le carte e gli oroscopi. E si ironizza sul Nuovo Catechismo, che le ha condannate. Esiste una scala di gravità o sono tutte dello stes­so ceppo, e quindi tutte gravi?
R. - Esiste forse un uso più leggero, ma comun­que non accettabile, perché apre la porta all'oc­culto. Se uno comincia a muoversi in questa direzione, c'è per lui il pericolo di cadere nella trappola più profonda. Ma il fatto che si scivola facilmente, e spesso inevitabilmente,- una volta entrati in questo cammino, non deve portarci a un rigorismo che non distingue più tra compor­tamenti che sono simbolo di una certa leggerez­za di vita e il modo di agire di coloro che sono entrati nel pieno di queste situazioni. Una certa distinzione esiste senza dubbio, ma si deve tene­re presente che un gradino guida facilmente all'altro, perché il terreno è scivoloso.
D. - Cosa direbbe a chi frequenta la Chiesa e anche gli occultisti, o pratica egli stesso l'occul­tismo, credendo che l'una cosa non debba esclu­dere l'altra?
R. - Gli direi che deve cominciare a capire meglio la fede e inserirsi profondamente nel cammino cristiano, per capire che sono cose del tutto diverse. Se ascolto la Parola del Signore, con la mano nella mano del Signore, mi lascio guidare dall'amore di Cristo, mi inserisco nella grande comunione della Chiesa, andando insie­me con la Chiesa sulla strada di Cristo. Ben diverso è se io comincio a entrare nella realtà grave dell'occultismo. I due atteggiamenti sono dall'inizio profondamente diversi. Capire questa distinzione è una decisione fondamentale del­l'uomo, è il passo iniziale del cammino della fede. Pensiamo al rito del Battesimo, dove abbia­mo da una parte il "sì" al Signore e alla sua legge, e dall'altra il "no" a Satana. In tempi passati ci si voltava verso l'oriente per dire "sì" al Signore e alla sua legge, e verso l'occidente per dire "no" alle seduzioni del diavolo .
Con questo rito, nato in tempi in cui, come acca­de oggi, la Chiesa era circondata e attaccata dalle pratiche occulte, si capisce la diversità inconciliabile di questi due comportamenti. Io dico "sì" al cammino del Signore e questo impli­ca che dica il mio "no" alle pratiche magiche. Dobbiamo rinnovare in senso molto concreto e realistico questa duplice decisione.
Dire "sì" a Cristo implica che non posso "servire due padroni", come dice il Signore stesso, e se dico "sì" al Signore non posso nello stesso momento dire "sì" a questi poteri nascosti, ma devo dire: "No, non accetto la seduzione del dia­volo".
E forse, in occasione del rinnovamento dei voti bat­tesimali che facciamo prima della Pasqua, si dovrebbe spiegare che ciò che pronunciamo non è un antico rituale, ma una decisione importante per la nostra vita oggi, un atto concreto e realistico.
D. - Esiste un punto di non ritorno per chi ha dato la propria vita alla magia?
R. – E’ difficile rispondere. Se uno è entrato in ciò che il Signore chiama "peccato contro lo Spirito Santo", corre avversione a Dio e maledizione dello Spirito di Dio, pervertendo il suo spirito, aprendolo all'azione del demonio, qui si realizza forse quello che il Signore indica come il punto del non-ritomo.
Ma da parte nostra non possiamo giudicare que­sto. Noi dobbiamo dire sempre: c'è la speranza di conversione. Naturalmente, se uno è entrato in questo mondo, una conversione radicale diventa necessaria, ed è una conversione che si fa sempre più difficile, realizzabile solo con l'aiuto forte dello Spirito Santo implorato dalla Comunità della Chiesa che intende aiutare que­ste persone a tornare a Dio.
Quindi dobbiamo sempre avere la speranza, e fare il possibile per implorare il perdono di Dio e per illuminare queste persone e renderle aperte a una conversione profonda.
Occorre poi la espulsione del demonio. Un rito la cui importanza, per un certo tempo, non è stata più capita dai cristiani, ma che ora riceve di nuovo un senso e un significato molto concreto. Perché si tratta di liberare le persone dal demo­nio che, a causa del contatto con la magia e l'oc­cultismo, si è realmente impossessato di loro.
D. - Quindi sono necessari gli esorcismi?
R. - Certamente.
 

CULTURA PAGANA E MASSONICA

Come si uccide una suora

Suor Maria Laura Mainetti, a Chiavenna (Sondrio) nel giugno 2000, venne uccisa da tre ragazzine minorenni con diciannove coltellate, per offrire una specie di sacrificio al diavolo. Sui loro diari sono stati trovati simboli demoniaci e frasi tratte da canzoni di rock satanico.
L'interesse dei ragazzi per l'esoterismo, il satani­smo e lo spiritismo, negli ultimi anni, è cresciuto in modo spaventoso. (Indagini fatte quando inse­gnavo dicevano che oltre il 70% delle adolo­scenti avevano avuto a che fare con giochi magi­ci e talune avevano anche partecipato a sedute spiritiche. Ma i genitori dov'erano?)
Oroscopi, amuleti, tarocchi e sedute spiritiche sono, ormai, i compagni di strada delle nuove generazioni, vittime di un vero e proprio bom­bardamento pubblicitario, effettuato attraverso i mezzi più vari: la musica, la televisione, i video­giochi, i fumetti, il cinema, la discoteca.
Satanismo, occultismo e New age rappresentano, per molta gente, un buon espediente per fare soldi. Alcune persone tendono a sminuire il pro­blema dell'esoterismo giovanile, dicendo che si tratta semplicemente di un fenomeno commer­ciale, non strettamente collegato agli ambienti della magia e delle sette.
Come si diffonde il virus dell'esoterismo? Tutto nasce da un grande equivoco. I giovani pensano che l'esoterismo sia qualcosa di bello, di simpa­tico, di affascinante. Credono di trovare nell'oc­cultismo un alleato per risolvere i propri proble­mi. E così, si avvicinano con fiducia alle pratiche magiche, allo spiritismo e al satanismo, senza accorgersi che scherzano col fuoco.
Il virus si diffonde perché tra i giovani mancano sempre di più gli anticorpi per affrontarlo. Negli ultimi anni i ragazzi hanno subito una specie di lavaggio del cervello che li ha spinti a non avere più paura di ciò che appartiene al mondo del­l'occulto. Partecipare a una seduta spiritica o a un rito satanico significa spalancare le porte verso mondi davvero pericolosi. Si comincia per gioco, e non si sa mai dove si può arrivare.
 

Evitare ogni compromesso

La gnosi (spiegazione: per lo gnosticismo la salvezza dell'anima può derivare soltanto dal possesso di una conoscenza quasi intuitiva dei misteri dell'universo e dal possesso di formule magiche indicative di quella conoscenza. Gli gnostici erano "persone che sapevano", e la loro conoscenza li costituiva in una classe di esseri superiori, il cui status presente e futuro era sostanzialmente diverso da quello di coloro che, per qualsiasi ragione, non sapevano.) anticristiana e le sue molteplici deriva­zioni usano vari simboli, pervertendo spesso la loro origine cristiana. Tali simboli a volte vengo­no usati anche da persone buone, per ignoranza e buona fede, ma occorre evitare ogni compro­messo con il male anche nell'uso dei simboli, siano pure opere d'arte o gioielli.
I simboli fanno parte del linguaggio e richiama­no realtà a volte note a soli iniziati. Esprimono e fanno cultura. La cultura, ossia l'ambiente spiri­tuale in cui viviamo, è il risultato di molte com­ponenti simboliche che si annodano nel profon­do dell'uomo provocando automatismi psichici, sentimentali, intellettuali e anche comportamen­tali, che a loro volta si riversano nel fiume che li ha originati.
La controcultura dominante, di ispirazione paga­na, coinvolge tutte le espressioni della vita, dal pensiero alle arti, alle scienze, alle mode, ai comportamenti nel loro insieme.
Questa degradazione non è avvenuta a caso, ma è frutto di una rivoluzione voluta, programmata, e portata avanti con determinazione da centri i di potere anticristiano.
Il «Sessantotto» ad esempio è stato elaborato da persone e istituzioni allo scopo di distruggere la visione del mondo e il modo di agire cristiano in favore di quelli dionisiaci, ossia pagani. Va nota­to, in proposito, come il patto di Yalta ha som­merso la cultura cristiana dell'Europa sotto l'ir­ruenza del materialismo comunista e del mate­rialismo americano.
L'ambiente culturale fatto di stili, di mode, di lin­guaggio, di arte, di musica e di ogni altra espres­sione umana, condiziona fortemente il nostro spirito. Si è visto come il parlare sinistrese, arro­gante e volgare, ha raggiunto la stessa alta bor­ghesia, un tempo così misurata e gelosa della propria elevatezza.
Particolare significato simbolico assume il vesti­re. Dio ispira bellezza, dignità, decoro, purezza e comportamenti atti a spiritualizzare la persona, ma il Maligno, soprattutto mediante la controcul­tura lanciata dalle massonerie, ha suscitato stili e mode grossolani, privi di buon gusto, che avvili­scono la persona, la materializzano, la rendono occasione di passioni perverse.
È compito dei cristiani, in questo clima di degra­dazione culturale, impegnarsi a sostenere tutto ciò che conferisce dignità, bellezza, decoro alla persona.
Quanto ai simboli, va notato come quelli cristia­ni si radicano per lo più nella realtà, mentre quel­li esoterici e controculturali sono elaborazioni artificiose che tradiscono l'inconsistenza del Maligno che le ispira.
 

I simboli più noti massonici e anticristiani

Il mezzo arcobaleno
Il mezzo arcobaleno simbo­leggia il ponte che unisce l'uo­mo alla Maitreya, ossia a Luci­fero, e alle energie cosmiche.
 
la testa del caprone
La testa del caprone deforme e puzzolente è scelta come insegna di Satana, anche per influsso evangelico, dato che Gesù annuncia la grande divi­sione finale tra pecore e capre (Mt).
 
Il cerchio magico
Il cerchio magico delimita il luogo per operare riti magici, incantesimi, sortilegi, oracoli, malefici, possessioni.
 
Trinità esoterica
I tre cerchi intrecciati indica­no la trinità esoterica (aria, terra, fuoco).
 
La croce col laccio
La croce col laccio appare fre­quente nei geroglifici egizi come «chiave della vita», ma nella controcultura è passata a signifi­care l'alternativa alla croce e il disprezzo della verginità, il rifiu­to della castità e l'asservimento alle divinità del libero amore: i templi di Iside in Egitto, Venere a Roma, Astarte in oriente, ecc. erano luoghi di prostituzione sacra con sacerdotesse prostitute o lesbiche. Così tra i miliziani dell'impero romano era diffuso il culto a Mitra, che istigava alla omosessualità e sodomia.
 
Croce portata all'orecchio
La croce portata all'orecchio è simbolo di disprezzo a Cristo.
 
Svastica o croce uncinata
La svastica o croce uncinata, è di origine gnostica, passata poi a sette massoniche e al nazismo. E­vidente il significato anticristiano.
 
La macchia
La macchia indica il regno di Maitreya, ossia di Satana, che si estende in tutte le direzioni.
 
Il simbolo di Nettuno
Il simbolo di Nettuno indica l'emancipazione dalla fede e dalla morale biblica, dai valori tradizionali, dall'ordine costitui­to, in vista di un ordine nuovo.
 
L'occhio onniveggente
 L'occhio onniveggente è di derivazione illuminatica, e sim­boleggia la conoscenza supercomprensiva di Satana e inizia­tica.
 
L'otarda
L'otarda è l'impronta lasciata nella sabbia dalla zampa di otarda (uccello nordico), o di gallina. Il simbolo è di antica origine anglosassone, ed è pas­sato poi nelle sette paramassoni­che dell'Ordo Templi Orientis e della Golden Dawn significa l'emancipazione da Dio, l'assoluta libertà morale: «Vogliamo spazzar via tutte le macerie che il cristianesimo ha ammassato sul vecchio mondo, affinché l'antica religione della natura riprenda nuovamente i suoi diritti», dice un commenta­tore. L'otarda ha una evidente allusione fallica, e appariva fre­quentemente nel Sessantotto come istigazione alla piena libertà sessuale (v. P. Mariel in Epiphanius, Massoneria e sette segrete, pp. 545, a p. 152).
Inserito nel cerchio, che simbo­leggia l'eternità, con il detto «do it» («fa' ciò che vuoi»), l'otarda
 
Il pellicano
Il pellicano è simbolo di dedi­zione. È adottato dalla massone­ria con la scritta I.N.R.I., che non indica come nel Vangelo lesus Nazarenus Rex ludeorum, ma «Igne Natura Renovatur Integra» (l'intera natura si rinno­va nel fuoco), ossia il rinnova­mento iniziatico di tutte le cose attraverso la rivoluzione.
 
La penna nel cerchio
La penna nel cerchio è usata per i patti satanici con i quali l'anima si vende al diavolo in cambio di vantaggi materiali: facoltà medianiche, denaro, successo.
 
La piramide
La piramide, di origine egizia, indica sorgente di forza cosmica e luogo privilegiato per il con­tatto con l'aldilà e il mondo degli spiriti.
 
La piramide con l'occhio onniveggente
La piramide con l'occhio onniveggente, stampata sul dol­laro, è il simbolo adottato dagli Illuminati di Baviera fondati nel 1776 dal massone Weisshaupt sponsorizzato da Rotschild. Gli Illuminati contribuirono in modo determinante alla rivolu­zione francese, e sopravvivono ancora oggi. La piramide ha tre­dici gradini, simbolo dell'inizia­zione rosacrociana. La scritta «novus ordo seclorum» (nuovo ordine dei secoli) del cartiglio allude alla rivoluzione anticri­stiana: è scritto «seclorum» invece di «saeculorum» per ridurre a 17 lettere, cifra che indica «privazione della perfe­zione celeste», quindi empietà. L'occhio onniveggente indica la supercomprensione esoterica, e «annuit coeptis», ossia «favori­sce le cose iniziate», l'impresa, il «grande disegno» di aspirazio­ne massonica (v. Simbologia del dollaro, Solfanelli, Chieti 1977, pp. 40).
 
I tre puntini e Squadra e compasso
I tre puntini, che alludono al triangolo, indicano l'apparte­nenza alla massoneria, come la squadra intrecciata con il com­passo. La falce e il martello sono simboli adottati dal comu­nismo lanciato dall'ebreo sata­nista Karl Marx.
 
I due quadrati intrecciati
I due quadrati intrecciati sim­boleggiano distruzione, disordi­ne, rivoluzione, confusione che prende il posto dell'armonia.
 
Il serpente che avvolge il bastone
Il serpente che avvolge il bastone indica il potere (bastone) che si afferma attraverso l'e­voluzione (serpente) fino a con­quistare l'intero pianeta (Mon­dialismo). È usato come simbolo del dollaro.
 
Il serpente che si morde la coda
Il serpente che si morde la coda, messo anche attorno alla stella di Salomone, indica l'alta iniziazione occultistica.
 
Stella a 5 punte
La stella a cinque punte o pen­talfa o stella di Davide indica la sovranità dell'uomo sull'univer­so, la divinizzazione dell'uomo, la rivolta contro Dio, l'umanesi­mo ateo. Appare nelle bandiere russa, americana, cinese, nell'e­sercito russo, ecc. Nel 1871 il ministro massone Ricotti ­Magnani, che abolì i cappellani militari e la Messa nell'esercito, sostituì la stella a cinque punte alla croce di Savoia sulla divisa militare italiana. La stella a cin­que punte è considerata anche stella di Venere, di Lucifero, delle iniziazioni, con allusioni al mondo luciferino e alla «virtù magica del sangue versato per la Patria al fine di vitalizzare l'au­gusto pentacolo» (v. Epiphanius, cit., p. 195s). La stella a cinque punte è usata anche negli incan­tesimi e negli scongiuri.
 
Stella a sei punte
La stella a sei punte o esa­gramma o stella di Salomone o l'emblema del Mago, dell'Adam Kadmon (l'uomo celeste della cabala, l'uomo divinizzato) rigenerato attraverso la gnosi che afferma la sua supremazia assoluta sull'universo.
Il «macro-prosopus» (il mondo grande) si rispecchia nel «mi­croprosopus» o mondo piccolo della coscienza individuale; ciò che è in alto è uguale a ciò che è in basso, l'uomo è come Dio. C'è l'idea del rovesciamento, della rivoluzione, della lotta contro Dio nel triangolo rove­sciato, che è anche simbolo della discesa dello spirito. Il ser­pente che si morde la coda è simbolo gnostico dell'iniziazio­ne e dell'alta potenza dei maghi (v. Epiphanius, cit., p. 194). La stella a sei punte è impiegata per magie e sortilegi.
 
Triangolo rovesciato
Il triangolo rovesciato è sim­bolo antitrinitario.
 
Trifogli stilizzati
Il trifoglio stilizzato in vari modi, a volte inserito nel cer­chio della magia, indica la tri­nità satanica.
 
L'unicorno
L'unicorno simboleggia la libertà sessuale.
 
L'uomo rovesciato
L'immagine dell'uomo rove­sciato nella stella di Salomone indica rivoluzione contro Dio, rovesciamento di potere, oppo­sizione, e anche armonia degli opposti (v. Stella di Salomone).
 
L'uomo nella stella
L'uomo nella stella di Davide indica l'umanesimo.
 
Il segno di Urano
Il segno di Urano indica l'uo­mo inserito perfettamente nel cosmo.
 
Lo Yin-Yang
Lo Yin-Yang, di origine taoista, indica l'equilibrio tra le forze positive e quelle negative.
 
Il numero 666
Il numero 6 nella Bibbia indi­ca empietà, e il «666» è la cifra della «bestia» apocalittica (Ap 13, 1).
 

LA STREGONERIA E’ SEMPRE DEMONIACA

La stregoneria, ovvero "la divinazione forgiando il destino", dal Latino "sortiarius", è spesso identifi­cata con stregoni, streghe e magia nera. La strego­neria è inoltre associata all'uso di pozioni e formu­le magiche. Tutto questo è fatto allo scopo di gua­dagnare grandi poteri dall'associazione con gli spi­riti maligni o con Satana stesso.
Satana è l'avversario di Dio ed è la personificazio­ne del diavolo. La Bibbia dice che Satana è un'en­tità reale e concreta: uno spirito creato da Dio che a lui si è ribellato. Molti credono che Satana, o il diavolo, possa possedere un corpo umano.
La possessione è l'invasione del corpo dal parte del diavolo.
La Chiesa Cattolica esegue tuttora esorcismi su individui ritenuti posseduti.
La stregoneria viene associata con tutti i fenomeni paranormali e dell'occulto, includendo - fra le altre - le proiezioni astrali, la cabala e le guarigioni fisi­che. Gli stregoni utilizzano vari simboli quali il pentagramma, come pure una varietà di comporta­menti rituali simbolici, volti ad ottenere potere per poter quindi contravvenire alle leggi della fisica e della chimica.
Le religioni basate sul Vecchio e Nuovo Testa­mento hanno a lungo associato gli stregoni con i falsi profeti, basandosi sulla credenza che Satana esibisce spesso il suo potere malefico e lo condivi­de con gli esseri umani. Utilizzare poteri, che con­travvengono le forze naturali, è un fatto buono se condotto grazie all'aiuto di Dio.
Questa esibizione del potere divino viene definita miracolo. Se condotto da forze diaboliche, viene definita diavoleria o stregoneria demoniaca.
Le streghe credono in Satana e conducono rituali ritenuti capaci di condividere i poteri occulti soprannaturali di Satana. Tuttavia, molte streghe della nuova generazione dicono di non adorare Satana e si dicono piuttosto associate all'occulto ed al magico, attraverso il quale hanno ristabilito una sorta di religione naturale associata ad antiche reli­gioni pagane, quali la greca antica e la celtica (spe­cialmente il druidismo).
Dicono la verità? il diavolo e le diavolerie vanno sempre d'accordo con la menzogna.
Le streghe della mitologia cristiana erano note per l'uso dei loro poteri magici al fine di creare diavo­lerie di ogni sorta. Il culmine della mitologia delle streghe era il Sabbath, ovvero una rituale parodia derisoria e blasfema della Messa. Durante il Sabbath le streghe eseguivano danze oscene, ban­chettavano e bevevano pozioni da un grande cal­derone. II banchetto poteva includere bambini, carogne di animali ed altre "delicatezze". Il beve­rone delle streghe era apparentemente usato per danneggiare od uccidere persone o per mutilare bestiame. Gli iniziati al mistero satanico portavano una sorta di marcatura fisica, come il segno di un artiglio sotto l'occhio sinistro.
Il diavolo era dipinto come un caprone o un satiro, oppure come una sorta di bestia mitica con corna, zoccoli, artigli e bizzarre ali: la parodia di un ange­lo, un uomo e una bestia. Esistono numerose testi­monianze relative alla partecipazione di streghe a Sabbath, tenutisi anche in epoca recente.
 

Consigli pratici

A tutti in questi tempi può capitare di incontrare persone che frequentano riti medianici, o affiliati a sette sataniche, o in gruppi che praticano riti occul­tisti, magari per gioco di società.
Cosa fare?
Cari amici, giorni fa ho incontrato una donna molto devota, aderente ad un gruppo del Rinno­vamento Carismatico. Sua figlia le aveva regalato una croce d'oro per atto di amore. Era una croce massonica di quelle che abbiamo pubblicato.
Come possiamo difenderci?
1) Con pazienza dobbiamo imparare a riconoscere satana e i suoi adepti quando ci propongono qual­cosa. Ce n'è un sacco. Quando ne abbiamo capito uno, li abbiamo capiti tutti.
2) Con i sacramenti, la nostra fedeltà e l'amore verso i nostri amici: Gesù, la Croce, la Madonna l'angelo custode, le anime del purgatorio... noi cri­stiani siamo più forti di lui. È stupido e cattivo, ma non sottovalutiamolo.
3) Usiamo la prudenza che ci è suggerita dal timor di Dio. Il settimo dono delle Spirito Santo serve proprio come antidoto a satana, il verme. È sempre meglio non rischiare. Se ti invitano a un gioco di società, rifiuta categoricamente dicendo: lo sono della Chiesa cattolica.
4) Se hai individuato la sua presenza (quella di satana) non fermarti a parlare: il dialogo è sinoni­mo di resa al diavolo. Il tuo dovere, suggerito dalla prudenza, è solo quello di fuggire. Credimi: non è vigliaccheria, è saggezza. Mentre scrivo ho appena consigliato ad un amica veggente di tagliare il filo del telefono con una persona che, essendo affiliata a gruppi di medianità (e cioè a satana perché la Chiesa li esclude - vedi cosa dice papa Ratzinger), la sta disturbando. Non c'è carità che tenga in que­sto caso. Solo in questa circostanza usare la carità è da stupidi, o da gonzi.
servizio a cura di S. P

UN SANTO SENZ'ALTARE IL SERVO DI DIO PADRE MATTEO DA AGNONE



UN SANTO SENZ'ALTARE
IL SERVO DI DIO PADRE MATTEO DA AGNONE
della provincia dei Cappuccini di Foggia 1563-1616
PADRE CIPRIANO DE MEO

CENNI BIOGRAFICI

NIHIL OBSTAT QUOMINUS IMPRIMATUR
+ Angelo Criscito

VESCOVO DI SAN SEVERO E LUCERA

SAN SEVERO 26 ottobre 1982

 
In ossequio al pensiero della Chiesa, ai fatti stra­ordinari
narrati in questa biografia, intendo dare, soltanto fede umana.
L'AUTORE
 
Approviamo la presente biografia del Servo di Dio
P. Matteo D'Agnone, scritta dal P. Cipriano de Meo perché venga data alla stampa.
Foggia - 17 - 7 - 1982
 
P. Pietro Tartaglia
Ministro provinciale Cappuccino
  

Per richieste di immagini ed ordini di acquisto contattaci via e-mail oppure rivolgiti a Padre Cipriano de Meo - c/o Convento Cappuccini - 71016 San Severo (FG) - Piazzale Cappuccini - tel. 0882/241336.

Presentazione

Il profilo biografico del Padre Matteo d'Agnone, scritto da Padre Cipriano, si inserisce nel quadro di una più ampia ricer­ca in preparazione della "Storia della provincia Cappuccina di Foggia", ed è il frutto di una severa ricerca documentaria.
Al limite tra il racconto storico e la indicazione agiografica è presentata la robusta figura di un Cappuccino della generazio­ne immediatamente successiva alla fondazione dell'Ordine e della piena fioritura della Provincia di S. Michele Arcangelo (Fog­gia), la quale già nel 1559 contava 164 religiosi cappuccini.
Del Padre Matteo d'Agnone sono evidenziate dall'autore le caratteristiche poliedriche e plastiche di una esemplare perso­nalità cappuccina, plasmata al riverbero dell'originario impul­so riformatore: uomo di preghiera e di austerità, con solida cul­tura che gli consente, ad un tempo, di poter predicare in modo efficace la parola di Dio, di insegnare con competenza discipli­ne filosofiche e teologiche e di esprimere con fermezza il suo personale pensiero su alcuni problemi; uomo di «governo» e nello stesso tempo educatore di una giovane provincia religio­sa; uomo del popolo per scelta consapevole anche di fronte ad alternative più prestigiose.
Si direbbe un Cappuccino completo, il Padre Matteo d'Agnone, che riassume in sè, quasi in nuce, tutte le potenzialità di cui può essere capace un Cappuccino.
L'autore rileva egregiamente tutto questo e, condotto dalla realtà stessa e dal suggerimento dei documenti, non può fare a meno di ricordare ed inserire nel profilo biografico gli elementi di "santità di vita", anche straordinari, che certamente dovette­ro essere caratteristiche piuttosto solite in frati che la Grazia aveva scelto per rappresentare degnamente l'intensità e l'abbon­danza del nascente carisma Cappuccino.

P. Crispino De Flumeri

Foggia 15-8-82

 

Prefazione

Leggendo i manoscritti della Provincia dei Cappuccini di Fog­gia e le Cronache dell'Ordine, con somma soddisfazione dello spi­rito, s'incontrano figura di Frati, che con l'austerità della vita e con la profonda dottrina, sono degni di essere guardati da vicino, per ammirarli ed imitarli.
Ho preferito raccogliere le notizie riguardanti il Servo di Dio, p. MATTEO da Agnone per due motivi: la stima di santo e di dotto cappuccino, è un dato di fatto, proclamato con tanta insi­stenza dalla storia e dalla tradizione; la permanenza in questo Convento di Serracapriola, la sua beata morte, qui avvenuta, il rinnovamento della sua tomba, che nella veste aggiornata sem­bra voglia continuare a trasmettere il messaggio di richiamo alle fonti genuine del Vangelo e della Regola Francescana.
La sua riscoperta, nella ricorrenza dell'8° Centenario della na­scita di S. Francesco (1182-1982) è la conferma di una vitalità perenne che sgorga dall'insegnamento lineare ed incisivo del Fon­datore.
Scorrendo queste pagine, non sarà difficile giustificare il giu­dizio dato dal cronista: "... fu uno de' soggetti più qualificati che furono nella Regione a' suo tempo".
L'ultimo cronista, p. Gabriele da Cerignola lo definisce: "Splen­dore della nostra Provincia".
La forma storico-narrativa, aiuterà il lettore al raggiungimento dello scopo di ogni biografia autentica: ammirare per imitare.
Serracapriola 15-8-82p. Cipriano de Meo
 

Nascita - Infanzia - Un triste giorno

Nascita - La città di Agnone, ben nota nel Molise per le sue tradizioni culturali ed artistiche, diede i natali a questo illustre cappuccino, nel 1563.
La famiglia del sig. Giuseppe Lolli, conosciuto in Agnone per serietà e bontà di costumi, ebbe il privilegio di essere la culla del futuro p. Matteo. Al neonato fu imposto il nome di Prospero. La scelta del nome non fu casuale, ma essendosi verificato l'evento dell'erede maschio, dopo la nascita "di molte figliole" fu rite­nuto segno di prosperità per la famiglia. Non è difficile capire la gioia che invase i signori Lolli.
Il loro fine intuito, colpì nel centro, benché ignari del futuro del loro figlio, lo posero anche con il nome, sul piano di quella prosperità che la Divina provvidenza avrebbe generosamente profusa ad onore della Chiesa, dell'Ordine Cappuccino ed in par­ticolare della provincia religiosa dei Cappuccini di Foggia.
La mamma, di cui la storia non ci ha tramandato il nome, pre­parò con immensa gioia la nuova culla, sulla quale faceva echeg­giare le più belle nenie popolari e le più belle tradizioni canore del folklore molisano.
In quella culla vi era adagiato, non un bimbo qualsiasi, ogget­to della naturale accortezza di ogni madre, ma vi giaceva un fu­turo profeta del francescanesimo rinnovato, lo scrupoloso prati­cante dei Consigli Evagelici, l'entusiasta ed elegante assertore dell'Assunzione della Vergine Santissima.
Nella mente dei genitori, quel bimbo sarebbe stato la colonna portante di tutte le loro speranze umane; nella mente di Dio inve­ce, avrebbe porto le sue spalle per sorreggere la Chiesa cadente.
I coniugi Lolli, come api industriose, volteggiavano intorno al loro piccolo Prospero, ognuno nella sua parte, per attuare il loro dovere di educatori naturali. Gli insegnamenti che essi da­vano, con parole semplici e disadorne, cadevano nelle mente e nell'animo di Prospero, come il seme nel terreno buono, note di un generoso canto d'amore, abbondanti come le lacrime della gioia.
Si stabilì, col passare degli anni, un meraviglioso dialogo tra genitori e figlio, occhio nell'occhio, mano nella mano. Maestri e discepolo erano intenti allo svolgimento di un programma nel quale diritti e doveri, erano i punti base dei comuni interessi umani e spirituali.
Cresceva negli anni, ed il suo animo seguì, con ritmo incal­zante, il tracciato che sogliono battere i coraggiosi, i primi della classe.
L'occhio vigile della mamma, era entrato nell'animo di Pro­spero, quasi a misurarne la statura ed a dirigere i battiti del cuo­re, ben consapevole che il trono dell'amore materno sta nel cuo­re dei figli.
 
Infanzia - Poco si sa degli anni felici dell'infanzia di Prospero. Quel poco però, è sufficiente per far scricchiolare e cadere l'avarizia di un ostinato silenzio. Quel poco, apre una finestra su un incantevole panorama che sfugge all'occhio del profano o che addirittura fa ridere la superbia dello sciocco pavone.
All'età di cinque o sei anni, è chiuso per lui, il ciclo dei giocat­toli; egli è intento ad un tipico trastullo riservato agli angeli. I bimbi della borgata non ne conoscono la tecnica, ignorano il sa­pore di quell'attrattiva insolita. In casa, aiutato dalle sorelle, pre­para altarini, fiori, e sacre immagini, mentre la sua bocca, che serviva al cuore, recitava il Pater Noster e l'Ave Maria, non nelle movenze di un bimbo che gioca, ma in quelle di un piccolo sa­cerdote che vive già la gioia del sacerdozio futuro.
Tutti in casa gioivano perché il comportamento sincero ed innocente del bimbo, faceva prevedere, il cristiano convinto che non avrebbe temuto di professarsi tale.
Occhi vivaci sprizzanti viva intelligenza, illuminavano di schiettezza e di bontà il suo volto. Era solito ornare il suo dire con lucidissima memoria, che gli permetteva, tornando a casa, di ripetere tutto ciò che aveva sentito in Chiesa dal Sacerdote. I doni di intelligenza e volontà di cui era ricco, erano segni evi­denti di un impaziente futuro che voleva divenir presente. In for­za di tali doni, per lui non vi era alcuna difficoltà di apprendi­mento. Imparò così presto e bene il latino da far meraviglia a tutti i suoi condiscepoli. Enea Mancinelli, uno dei suoi amici di banco, attesta che era "molto quieto e modesto e di bellissimo ingegno".
All'età di tredici anni aveva terminato il corso grammaticale con giusta soddisfazione del suo maestro. Amò lo studio sin dai primi giorni di scuola e se ne fece un ottimo mezzo per incontra­re coraggiosamente il futuro.
Alle ore di svago, preferiva dare impulso al suo programma, in casa, sotto la guida illuminata della madre, nella scuola se­guendo il maestro, e nella Chiesa sotto la direzione spirituale del sacerdote.
In questi tre vani dell'unico santuario, si preparò attentamente alla vita che lo aspettava come una missione da espletare. Guardando a questi primi tredici anni di Prospero, come una traversata a pieno sole, si nota la sua gioia di vivere per uno scopo profondamente sociale, nel senso più sacro. Questa gioia, frutto di segreto lavorio spirituale, gli procurava il necessario coraggio per vivere le immancabili future lotte.
L'angelo che custodiva Prospero, gioiva nel candido sorriso del suo protetto; non avrebbe mai corrucciato il suo volto. Al contrario, fremeva in agguato il comune nemico, geloso del san­to futuro. Costui, entrò nella scena, ruppe la gioia, aprì una pa­rentesi che pur essendo tanto dolorosa, divenne una pietra fon­damentale per una maggiore ascesa spirituale di Prospero.
 
Un triste giorno - Uscì di casa tutto lieto e saltellante; un mondo di gioia gli sussultava nell'animo. La mamma gli aveva increspati i suoi biondi capelli ed gli se ne gloriava innocente­mente, come di una corona; vanità di gaia giovinezza che sorri­de alla vita in mille modi. Uscì di casa per andare a scuola. Ave­va preparato ben bene la sua lezione. Forse nella sua mente già dialogava con il maestro, che soddisfatto, gli diceva bravo. In­contra un suo carissimo compagno Donatantonio Cellilo, si fer­mò con lui per una parola di convenienza o per un saluto di vec­chi amici. Prospero aveva in mano i libri di scuola, l'altro, aveva un'arma da fuoco, presa a casa, all'insaputa dei suoi. Prospero la prende, la guarda, ma... inavvertitamente esce un colpo che pren­de in pieno il caro Donatantonio, che in un attimo cade ai suoi piedi in fin di vita. Fu un fulmine sul suo capo. Si può immagina­re benissimo cosa abbia prodotto nel suo animo questo contrasto così vivo: tanta gioia prima, tanto dolore poi. Vede l'amico a terra, con gli occhi sbarrati, la gola sanguinante, pensa al lutto della fa­miglia del suo amico, al dispiacere dei suoi, al suo avvenire turba­to, ma più ancora alla sua innocenza. Che fare? Non ha il coraggio di piangere, non ha la forza di chiedergli perdono e neppure di dargli un aiuto. Unica soluzione, presa in un momento di somma incertezza: scappare. Fuggì, atterrito da un forte senso di paura, corre nel bosco, ma gli alberi sono insensibili alla sua sciagura. Il silenzio della campagna gli faceva ancor più paura.
Ripensò a se stesso. Decise di tornare a casa. Lo fece e rac­contò l'accaduto.
Fu un triste giorno, quello, sia per Prospero che per i suoi genitori. Nell'animo di Prospero tutto era sconvolto; era una casa in lutto. Il ricordo del volto dell'amico caduto ai suoi piedi gli stava sempre davanti, senza colore e senza bellezza, e gli scon­volgeva la sua abituale calma.
Per i signori Lolli, vi era una impellente preoccupazione, pur sapendo la innocenza del figlio, evitare a Prospero le noie delle giustizia e della vendetta. Primo rimedio: lo nascosero in una botola; protetta dal pavimento di casa, in previsione di eventuali perquisizioni.
Nel frattempo, alcuni passanti, scorgono il giovane Donatantonio a terra, boccheggiante. Lo rialzano, lo accompagnano a casa, ove i genitori erano all'oscuro di tutto. Ebbe solo il tempo di dire alla mamma che era stato Prospero a colpirlo e spirò nelle braccia della mamma. Questo lutto improvviso in casa Cellillo, provocò, come era prevedibile, un urlo di vendetta, poi­ché il giovane colpito, non ebbe il tempo di dire la innocenza di Prospero.
La tempesta ormai si era scatenata e la famiglia Lolli doveva incontrare la Legge. La prevista perquisizione fu regolarmente, effettuare ed estesa anche alle case dei parenti. Prospero non fu trovato. I genitori seppero fingere un vivo desiderio di sapere ove fosse il loro figlio e di saperne qualcosa. Recitarono una parte necessaria.
La storia non ci ha tramandato i particolari di questa vicenda giudiziaria. Probabilmente non ci fu alcuna sentenza, in quanto il padre, lo tirò fuori dalla botola con una fune e lo mandò a Napoli. Con questo gesto sottraeva il figlio dalla giurisdizione del giudice competente. Sfuggiva così alla legge, la quale gli avrebbe riconosciuta l'innocenza, ma gli avrebbe procurato noie e dispiaceri. Diremmo chiusa questa vicenda, ma nell'animo di Prospero risuonavano le parole dell'amico, che tenevano aperte tante ferite, unitamente al ricordo del viso sfigurato di Danatantonio ed il pianto della mamma.
Questi ricordi tanti tristi, saranno per Prospero i motivi domi­nanti del suo spirito di penitenza di cui si ciberà per tutta la vita. Nascerà, contemporaneamente a tanti altri suoi desideri, quello, di vede spuntare il giorno in cui, potersi prostrare dinanzi alla mamma dell'amico morto, per chiedere umile perdono.
Parecchi anni passeranno ancora per quel giorno desiderato. Egli tornerà ad Agnone, tolta la brevissima parentesi durante il noviziato, solo quando, già sacerdote, vi si porterà quale dispensatore della parola di Dio.
 

Studente a Napoli - Si fa Cappuccino

I genitori, lusingati dell'ottimo esito negli studi di Prospero e incoraggiati da mille speranze per il futuro, fanno iscrivere il loro giovane alla Università di Napoli in filosofia e medicina.
Due discipline impegnative che nel programma dei signori Lolli rappresentava il massimo dell'onore che ne poteva deriva­re per la loro famiglia.
Prospero si mise all'opera, accrebbe l'impegno nello studio delle nuove discipline, non dimenticando però, quelle discipline interiori che per lui erano il lievito nella massa. Il nuovo am­biente universitario non lo trovò impreparato, anche se preferiva l'intenso studio personale unito alla preghiera. I suoi compagni di convitto lo ammiravano per la costanza e la tenacia nel suo metodo di vita. Enea Mancinelli, già suo compagno di scuola ad Agnone, ed ora compagno di Università, attesta che Prospero abbinava la frequenza alla scuola ai continui contatti con i Padri gesuiti. Aveva tanta stima per quei religiosi, che gli era affio­rata l'idea di entrare nella Compagnia di Gesù. I Gesuiti sarebbe­ro stati certamente tanto felici di annoverarlo tra le loro file, aven­dolo già conosciuto quale assiduo frequentatore della loro Chie­sa, non per bigottismo, ma per profonda fede.
Lo stesso Mancinelli attesta che spesso si tratteneva in Chiesa più del solito senza tener conto dell'ora di pranzo. Egli però non ne faceva conto. Quando gli dicevano "È ora dì venire questa? Ora cosa mangerai?" Rispondeva: "Mi basta un po' di pane ed acqua". Finito di studiare e prima di andarsene dai Padri Gesuiti, spazzava la casa, lavava i piatti, rassettava i letti. Servizi umili, con cui egli cercava di nascondere il suo mondo interiore da sguar­di e da giudizi profani.
I tre anni di permanenza a Napoli, furono anni di continui inviti a farsi gesuita. Si era quasi deciso, perché vedeva nella Compagnia di Gesù, la piena possibilità di pregare e studiare. Il pensiero di farsi gesuita, fece crollare tutti i sogni di fortuna che i genitori avevano fatto su di lui; i progetti dei signori Lolli caddero come foglie secchie in autunno. Nella sua fantasia ave­va programmato il suo futuro; mancava l'ultimo tocco, che in realtà è sempre il primo, il volere divino. Quando sembrò che tutto fosse fatto, si accorse, in modo inequivocabile, che Dio non dava l'assenso al suo progetto.
Il portatore del volere di Dio, non fu un angelo venuto dal Cielo, ma un suo coetaneo e studente in Legge a Napoli. Questi, dopo aver conosciuto il programma che Prospero si era stilato, conoscendone l'indole, e prevedendo il gran bene che Prospero avrebbe fatto, sotto un'altra disciplina, disse chiaramente che non approvava la sua risoluzione, e che, secondo lui, il pro­gramma ben delineato da Prospero, si sarebbe realizzato unica­mente facendosi Cappuccino.
L'amico, che viveva in perfetta sintonia con i principi evange­lici, incise molto sulla coscienza di Prospero. La sua parola fran­ca e disinteressata, convinse Prospero, il quale l'accettò come ispirata al volere divino.
L'amico gli parlò della vita austera dei Cappuccini, dello spi­rito di penitenza e di povertà, ne sottolineò la piena disponibilità al servizi dei fratelli, e promise che anche lui avrebbe fatto que­sta scelta al più presto.
I due amici hanno mantenuta la loro promessa. Si sono tenuti per mano nella via di Dio: due indivisibili fratelli, lanciati alla conquista della perfezione.
I prevedibili ostacoli familiari, non hanno intaccato la loro volontà. Tra i facili ed immancabili momenti di incomprensione umana, brillano di luce propria, che veniva dall'ideale francescano al quale si sarebbero consacrati definitivamente.
 
Si fa Cappuccino - La descrizione dei Cappuccini, fattagli dall'amico, era invitante per la sua spiritualità.
Egli assetato di preghiera e di silenzio, di penitenza e di studio, intravede il suo posto. Già immaginava ai suoi piedi, sandali rozzi come l'abito ed il cordone, la spoglia celletta, la povera mensa. I suoi sedici anni, pieni di fervore giovanile, gli mostrano una visio­ne rosea della vita claustrale. Con la fantasia già bussa alla porta del Convento dei Cappuccini, si vede fra tanti Frati silenziosi e modesti, con la testa coperta dal ruvido cappuccio, intenti al lavo­ro, allo studio, alla preghiera. Vede la minuscola chiesetta, adagia­ta fuori dell'abitato, ricca di silenzio e di solitudine; il tintinnio di una campanella che affida all'aria la sua flebile voce, linguaggio umile e semplice, diretto a tutti, senza riserva di casato.
Al di fuori di questo programma gigantesco, sono i genitori, i quali, vivono spensierati nella loro Agnone. Essi nulla sanno di quanto avviene nell'animo di Prospero. Non sanno che la voce di Dio, giunta al cuore del loro figlio, è venuta a patti con questi, e, cancellato ogni umano disegno, ha siglato un nuovo progetto.
L'impossibilità di comunicare direttamente con loro, impedi­va di metterli al corrente della sua decisione. Il suo programma offriva possibilità di dilazione, correva e la sua volontà era sem­pre più coscientemente decisa.
Si portò al Convento di Napoli, detto della Concezione, per esprimere al superiore provinciale, il suo proposito. Come era contento!
Tutto gli sembrava più bello in quel giorno. Bussò a quella porta; con rispettosa timidezza, non perché si fosse indebolito il suo proposito, ma perché si riteneva indegno di vestire la tonaca cappuccina.
Un vecchio frate dalla barba lunga e dal volto soffuso di misticismo, gli andò incontro con un sorriso gentile, e lo accom­pagnò dal p. provinciale. A questi chiese di voler appartenere ai Cappuccini. Il p. provinciale lo accettò subito, avendo letto sul volto del richiedente i segni della divina chiamata. Capì che quel giovane era un dono della Provvidenza, e come tale, non ebbe alcuna difficoltà a dargli il benvenuto in nome di s. Francesco.
Prospero volontariamente rinunziava alle comodità di un bril­lante avvenire umano, e preferiva il vivere nascosto e meno ap­pariscente, della vita del chiostro. 

Il noviziato - Prime gioie del noviziato

Il convento di Sessa Aurunca, allora sede del noviziato della provincia dei cappuccini di Napoli, ebbe, senza saperlo, il piace­re di ospitare un novizio che avrebbe dato tanto onore alla Rego­la di S. Francesco con la dottrina e la santità della sua vita.
Il giovane Prospero Lolli, sta per coronare il suo sogno. Coprì la distanza Napoli-Sessa Aurunca con passo svelto ed allegro, segno di una generosità che veniva dalla ferma decisione di ser­vire a Dio sotto l'egida di S. Francesco d'Assisi.
Bussa alla porta del noviziato, con devozione. È una porta che cigola al vento, tanto è vecchia, un legno grossolano che diceva quanta povertà e quanto rigore si vivesse in quelle mura.
Tira la corda, cui è legata una campanella, quella che sono soliti suonare i poverelli quando chiedono ai Frati una minestra. Entra in quel convento, lasciando dietro di sè il gran mondo, che avrebbe potuto, in seguito, battergli le mani.
I Frati, notano subito che Prospero, non è uno dei tanti giova­ni che chiedono di vestire l'abito cappuccino, ma è quel giovane, che anche nella sua verde età ha gli occhi dell'asceta, la parola del dotto, il comportamento dell'umile, nuove energie da comu­nicare ed una vitalità sorprendente. La sua insistente richiesta di vestire l'abito cappuccino, era frutto di un desiderio che non ave­va prezzo. Voleva nascondersi agli occhi del profano, per essere noto unicamente a Dio.
Con molta lentezza passarono i giorni della vigilia. Egli ne approfittò per guardare da vicino il mondo meraviglioso del con­vento. Toccò con mano il nuovo genere di vita, la nuova casa, ove rinunzie e penitenze di ogni genere, erano gli ornamenti gior­nalieri.
Non si spaventò, anzi, maggiormente incoraggiato, decise di amare e per tutta la vita, quell'austerità che gli avrebbe permesso di essere libero da tanta preoccupazioni terrene.
Tutto è pronto per il grande passo... l'animo di Prospero è ripieno di gioia, veste nuziale per il suo spirito. L'altare è ornato di fiori campestri, in segno di umiltà. Dinanzi all'altare è pronto il suo nuovo patrimonio: una tonaca, un cordone, un paio di san­dali grossolani, i vari strumenti di penitenza, la Regola France­scana ed un Crocifisso. L'alba del giorno della vestizione reli­giosa, tanto attesa, lo trovò in piedi. Aveva pregato per tutta la notte, in preparazione scrupolosa.
È tutto contento, come, chi sta per ricevere un gran dono o un premio. All'ora stabilita, con incedere composto e devoto, si av­via all'altare ove lo attende il p. Maestro del noviziato, con tutti gli altri fratelli, per rivestirlo del saio cappuccino, per recidergli i capelli; e per imporgli un nome nuovo. La prescritta cerimonia della vestizione si svolge in un'atmosfera di semplicità mentre i suoi occhi esprimono tutta la gioia di quel momento.
Durante la cerimonia gli fu detto solennemente dal p. Maestro: "Da oggi, non ti chiamerai più Prospero ma Frà Matteo".
La cerimonia è finita. Sembra che sia intervenuto un tocco di bacchetta magica per dare il via ad un decollo generoso ed au­stero.
Probabilmente, nel sentire il nome impostogli, pensò all'in­vito che Gesù fece al gabelliere del Vangelo. "Vieni e segui­mi". Lo spirito del daziere divenuto apostolo obbediente e ge­neroso, agganciò il novizio Frà Matteo, che gareggiando in ge­nerosità, senza remore e con gioioso coraggio, lasciando gli affetti più cari, imboccò la via battuta dai pochi. Prese con sé la Regola Francescana, l'amò come una madre, ne succhiò lo spi­rito, come ape sul fiore, la tenne come lampada per il suo nuo­vo cammino, e si avviò, umilmente, verso la meta, nella cer­tezza di un battimani divino.
Iniziò a tracciare il suo arco, che non conosceva sosta o ripo­so, se non quando, ancora giovane di anni, ma carico di meriti e di nobilissimo lavoro, cadrà, come una foglia in autunno sul gia­ciglio, nell'ultimo giorno terreno, nel povero e romito Convento dei Cappuccini di Serracapriola.
I due Conventi di Sessa Aurunca e di Serracapriola, si son dati la mano, nel sostenere l'arco ascensionale di Frà Matteo, costel­lato di divino ed umano, e che farà tanto onore alla Regola Francescana ed alla austerità cappuccina.
 
Le prime gioie del noviziato - Dal suo nome trasse il pro­gramma. Pose davanti a sè il suo Santo, e decise di divenire il gabelliere di Dio, impegnò le ore della sua giornata, come talenti e denaro, perché fruttassero il più alto interesse, da consegnare, alla fine, al padrone di casa. Scoprì in sè una miniera di doni, che avrebbe messi a disposizione del prossimo, li prese di mira, e con paziente lavoro, con essi adornò il suo spirito.
Al suo confessore apriva il suo animo con devota umiltà e con docile obbedienza. Guardava a tutti i suoi confratelli per carpire da ciascuno quello che di buono sapeva vedere in essi.
In questo clima agonistico potè continuare la costruzione del suo edificio spirituale nel quale poi, potersi rinchiudere per ado­rare il Padre in spirito e verità.
Il mondo prospettatogli dai genitori: laurea, professione ono­rifica e vantaggiosa, ricchezze e matrimonio, tramonta e si dis­solve come un sogno al mattino, mentre sale, sul nuovo orizzon­te, un'aurora di ben altre dimensioni e di più luminose prospetti­ve. In tanto raccoglimento, gli passa davanti alla mente una pa­noramica illuminata. Ricorda i genitori ed i parenti lasciati nella sua città natale, l'amico involontariamente ucciso, le tante stra­vaganze mondane, i peccatori di ogni genere. Per tutti sente il caritatevole dovere di levare lo sguardo al cielo, unitamente al­l'inno di gratitudine e di riconoscenza.
La virtù dell'obbedienza, lo rende più agile, nella corsa verso la meta. Si priva del suo volere e consegna nelle mani del suo prelato, l'energica volontà di ieri, e, celebrando le nozze con la regola, di due volontà, ne forma una sola, quella che gli permette di godere della certezza del divino volere. 

Morte dei genitori - Io faccio voto

L'anno del noviziato era corso veloce; mancava poco alla emis­sione dei voti religiosi, prima tappa del suo nuovo cammino. Tutto era in armonia con il suo programma. Ogni battito del cuore era una nota del suo concerto.
Un giorno, però, venne una triste notizia: la morte dei genito­ri. Non fu una battuta d'arresto, ma un attimo di riflessione. Il suo animo sensibile e riconoscente, accusò un gran vuoto, quel­lo che sentono i figli che vedono nei genitori il sostegno mate­riale e morale; la fonte dell'amore che non inganna, le uniche braccia che possono sostituire la culla.
Certamente ha pianto. Non poteva rimanere insensibile, fu il pianto sereno, accompagnato dalla speranza, rinvigorito dalla preghiera che da quel momento era suffragio.
Non ebbe la gioia di poter riabbracciare i suoi per l'ultima volta. Con quanto affetto avrebbe dato il suo ultimo bacio ai suoi genitori benedicenti prima dell'addio! Questa scena si verificò spiritualmente, nell'ora in cui gli venne dato il triste annunzio. La sua amorevole fantasia certamente lo portò in quella casa lontana, gli fece vedere il viso pallido di quelle due carissime persone, che nella dolente maestà della morte, era illuminato dalla tremula candela.
Il triste evento, portò a Frà Matteo, problemi nuovi, di ordine materiale e spirituale. Le sorelle non sapevano e non potevano amministrare i beni avuti in eredità. L'amministrazione era di diritto dell'erede maschio. Per le sorelle era l'occasione buona per riavere in casa il fratello e, speravano, per sempre. Era un caso umano degno di ogni considerazione. Il problema, si pre­sentava al novizio sotto una forma estremamente semplice al­l'apparenza, ma difficile in realtà: rimanere in convento o torna­re a casa? Questo era il problema che andava risolto bene e pre­sto.
Amava il convento più di stesso, ma la voce del sangue prendeva un tono sempre più acuto. È proprio delle anime grandi sperimentare il tormento delle ore grigie, il peso di un ideale profondo, contrastato dalla voce del sangue. Cosa fare?
Le sorelle intravidero uno spiraglio per vedere attuato il loro piano, ma si accorsero che non avrebbero avuto partita facile. Le necessità morali ed economiche delle sorelle si fecero sen­tire tanto forti, che queste decisero di narrare tutto ai Superiori. Questi, si mostrarono molto umani e comprensivi. Permisero al novizio di recarsi a casa con ampia facoltà di decidersi libera­mente se tornare in Convento o rimanere a casa. Si recò ad Agnone, sua patria, ordinò le cose di famiglia, e, dopo essersi recato sulla tomba dei genitori, speditamente tornò a Sessa Aurunca per continuare il noviziato. -
I confratelli lo accolsero con gioia. Il suo ritorno era una pro­va chiarissima che era avvinto al suo proposito, maturato con tanta riflessione.
Riprese il suo posto di novizio diligente, come un bravo sco­laro, uscito dall'aula solo per un attimo. I giorni che lo separava­no dalla fine del noviziato erano pochi.
La Fraternità unanime, lo ammise alla professione dei voti religiosi.
 
Io faccio voto - Finito l'anno del noviziato, anno di esperi­mento e di preparazione, venne il giorno in cui doveva imprime­re l'ultimo sigillo alla sua decisione. Senza frastuono di festa, nella semplicità della chiesetta cappuccina, in un giorno che il tempo ha nascosto alla storia, nelle mani del suo superiore, alla presenza dei suoi confratelli, con voce ben marcata, pronunciò la formula prescritta: Io Frate Matteo, faccio voto e prometto a Dio Onnipotente, alla Beata Vergine Maria, al beato padre S. Francesco ed a tutti i Santi, per tutto il tempo della mia vita os­servare la Regola dei Frati Minori, per il Signor Papa Onorio confermata, vivendo in obbedienza, senza proprio ed in castità".
Il Superiore rispose: "Se osserverai queste cose, ti prometto, da parte di Dio, la vita eterna". La sua consacrazione era ormai fatta. Vittima di un sacrificio incruento, era la sua deliberata volontà. L'incanto della sua vita spirituale assumeva il ruolo di chi deve tener fede alle promesse giurate. Quali gli articoli del suo programma? Quelli tradizionali, comuni a tutti quelli che scel­gono di vivere secondo la Regola di S. Francesco: perfetta obbe­dienza, altissima povertà, illibata castità. Tre voti, un unico pro­gramma, inghirlandato di preghiera e di studio, nella prospettiva di un multiforme apostolato.
Si avviò, mano nella mano, con Dio, per il suo nobile cammi­no, sorridendo alle asprezze dell'antica osservanza, ai disagi dei lunghi tragitti, per spezzare il pane della sana dottrina a chi ne avrebbe chiesto il sostentamento.
Operaio della prima ora, iniziò ben presto a seminare la sua semente, che, nel solco rovente delle avversità, scese come rag­gio di pace, e, nel terreno soffice, fu vita più intensa. 

Dal Convento di Aversa a quello di Serracapriola - A Bologna

Nel Convento di Aversa - Giunse in detto convento, appena emessi i tre voti. Non durò molto colà il suo soggiorno. Poteva cambiare luoghi, ma non cambiò mai il suo programma. Il cro­nista sottolinea, che non curò tanto lo studio litterale quanto dell'umile orazione con la quale chiedeva costantemente al Si­gnore, la perseveranza nella vocazione, giudicandosi indegno di portare l'abito cappuccino.
Un episodio molto semplice, che potremmo definire infantile, ci fa conoscere la posizione spirituale di Frà Matteo. I frati della comunità di Aversa, avevano deciso di tagliare un arancio infrut­tuoso e portarlo al fuoco. Frà Matteo aveva osservato quanto avveniva nell'orto. Con riflessione immediata su se stesso, con la guida della sua profonda umiltà, e nel linguaggio del suo spi­rito, si va a prostrare dinanzi al Crocifisso del coro, e con abbon­danti lacrime disse: "O veramente dolcissimo Signore, io sono quest'albero infrut­tuoso che merita di essere reciso e spiantato dal giardino della Religione, perché, non servendoti come devo, ad altro non sono buono che ad ardere nell'inferno".
Quanta umiltà e quanta sapienza in questa esclamazione di tono semplicistico! Quelle lacrime erano segno di un proposito più vivo, e, scesero dai suoi occhi come righi tracciati sul cando­re della sua anima, sui quali avrebbe scritto, ogni giorno, una lettera di affetto alla Regola di S. Francesco.
Il Convento di Aversa, con il suo silenzio, aveva contribuito generosamente al dialogo con il divino. L'intenso odore dei pini, e l'immenso scenario della flora di Terra di lavoro, erano un in­vito continuo alla lode del Creatore.
Un giorno, mentre ammirava la bellezza del cielo napoletano dalla finestra della sua cameretta, tre noccate sulla porta, scandi­te con tono di autorità interrompono il suo eloquente silenzio; è il Superiore, gli vuol parlare. Egli era latore di un messaggio che avrebbe deciso il campo di azione del futuro p. Matteo.
Si sarebbe dovuto trasferire nella provincia religiosa dei Cap­puccini di S. Angelo ed aggregarsi ad essa alla quale appar­tiene la sua nativa Agnone.
Non fu un capriccio dei Superiori, ma volontà delle sorelle, le quali, si rivolsero al p. Silvestro da Rossano, Superiore Provin­ciale di S. Angelo. Questi, trovata giusta la richiesta, ottenne dal p. Generale, che Frà Matteo si potesse incardinare nella pro­vincia religiosa di S. Angelo.
Frà Matteo ubbidì. Aveva capito che il disegno della Provvi­denza, si reggeva su giusti motivi umani. Prese la bisaccia sulla spalla, e si avviò verso la sua provincia che, a buon diritto, potè gioire di questo nuovo figlio.
 
Nel Convento di Serracapriola - L'assegnazione di Frà Matteo, alla provincia di S. Angelo, fu certamente un dono della Provvidenza. Preceduto dalla fama di religioso esemplare sotto ogni aspetto, fu accettato con immensa gioia. Si aveva tanto bi­sogno, allora come sempre di queste colonne portanti. Fu man­dato nel Convento di Serracapriola, pur non essendo ancora sa­cerdote, quale professore di Logica, ad altri chierici della stessa sua età. L'obbedienza religiosa, promessa solennemente a Dio nel voto, esigeva adesione completa della propria volontà a quella di Dio espressa da quella dei Superiori. Il sacrificio aveva il suo peso, ma più ancora il suo valore. La sua umiltà fu messa alla prova proprio nel momento in cui fu scelto a guida morale dei suoi coetanei. L'umile riluttanza iniziale produsse unanime sod­disfazione, ed il p. Provinciale, dal fine intuito di cui era anche egli dotato, potè verificare la portata delle doti di Frà Matteo, che facevano presagire il santo ed il dotto. Probabilmente tale prova durò solo qualche anno, 1582-1583, in quanto egli doveva frequentare gli studi di teologia, prescritti per gli aspiranti al sa­cerdozio.
 
A Bologna - Il convento di Serracapriola perde, momentane­amente, la sua perla. La ritroverà, splendente come un meriggio, quando, insignito della dignità sacerdotale, lo ammirerà, semi­natore della divina parola.
Raccoglierà, poi, l'ultimo respiro che l'instancabile cantore della divina Sapienza, farà cadere dal suo labbro, come una goc­cia di miele, quale parola profonda del suo spirito, tutto pieno della dolcezza di Dio.
Per gli studi di teologia, mancavano le strutture necessarie nella provincia di S. Angelo. Per tale motivo i chierici di buon talento erano mandati a Bologna, ove esisteva, uno studio generalizio, sotto la guida del noto teologo p. Giovanni da Rimini (Diotallevi) il quale aveva il titolo di Lettore (Professore) Generale.
Frà Matteo, lasciata Serracapriola, ed in compagnia del chie­rico Frà Francesco da Apricena, si recò a Bologna. Il Lettore p. Giovanni da Rimini, si accorse subito di trovarsi dinanzi ad una intelligenza profonda e ricca di alta spiritualità. Lo ammira­vano non solo i superiori ma anche i discepoli, i quali vedevano in lui un magnifico connubio tra scienza e virtù. Su questo bina­rio Dio preparava il suo atleta. Calamitato dalla bellezza della Teologia, ne formava l'oggetto delle sue discussioni con i supe­riori ed i colleghi di classe. Il tempo della permanenza di Frà Matteo a Bologna deve essere computato tra il 1583 ed il 1589, in quanto nel 1590 già risultava predicatore. 

Santità all'alba - Sacerdote

Santità all'alba - Dio seguiva il suo amico con l'occhio scin­tillante di Padre. Mentre egli si nascondeva agli occhi del mon­do, il divin Padre gli preparava un futuro che sarebbe stato l'at­trattiva preferita dagli affamati di Dio. Il suo nascondimento non era viltà, ma preparazione alla lotta, nel senso della più profonda umiltà.
A Castel Bolognese, dove egli era chierico, si verifica un pie­toso caso di ossessione diabolica; una povera donna che da tre­dici anni è vessata dal demonio. Aveva tentato tante medicine, ma il suo male non aveva una ricetta da farmacia. Vari sacerdoti avevano rinunciato a tale impresa. Infine, decise di andare alla chiesa dei Cappuccini. All'ora stabilita, i Frati sono in chiesa a pregare insieme all'esorcista. Il chierico Frà Matteo è nella sua cameretta, intento allo studio.
L'esorcista inizia le preghiere del cerimoniale, scongiura lo spirito cattivo di aver pietà di quella donna e di andarsene. Non furono sufficienti digiuni e preghiere fatti dall'esorcista e dagli altri Frati. Dopo insistenti esorcismi, lo spirito, stanco di riceve­re colpi, indicò il segreto per uscirsene. Disse chiaramente: "Fate pure quanto volete, noi non usciremo giammai di qua, a meno che non venga Frate Matteo da Agnone, l'umiltà del quale, sopra ogni altra cosa, ci cruccia e ci flagella". La meraviglia dei Frati fu grandissima. Essi conoscevano la bontà di Frà Matteo ma non pensavano che egli fosse tanto avanti nello spirito da far paura ai demoni. I Frati corrono a chiamarlo, ma egli si schermisce col dire che è falso quello che ha detto il demonio.
Pressato dalla voce dell'obbedienza, scende in Chiesa. Si pro­stra faccia a terra dinanzi all'altare del SS. Sacramento per alcu­ni minuti. Il suo umile atteggiamento dinanzi al Signore, l'arca­no silenzio di quegli attimi, divennero esorcismo, minaccia e comando per demonio. Cosa avrà detto a Dio in quella preghiera? Non parlò con le labbra, ma non tacque la sua anima, che più umile di sempre, in contatto immediato con Dio, sfrecciava saet­te al demonio, il quale, cominciò a contorcersi, a dimenarsi nel corpo martoriato di quella donna. Digrignò i denti, spumò di rabbia per spaventare il fraticello, ma questi, assorto nella sua fervente preghiera, si mostrò impavido, senza accorgersi. Il marmoreo atteggiamento di Frà Matteo costrinse il demonio a gridare; "Eccolo pur venuto, che vuole questo Frà Matteo, da me; io non posso più soffrire di vederlo". Ciò detto, il demonio scappò via, lasciando libera e serena quella donna. La rauca voce del demonio, dichiarò senza volerlo, la sua sconfitta. Terminata la preghiera, ebbe fine la lotta ed il tormento.
Tutto confuso, e pieno di santa semplicità, Frà Matteo, tornò nella sua cameretta a riprendere il suo studio.
Il cronista riferisce un caso analogo avvenuto ad Aversa, quando Frà Matteo risiedeva colà. Una donna di Frattamaggiore fu condotta alla Chiesa dei Cappuccini di Aversa per essere esor­cizzata. Fu chiamato Frà Matteo. Non appena questi entrò in Chiesa, l'ossessa viene terribilmente torturata dal demonio il quale appena visto Frà Matteo, tra l'altro disse: "Mi dispiace che que­sto chiericuccio mi darà tanto fastidio durante la sua vita". Detto questo, lasciò libera la malcapitata.
Un altro caso del genere è avvenuto quando egli era già sacer­dote. Il barone di Roio attesta che avendo assistito ad un esorcismo, sentì che l'esorcista, ispirato dal Signore, disse al de­monio: "Io ti scongiuro, per l'umiltà di p. Matteo da Agnone, cappuccino... " Non appena il demonio sentì tal nome si contur­bò fortemente e disse: "Taci, taci, non nominare più quest'uomo, perché non lo posso più sentire".
Sono episodi molto significativi che dicono quello che occhio non poteva vedere, perché coperto da tanta semplicità e dal velo di una delicatissima virtù.
 
È Sacerdote - Questi pochi cenni, radunati come foglie sparse, sono l'alba di un gran giorno; segnano i primi passi del cam­mino spirituale visibile di Frà Matteo, che in ogni cosa ha prefe­rito essere la radice, nascosta nella terra, in cerca di umori. La terra in cui si nascondeva era il basso sentire di sé, l'acqua di cui era assetato era Dio.
In questa continua ricerca dell'Immenso e dell'Eterno, operata nei profondi studi teologici, si preparò al sacerdozio. Pensava al giorno della sua ordinazione sacerdotale, come ad un grande mistero. L'umile sentire di sé, aveva buon giuoco, sino al punto da sottolineare la sua indegnità di accedere all'altare, ricordando e vivendo lo spirito di umiltà del santo di Assisi. Ma la voce dei superiori e dei confratelli, fece eco a quella di Dio, e divenne obbedienza. La preparazione prossima al grande evento faceva corona a quella remota, e la sua anima arricchita del lavoro di ieri e da quello della vigilia, poteva gioire a tutta ragione: si av­vicinava il più bel giorno della sua vita.
La storia, sempre tanto avara di notizie, niente ci ha trasmesso di quel giorno. Un'unica notizia, in poche parole "essendosi ot­tenuta la dispensa per l'omicidio suddetto, fu promosso, con ani­mo riluttante, per reputarsene indegno, al sacerdozio".
Molto probabilmente, sarà stato ordinato sacerdote a Bologna o provincia, trovandosi egli là per gli studi teologici. Queste po­che notizie arrivate a noi, quasi fossero sillabe, sfuggite ad un segreto, sono un graditissimo dono del passato. Non interessano tanto le date, istanti misteriosi del tempo che passa, ma sarebbe stato veramente bello, se avessimo potuto ammirare la gioia di quel giorno per poterla rivivere senza reticenze. Ciò nonostante, dal contesto della sua vita, si rilevano dati preziosi che ci fanno meditare l'alto concetto che egli aveva del sacerdote. Essere sa­cerdote, per Frà Matteo significava assumere il ruolo di una pa­ternità senza limiti, in virtù della quale, cambiando l'appellativo di Frà con quello di Padre, diventava l'anello di congiunzione dell'umano con il divino.
L'altare per lui è sacrificio e cattedra. In quanto sacrificio, è un motivo di riflessione che gli farà ripercorrere il cammino del­la Croce. Nessuna meraviglia se la celebrazione è accompagnata da lacrime, che non sono forme di sentimentalismo, ma indice di ricchezza spirituale. Prepararsi alla celebrazione, non era un se­guire delle prescrizioni, ma elemento essenziale della sua gior­nata. In questa prospettiva, il continuo controllo della sua vita spirituale, la confessione giornaliera, erano i preparati ordinari per la celebrazione quotidiana. La celebrazione eucaristica, così vissuta, aveva, per chi l'ascoltava, la voce del richiamo alla fon­te, era un pressante invito a salire verso la voce di Lassù.
In quanto l'altare è cattedra, la celebrazione era dialogo col divino, dal quale doveva prendere ciò che avrebbe dato a sé ed agli altri, con la parola e con l'esempio. La fame di Dio, che è pane nella divina parola, lo assorbiva in pieno, e da buongustaio del sacro, sapeva chiudere i sensi alle distrazioni per aprire a Dio un varco nelle intelligenze umane, spesso avviluppate da igno­ranza e bisognose di un precussore o di un battistrada. 
Ritorna in Provincia - In Agnone - Un desiderato incontro - Prima Quaresima in Agnone
Ritorna in Provincia - Aveva terminato il corso degli studi teologici, ne aveva conseguito il Dottorato a Bologna. Bisogna­va che tornasse nella provincia religiosa di origine, ove tanti com­piti lo attendevano. Il p. Giovanni Maria da Rimini, volle che predicasse la quaresima a Bologna, prima che partisse per la pro­vincia di S. Angelo. Altre prediche a Bologna le aveva tenute già prima che fosse sacerdote. I padri di Bologna, con fine intuito, vollero gustare la dottrina e la spiritualità del neo sacer­dote.
Tornato fra noi, pare che il convento che l'abbia avuto per primo, sia stato il Convento di Vasto. Difatti nel 1596 è superio­re e Lettore di Logica a Vasto. La stima di santo religioso e di dotto sacerdote lo circondava. Per tale motivo egli dovette ini­ziare il suo complesso apostolato e nell'interesse della provincia religiosa e nell'interesse di tante regioni che aspettavano la luce della sua parola.
La giustificata impazienza dei suoi concittadini fece pressio­ne presso il p. Provinciale per avere al più presto fra loro tanto illustre concittadino. Furono contentati. Il p. Provinciale, sulla esperienza dei Padri di Bologna, nonostante non avesse ancora il permesso di predicare, che spettava al p. Generale, lo mandò ad Agnone per predicare la quaresima. Ciò deve essere avvenuto prima del 1592 in quanto egli fu ufficialmente autorizzato a pre­dicare il 6 Dicembre del 1592, dal p. Girolamo da Polizzi, Mini­stro Generale.
 
In Agnone - La notizia del suo arrivo si è sparsa in un baleno. Tutti lo attendevano alla porta della città, per porgergli il saluto del buon ritorno, o forse per baciargli umilmente la mano, o l'abito che egli indossava, e poterlo poi accompagnare alla casa pater­na, ove, si pensava che avrebbe preso alloggio.
Lo attesero per tanto tempo, ma egli seppe arrivare quando l'attesa divenne stanchezza, per poter entrare in incognito nella sua città. Ritardò, come lo sposo del Vangelo, ed a notte fonda, quando tutti dormivano, si inoltrò nell'abitato. Non era sua in­tenzione alloggiare presso i parenti, perché, diceva: "che essen­do lui religioso, conveniva che prendesse posto presso dei Reli­giosi". Per tale motivo si diresse verso il Convento dei Frati Minori "S. Bernardino" ove fu accolto con quella devozione con cui si accoglie chi gode fama di santo. Saputosi che stava a S. Bernardino, la gente corse a gran schiere per vederlo e riverirlo. Egli si schermisce dinanzi a tanta dimostrazione di stima, con i modi più semplici ed umili, che tutti rimanevano conquistati da tanta modestia.
Si trattenne parecchi giorni presso i Frati Minori, prendendo parte a tutti gli atti comuni, alla recita del divino ufficio sia di giorno che di notte, come se fosse di quella famiglia religiosa. Il p. Giovanni Battista di Alfedena, Frate Minore, che a quel tem­po era ancora chierico, asserisce che ogni mattina andando ad aprire la Chiesa, lo trovava in ginocchio davanti all'altare del SS.mo Sacramento, assorto e spesso con il volto pieno di lacri­me.
Allo scopo di compiere meglio il suo ministero della divina parola, vide che si opponeva una difficoltà: la distanza che ogni mattina avrebbe dovuto coprire, dal convento dei Frati Minori, al paese. Si ovviò a questa difficoltà con fargli prendere alloggio presso il Convento "S. Francesco" dei pp. Conventuali; che era situato in città. La contentezza del popolo si accrebbe sino a di­ventare delirio. Ma il p. Matteo aveva nel suo animo, quasi un voto da sciogliere. Aveva sentito che era ancora viva la signora Angela di Cannatiello, moglie del sig. Mario Cellillo e madre del giovanetto, ucciso involontariamente da p. Matteo, nella sua infanzia. Egli desiderava dare inizio alla predicazione quaresi­male con un grande atto di umiltà ossia desiderava recarsi in casa Cellillo e chiedere pubblicamente perdono di quanto era successo.
La gente non pensava che avrebbe fatto tal gesto il p. Matteo, ma quando ne venne a conoscenza, assistette ad una grande pre­dica, fatta senza parole e senza pulpito, ma con tanta convinzio­ne, che tutti si sentirono attratti e commossi.
 
Un desiderato incontro - Un sogno che da tempo accarezza­va nella sua mente e nel suo cuore: incontrarsi con la signora Angela di Cannatiello, sfortunata madre di Donatantonio Cellillo, il suo intimo amico. Egli sapeva di aver causato un gran lutto, che constringeva al pianto sia lui che la madre dell'ucciso. Vole­va asciugare le lacrime di quella madre, sia pure dopo tanti anni, con un atto di umiltà. Con il pensiero è già in ginocchio davanti a Lei. Già le parla con le espressioni del pentimento, nella posi­zione di chi ha vissuto una vicenda che non avrebbe mai voluto vivere. Assume l'atteggiamento del colpevole, eppure, è ben nota la sua innocenza.
 
Prima quaresima in Agnone - Il primo giorno della quaresi­ma, prima che si portasse in Chiesa, si legò una fune al collo, in segno di penitenza, e va verso la casa nella quale non entrò più l'amico Donatantonio. La noccata che egli dette alla porta di quella casa, aveva tutto il sapore di una spinta sul cuore. Quella posi­zione di pubblico penitente si incorniciava meravigliosamente nella stima di santo in cui era tenuto. Un atteggiamento esterno ed interno al suo spirito, che gli valse altra stima e maggiore credibilità alla sua parola.
Entrò in quella casa, si inginocchiò realmente dinanzi a quella signora, e chiese, come sapeva chiedere lui, il desiderato perdo­no, e mettendosi a disposizione di un'eventuale vendetta.
L'umiltà convinta di p. Matteo, disarmò la donna, la quale, commossa sino alle lacrime, per tale gesto, prese a dire: "Frate adesso ho pianto mio figlio; da oggi in poi ti prometto che non lo piangerò più, perché prendo te come figlio; e ti vorrò sempre bene, finché vivrò" e lo abbracciò con tanto affetto. A que­sta scena di umiltà e di generosità assistette tanta gente ed alcuni dei più noti cittadini di Agnone. Una scena degna di essere tra­mandata in un candido marmo, per sfidare tutti gli insegnamenti errati della vendetta. Generosità ed umiltà si sono abbracciate, rendendo più agevole l'impresa del p. Matteo che avrebbe dovu­to predicare la forza dell'amare e del perdonare.
Il p. Matteo potè salire il pulpito della chiesa di Agnone con vero gaudio del suo spirito, avendo trovato in quel perdono, il sostegno della sua parola.
L'argomento centrale della prima quaresima predicata in Agno­ne era il perdono. Non poteva essere diversamente. Aveva sul suo palato il sapore del perdono che egli aveva gustato, e voleva che anche gli altri, aventi una base di vera colpa, ne gustassero la gioia, umiliandosi dinanzi a Dio. Per ogni tipo di peccatore ave­va una parola convincente. Ricordava a tutti la Maddalena, il buon ladrone, S. Pietro, S. Paolo, S. Agostino, e tanti altri esem­pi lampanti, in cui perdono e conversione avevano una forte at­trattiva ed un ascendente incisivo sul suo uditorio. La sua parola aveva il carisma della penetrazione dei cuori, perché egli viveva quello che diceva. Nessuna meraviglia se alle sue prediche se­guivano tante conversioni. I nemici tornavano amici, i ladri re­stituivano la refurtiva, i bestemmiatori riconsacravano la bocca con la parola del pentimento, tutti riprendevano il cammino sul­la via della salvezza, convinti di essere venuta per loro la loro luce ed il tempo di un totale capovolgimento spirituale. Gli agno­nesi, con giusta ragione potevano dire di essere arrivato per loro l'anno della grazia.
Purtroppo, anche la permanenza del p. Matteo in Agnone, volse al termine. Lo aspettavano altri compiti ed altre folle, forse sen­za pastore, che desideravano che qualcuno le prendesse per mano.
Tuttavia gli agnonesi, potevano dirsi contenti. Con il senso di una specie di gelosia, lo accompagnarono fuori le mura della città, con un voto nell'animo: costruire un Convento per i Cap­puccini, tanto ben rappresentati dal loro illustre concittadino.
Il p. Matteo, partì da Agnone, benedicendo i convertiti, ricor­dando i penitenti, riportando nel suo cuore, la gioia del buon pastore, e, come una croce sulla spalle, il rauco ricordo di chi non volle ascoltarlo. 

Oratore - il suo pensiero teologico - Assertore dell'Assunzione della Madonna

Oratore - Scorrendo l'elenco dei luoghi ove egli ha predicato si deduce con chiarezza che le città se lo contendevano per la predicazione della quaresima e dell'Avvento. Egli stesso ha an­notato, nell'unico volume delle sue prediche arrivato a noi, le città ove ha predicato, dopo di averne ricevuto la autorizzazione dal p. Generale. Fu autorizzato il 6 Dicembre 1592 dal p. Girolamo da Polizzi, Ministro Generale.
L'elenco risulta come segue:
1593 a Modena - Chiesa dei Cappuccini (Quaresima?)
1594 Avvento a Bologna e Quaresima a Castelnuovo de Terni
1595 Avvento a Boroli (?) Quaresima a Ferrara - Chiesa dei Cappuccini
1596 non predica perché malato
1597 Avvento e Quaresima a Vasto
1598 Avvento a Vasto - Quaresima ad Agnone
1599 Avvento a Manfredonia - Quaresima a Troia
1600 Avvento a Serracapriola - Quaresima a Monte S. Angelo
1601 Quaresima ad Acquaviva - Avvento a Monte S. Angelo
1602 Quaresima a Manfredonia - Avvento in Agnone
1603 Quaresima a Serracapriola - Avvento ad Agnone
1604 Quaresima a Monte S. Angelo - Avvento in Agnone
1605 Avvento ad Isernia - Non predica la Quaresima
1606 Avvento a Lucera - Non predica la Quaresima
1607 Quaresima a Vasto - Non predica l'Avvento
1608 - 1609 Non predica
1610 Quaresima ed Avvento a Serracapriola
1611 Quaresima a San Severo - Non predica l'Avvento
1612 Quaresima a Lucera -
Da uno sguardo d'insieme all'attività oratoria del p. Matteo si capisce con certezza il frutto che egli ha raccolto. Viene sponta­neo il quesito, quale fosse il segreto della riuscita. Scorrendo i cenni biografici, si ha la risposta al quesito. Due sono gli ele­menti costitutivi della riuscita: preghiera accompagnata da di­giuni e una scrupolosa preparazione teologica.
Il suo metodo era rigorosamente ortodosso: prima di parlare di Dio, bisognava parlare con Dio, ossia pregare. La sua pre­ghiera preparatoria non era soltanto una elevazione verso Dio, ma un chiedere il messaggio da trasmettere. Questa richiesta, era accompagnata sempre da rigorose penitenze.
Il frate che lo accompagnava nelle peregrinazioni apostoliche, nel vederlo digiunare tanto duramente, gli disse un giorno che continuando a digiunare così non avrebbe avuto la forza di pre­dicare. Gli rispose il p. Matteo: "A me bastano pochi frutti la sera, non voglio pane, perché non sono venuto nella religione per predicare, ma per penare, e se manco io, non mancheranno predicatori nella Chiesa di Dio, ma spero che la Bontà Divina, mi darà vigore sino alla fine". In questa risposta vi è tutta la sua umiltà e la fiducia che egli poneva nell'aiuto divino.
 
Il suo pensiero teologico - Leggendo le "Lectiones in Passio­ne Domini" si nota subito la profonda conoscenza della Bib­bia. Dalla conoscenza e dalla meditazione sulla Bibbia egli rica­va l'azione pluralistica di Cristo, il quale è l'anima di ogni cosa, non per scelta personale ma per volontà del Padre. Il suo Cristocentrismo lo esprime così:
a) Cristo è la mano ed il braccio dell'Eterno Padre; Cristo è per noi, la mamma; lui si ciba di dolore, mentre dà a noi i suoi meriti ed il suo sangue, quasi fosse il latte.
Meraviglioso quadro! Cristo viene presentato come Miseri­cordia del Padre. Il Verbo, rimanendo Dio (il braccio non si stac­cava dal corpo) viene presentato come una madre amorevole che allarga la sua comprensione e la sua affettuosità verso i figli buoni e cattivi. Questo delicato pensiero, rigorosamente ortodosso, era per lui una regola pedagogica dovendo parlare ad un uditorio, gran parte del quale aveva bisogno che qualcuno gli parlasse di Dio Misericordioso
b) Cristo è Re, non solo come Dio, ma anche come uomo, eletto, non umanamente, ma per elezione divina. Riceve la sua unzione regale, nella unione ipostatica. Cristo è Re e Predicatore oltre ad essere redentore. Essendo Re ha diritto ad insegnare.
Cristo è riconosciuto re anche nella morte. Mentre tutti i re, con la morte lasciano il regno, Cristo con la morte lo assume. Infatti il ladrone, gli chiede di farlo entrare nel suo regno ed Egli lo accetta.
Cristo è Re, unico e Sacerdote
c) Cristo è Dottore di Giustizia: perché è solo lui che giudica e la sua legge insegna la vera giustizia
d) Cristo è Redentore - Il suo patire aveva lo scopo di redi­merci ed anche di attirarci al suo amore -
e) Cristo è Legislatore: ha tutte le condizioni richieste
f) Cristo come uomo meritò, come Dio diede valore infinito a suoi meriti.
Questi accenni, raccolti come fiori sparsi, dal suo nutrito Fasciculus, ci mostrano il p. Matteo, credente, convinto e mae­stro della sua convinzione. Non predicava queste verità per con­venienza, ma perché la sua dottrina evangelica, si identificava con il suo vivere. Questo era il segreto che dava valore ed incisività al suo insegnamento.
 
Assertore dell'Assunzione della Madonna - La scuola francescana, che per essere cristocentrica è conseguentemente mariana, può annoverare tra i suoi migliori discepoli il p. Matteo. Lo possiamo definire il difensore della Madonna Assunta. Egli ne ha sempre parlato come un fatto certo e come se fosse stato già definito dalla competente autorità. La sue tesi mariane pos­sono racchiudersi nelle seguenti:
a) Colui che nega l'assunzione della Madonna è della stirpe del serpente; chi vi crede è figlio di tanta Madre
b) Doveva essere assunta perché Madre di Dio Vivente
c) È necessario credere all'Assunzione della Madonna, dato che il suo corpo non si trova in nessuna parte della terra. Se si trovasse in qualche parte della terra, senza che noi lo sapessimo, Dio permetterebbe maggiore onore alla S. Casa di Loreto che al corpo della sua Madre
d) Il corpo della Madonna fu assunto perché vi fu tratto il corpo di Cristo. Cristo è parte del tutto (la Madonna). Ora il luo­go della parte ed il luogo del tutto, è il medesimo
e) La Madonna fu assunta perché non essendovi in Lei pecca­to originale, non poteva verificarsi in Lei, il ritorno alla polvere
f) Cristo doveva assumere Maria, perché sua madre. Non po­teva lasciarla alla sorte comune.
Questi ed altri argomenti che egli porta a sostegno della sua tesi, oggi verrebbero definiti argomenti di convenienza. Rapportandoli al suo tempo, però, ci danno la visione della sua fede e del suo coraggio, e nessuno potrebbe togliere, a dette argomentazioni, una viva forza probante. Sarebbe stato estrema­mente bello se avessimo avuto anche gli altri scritti del p. Matteo sulla Madonna. Solo briciole ci sono state tramandante, che, pur essendo poche, hanno il valore di care reliquie di un passato dottrinale, sempre vivo nell'Ordine Francescano. Sono cadute da una mensa ben imbandita di elegante e soda dottrina, nelle mani di chi, dopo tanti secoli, potrà beneficiare, toccando solo il lembo della veste. 

Fondazione dei Convento dei Cappuccini in Agnone

I cittadini di Agnone, da tanto tempo cullavano il desiderio di avere un Convento dei Cappuccini nella loro città. La predica­zione di alcuni cappuccini precedentemente alla predicazione di p. Matteo, aveva entusiasmato i bravi agnonesi e predissero che in Agnone sarebbe sorto un Convento per loro. Il mastrogiurato Marcello De Blasiis assicura quanto sopra ed aggiunge che il padre aveva lasciato per testamento 300 ducati per la fabbrica del futuro Convento.
In un anno indecifrato, ma certamente prima della predicazione del p. Matteo, si recò in Agnone il p. Girolamo da Sorbo in occa­sione della Pentecoste. Il popolo pensò subito che fosse venuto per le pratiche riguardanti il futuro Convento. Gli si avvicinaro­no semplici cittadini ed artigiani, i quali si offersero di fabbrica­re a proprie spese, dicendo: "Padre se siete venuto per pigliare il luogo, pigliatelo allegramente, che' 1 volemo far noi senza che si ce impaccino li ricchi". Ma il p. Girolamo disse che era ve­nuto solo per predicare. Altri Cappuccini che si sono susseguiti in Agnone per apostolato, infervorarono sempre di più il deside­rio degli agnonesi. Si arrivò all'atto pratico solo nell'aprile del 1598, in occasione della quaresima predicata dal p. Matteo da Agnone. Il culmine dell'entusiasmo si raggiunse per la santità vissuta dal detto padre. Si tenne un pubblico consiglio comuna­le, presieduto da Marcello De Blasiis, e "omnibus clamantibus" si chiese di chiamare i Cappuccini in Agnone.
Si diede inizio all'iter burocratico, che per quanto allora fosse molto sbrigativo, pure incontrò molti ostacoli.
Il primo ostacolo fu il Vescovo diocesano Mons. Giulio Cesare Mariconna, Frate Minore. Egli diceva di non volere i cappuccini in Agnone per motivo che già vi erano altri Ordini Mendicanti. In realtà dietro al Vescovo vi erano alcuni religiosi con interessi pretendenti.
Le molte opposizioni gagliarde da principio, fatte dal Vescovo e d'altri durarono fino al 1605, quando per l'intervento della prin­cipessa di Stigliano e baronessa di Agnone, si ottenne il permesso direttamente dal Papa Clemente VIII, di cui la principessa era pa­rente, di costruire il Convento dei Cappuccini in Agnone.
Ottenuto il permesso dal Papa, si venne alla scelta del sito. Sembrava un fatto semplice, non mancarono, però, alcune dif­ficoltà. Le località in ballottaggio erano tre: il Cancello, la Ripa e la Croce. Tutti volevano che il convento sorgesse nella propria zona. La discussione arrivò a toni alti. La soluzione aveva del­l'impossibile. I Frati presenti, chiamati per avere il loro gradi­mento, si trovano dinanzi ad un entusiasmo pericoloso.
Oltre al p. Matteo da Agnone era presente il p. Francesco da Manfredonia, religioso di santa vita e il p. Francesco, portoghe­se, complessivamente dodici Frati, i quali, vedendo ciò che stava succedendo, decisero in un primo momento di desiste­re dall'idea della costruzione del Convento. Poi il p. Francesco da Manfredonia, quasi ispirato, prese la parola e, con vehementia grande, disse: "Fratelli miei fino adesso vi siete consigliati con gli uomini, lasciando da parte Iddio, e siete rimasti confusi accordandovi. Rimettiamo il negozio a Dio, tirando la sorte e bussolando". La proposta piacque. Furono preparati tre biglietti, ognuno con il nome di una delle tre contrade.
Prima che si estraessero i biglietti, tutto il popolo, con i Frati, si inginocchia per pregare. La gente recita tre Pater e tre Ave Maria, mentre i Frati recitarono il Veni Creator, per invocare lo Spirito santo. Finite queste preghiere, si incominciò l'estrazione. Il primo biglietto porta il nome della contrada "la Croce". Il p. Francesco da Manfredonia subito si alzò e disse: "Ora, ecco la volontà di Dio; che volete di più?" Non si contentarono, ma pre­tesero che l'estrazione si ripetesse per tre volte. Il paziente p. Francesco accettò la controposta, e per tre volte l'estrazione por­tò il biglietto con la scritta "la Croce".
Il 14 Settembre, festa dell'Esaltazione della S. Croce, fu il gior­no della posa della prima pietra, era venerdì. Per gli agnonesi era giorno di gioia perché si realizzava il desiderato sogno.
Intervenne il Vescovo diocesano, il quale dovette fare di ne­cessità virtù. Il discorso commemorativo fu tenuto dal p. Francesco da Apricena. Ci fu chi nonostante l'entusiasmo gene­rale, molti infatti s'alzarono, con corde, ferri, zapponi ed altri istromenti a disegnare la novella pianta del nostro luogo...', che disse alla presenza del p. Matteo, del sig. Marcello De Blasiis e del sig. Giuseppe Carissimo, che si sarebbe iniziati i lavori, ma non si sarebbero finiti. Anzi disse: "Allora potrò io morire, quando vedrò incominciati i lavori della copertura". Lo stesso giorno in cui si iniziò il lavoro di copertura, quel poverino morì.
Con meraviglia e contentezza di tutti, pian piano, con la col­laborazione di uomini e di donne, che si prestavano specie nei giorni di feste, la costruzione fu terminata nello spazio di tre anni, accompagnata dalla grazia divina e dalla preghiera con­stante del p. Matteo.
La chiesina, semplice e devota, ebbe il titolo di S. Maria di Costantinopoli per espresso desiderio del mastrogiurato Marcello De Blasiis, il quale attestava che la devozione verso la Maadonna sotto detto titolo era molto diffusa nel Regno, e che ad Agnone non vi era nessuna chiesa che avesse tal titolo. I Frati dovettero cedere al desiderio del loro benefattore, mentre essi avevano già pensato di dare alla loro chiesa il titolo di S. Maria dello Spa­smo, tenuto presente che il Convento era sorto nella località del­la "la Croce" e che nel giorno della Esaltazione della Croce eb­bero inizio i lavori della costruzione.
I Frati cappuccini, accolti con tanto entusiasmo, sono seguiti con affetto in tutte le loro necessità. Durante il lavoro di costru­zione del Convento, furono ospiti in una casa del sig. De Blasiis, il quale e come privato cittadino e come mastrogiurato dimostrò quanta gioia egli nutriva per i poveri Cappuccini. 

Efficacia della sua preghiera

Il sig. Biagio De Porfirio, di Agnone, aveva una famiglia nu­merosa. Unico cespite un pezzetto di terra seminativo. Quando fu scelto il sito per la costruzione del convento, fu incluso anche quel pezzetto di terra. Vedendosi privato anche di quel sostenta­mento, assaggiava già i morsi della fame nella sua famiglia. I lavori erano iniziati ed il campo era ormai distrutto. Prese corag­gio e si presentò con le lacrime agli occhi, dal p. Matteo. "Come farò, padre, diceva al p. Matteo, ho tante bocche da sfamare, la mia famiglia patirà gran detrimento".
Il p. Matteo, lo ascolta quasi con un sorriso sulle labbra, un sorriso che stonava dinanzi ad una scena di una probabile fame. Egli sorrideva, perché sapeva che la Provvidenza sarebbe in­tervenuta. "Non temere, figliolo, rispose il p. Matteo, ti farò sod­disfare in pieno dai deputati alla fabbrica, né sopporterò che tu abbia a patire un dramma di interesse; confida in Dio che io ti assicuro che quest'inverno non mancherà pane ai tuoi figlioli, e per la carità e per lo scomodo che tu tolleri per i Cappuccini, la Pietra Divina te ne darà mercede con questo segno evidente, che nella tua arca non mancherà pane".
Il signor Porfirio asciugò le sue lacrime con la certezza nella quale il p. Matteo lo aveva indotto con tanto garbo e con tanta fiducia nella Divina Provvidenza. Difatti, gli venne pagato subi­to il prezzo del campo, e durante l'inverno non solo non patì la fame, ma per ben venti volte trovò nel suo cesto varie forme di pane, molto più grandi di quelle che era solita fare la moglie. Meravigliato e confuso dinanzi a simili costatazioni, rese di pub­blico dominio "a piena bocca" l'accaduto; dicendo: "Non biso­gna dubitare, questo nostro p. Matteo, è un santo; egli ha lo spi­rito di profezia, perché quanto mi predisse è avvenuto; ne sia ringraziato Iddio". 

Manca il vino agli operai

Erano giorni estivi, e gli operai che lavoravano alla costruzio­ne del Convento volevano asciugarsi il sudore con un buon bic­chiere. Il p. Matteo si compenetrò, e, presa la bisaccia sulle spal­le; andò di porta in porta. Si presentò alla casa del sig. Vincenzo Cellillo, benestante del paese. Ne chiese alla signora Giulia che già aveva detto di no al frate cercatore. Al p. Matteo disse che la botte era vuota ma che gli avrebbe dato quel poco che aveva conservato per il marito. Il p. Matteo espose il desiderio di anda­re in cantina, non perché dubitasse di quanto gli era stato detto della signora, Giulia, ma perché sapeva che era prossimo l'inter­vento della Provvidenza. Scese in cantina, fece un devotissimo segno di croce e poi ordinò di aprire le cannelle. Venne fuori tanto vino da far meraviglia a tutti.
Quel vino durò circa un mese, sia per l'uso della famiglia Cellillo che per i Frati che ne andavano sempre a chiedere. Questa notizia prese subito il largo e si aggiunse a tante altre che rendevano sempre più venerabile la figura del p. Matteo. 

Si trova denaro per continuare la costruzione del Convento

Il capomastro ed economo della fabbrica del Convento, Girolamo Lombardi, nota che tutte le offerte sono finite; non può più pagare gli altri maestri e gli operai.
Pensa che di offerte non ne arriveranno più. Unica soluzione per lui, spezzare i lavori e riprenderli in tempi migliori. Prima di decidere in tal senso, volle avvicinare il p. Matteo e metterlo al corrente. Il p. Matteo lo ascoltò e poi, con volto gioviale rispose: "Non dubitare figliolo, sta pur allegramente, che non manche­ranno i quattrini, e benché a questo momento io non sappia e non possa rimediare, tuttavia, che ha da fare la Madre nostra?
Andate a lavorare che spero che la madre Vergine gloriosa, che è la nostra Madre, ci provvederà di denari quanto prima".
L'indomani sull'altare della Madonna, si trovano 60 scudi e non si potè mai sapere chi fosse l'offerente.
Questi ed altri interventi del Signore e della Madonna, avve­nuti per intercessione del p. Matteo, accompagnarono i primi passi di vita del Convento dei Cappuccini in Agnone. 

Maestro dei Novizi - Professore

Maestro dei Novizi - Questa carica comporta la grande re­sponsabilità della formazione morale e spirituale degli aspiranti all'Ordine. Arduo compito in virtù del quale si mostra al novizio la bellezza della regola ed i vari impegni che si assumono da parte di coloro che decidono di abbracciare la Regola stessa. Per infondere nell'animo del novizio l'amore alla vita claustrale è necessario che il Maestro conosca e viva la Regola.
A questo delicato incarico fu eletto p. Matteo. L'obbedien­za lo trovò pronto, l'umiltà gli creò dei problemi di coscienza giudicandosi indegno di quel compito. La scelta, però, fatta dai Superiori, fu ispirata. Le sue esperienze di vita spirituale avreb­bero giovato molto ai giovani candidati. Messo da parte il senso della sua umiltà, abbracciò il compito con tutto il fervore, ve­dendo nella volontà dei superiori, quella di Dio.
Il suo metodo educativo aveva questo segreto pedagogico: perfezionare se stesso per dirigere gli altri. Primo punto del pro­gramma: pensare a se stesso, non in senso egoistico, ma perché era convinto che non c'è vera pedagogia se la parola dell'inse­gnamento non è accompagnata o addirittura preceduta dai fatti. Il Maestro dei Novizi, più di ogni altro, non deve contentarsi della parola, condizionata da tradizioni superficiali, ma deve es­sere modello degli iniziati. L'esercizio continuo nel progresso spirituale dava a lui la forza dell'insegnamento, rinvigoriva la parola, spronava alla cosciente imitazione e la sua voce, sia che esortasse, sia che ammonisse, vibrava all'unisono con la voce del cuore. Con i novizi era semplice e familiare, sforzandosi di essere uno di loro, come una mamma tra i figli. La sua presenza era incoraggiamento fraterno ed aveva il valore della massima incisività.
I dialoghi formativi che egli faceva con i novizi vertevano su questi temi: esame di coscienza, confessarsi bene, orazione men­tale, come vincere le passioni, compostezza religiosa.
Il buon direttore spirituale vede subito quanta sapienza si na­sconda in questi temi e quanto valore essi abbiano per una seve­ra vita inferiore. Egli da vero conoscitore delle esigenze spiri­tuali del giovane, aveva puntato bene il dito.
Il valore pedagogico del suo insegnamento non lascia possi­bilità ad incertezze. Il continuo pensare a non offendere la co­scienza equivale ad una volontà che si esercita a sfuggire ogni possibile deviazione, a prepararsi alle battaglie dello spirito, nella rosea prospettiva della vittoria. Egli lo aveva sperimentato in se stesso questo metodo, e, a parte il suo innato senso di umiltà, ha dovuto registrare doverosamente, i frutti ricavati.
L'animo del giovane novizio, plasmato da mani maestre, po­teva accedere lieto e giulivo all'abbraccio della rigorosa obbe­dienza, dell'altissima povertà e della eroica castità. Il pensiero di essere veicolo di Grazia per le anime dei novizi, lo teneva impe­gnato per non deludere la sua coscienza e le aspettative degli altri. Era premuroso perché il lavorio della Grazia non cadesse invano e non fosse deteriorato da correnti opposte. Passioni, vec­chie usanze, abitudini mondane dei giovani, erano per lui moti­vo di vera preoccupazioni. Desiderava che i giovani sentissero il gusto della rettitudine, e che tale gusto fosse un profondo e sen­tito connubio, un vero giuramento, con lo stato di Grazia.
Nel Convento di Vasto non contento di insegnare con la parola e con l'esempio, scrisse anche un volumetto, per uso dei novizi cappuccini, il cui titolo era "Quarantacinque motivi spiri­tuali divisi con ordine per tutti i giorni della settimana" e che aveva lo scopo di "sollevare il cuore dalla terra al Cielo".
Un altro scritto dal titolo "Proteste per l'ora della morte" era indirizzato essenzialmente ai suoi novizi, ma se ne servivano tutti i religiosi della provincia per essere affettuose e devote.
Peccato che questi fiori della sua spiritualità, non siano arri­vati a noi, subendo la sorte di tanti altri suoi scritti. Forse la gelosia del comune avversario ha contribuito a disperdere nel tempo quei beati pensieri che avrebbero certamente costituito un prezioso cimelio del p. Maestro Matteo. Avrebbero detto anche a noi la parola che veniva pronunziata quando il conven­to era spoglio e freddo, la mensa povera, il saio ruvido, dando vita più forte, anche a distanza di secoli, a quella tradizione spirituale che forma l'ossatura della pedagogia francescana e cappuccina.
 
Il professore - Alla santità della vita, a tutti ben nota, tanto da essere descritto e definito... "Quest'huomo di Paradiso" con­giungeva una soda dottrina teologica e filosofica. I superiori cre­dettero bene di dargli l'incarico di Lettore ossia di Professore, della scuola di teologia degli studenti cappuccini. Aveva tutti i requisiti anche per quest'altro compito, delicato, quanto il pri­mo, perché si trattava di preparare culturalmente i candidati al sacerdozio.
Il suo metodo didattico era scheletrico, parole semplici, in modo da essere capito da tutti senza alcuna difficoltà. Il giudi­zio dello storico è che egli era dotato e di profonda dottrina e di estrema chiarezza di esposizione, una combinazione felicissi­ma per un professore di coscienza, pari suo. Infatti è scritto di lui che "era di intelletto perspicace, aveva gran dono di natura nel comunicare le più difficili questioni con meravigliosa faci­lità e chiarezza; onde da tutti era capito e senza difficoltà ap­preso". Inoltre è detto di lui anche che la sua dottrina e chiarezza di esposizione era "la maggiore che fra i dottori si ritrova e che poteva pareggiare «con li primi della Reli­gione»".
Quello che meraviglia sempre di più è il suo senso di umiltà in forza del quale egli si riteneva "sempre indotto, e reputava ignorante".
Il profumo attraente della sua dottrina e della sua modestia, lo pervadevano nel suo incedere e nel suo conversare. Era questo il segreto dell'attrazione che esercitava sui Frati e sui civili.
Un giorno che il sig. Cesare Gonzaga, principe di Guastalla e di Molfetta e padrone di Serracapriola, venne a Serracapriola per affari di famiglia, il p. Matteo volle andare ad ossequiarlo.
Questi, versato in filosofia, e sapendo che il p. Matteo era versato in varie discipline, "attaccò seco un discorso litterale" e rimase meravigliato della competenza del p. Matteo, ma più an­cora della modestia. Tanto che, appena uscito il p. Matteo per ritornarsene al convento, disse ai suoi parenti: "Parmi invero che Adamo non abbia peccato in quest'uomo". I parenti che cono­scevano il p. Matteo molto bene, confermarono "a piena bocca" quanto aveva detto il principe.
Egli, che a buon diritto fu definito "Splendore di questa Pro­vincia di S. Angelo" ci insegna che la dottrina della mente e quella del cuore sono inscindibili, per chi vuol vivere una testi­monianza autentica. 

Superiore locale e Provinciale - Visitatore della Provincia dei Cappuccini di Bari

Superiore locale - I conventi che hanno avuto il p. Matteo come superiore, sono, Vasto, Serracapriola ed Agnone.
Risiede a Vasto con la duplice carica di Superiore e Lettore di Logica nel 1596. Non sono definiti gli anni in cui è stato a Vasto, è certo che vi è stato anche con la carica di Maestro del Noviziato. Ve lo ritroviamo superiore locale nel 1603. A Serracapriola è Superiore locale nel 1602. Ad Agnone nel 1613.
 
Superiore Provinciale - La stima da cui era circondato in provincia, le sue doti, le sue capacità di governo, non potevano essere dimenticate in occasione del capitolo o assemblea elettiva triennale. Prima che si convocasse detto capitolo, venne in pro­vincia. Visitatore generale, il p. Basilio da Napoli, nel 1598 mandato dal p. Girolamo da Sorbo, Ministro Generale. Visitata la provincia si rese conto che vi era bisogno di un superiore pro­vinciale che rispondesse ancora meglio alle esigenze della pro­vincia stessa. Fu indetto il capitolo e fu scelto il convento di Frosolone per le elezioni. Vi partecipò il p. Matteo nella qua­lità di superiore del Convento di Vasto.
Non pensava affatto che stava per essergli dato il sigillo del comando. Fu eletto a pieni voti. Accettò ed impresse con il suo stile, una nuova vitalità negli animi dei religiosi.
La provincia era composta di 17 Conventi, di cui due erano case di noviziato. 59 Sacerdoti, 12 predicatori, 26 chierici e 67 fratelli non chierici: un totale di 164 religiosi. Una provincia in fase di ascesa in numero e qualità di soggetti. Vivevano infat­ti, molti bravi religiosi di cui nomino alcuni: p. Giovanni da S. Severo (+ 1631), p. Giambattista da Cerignola (+ 1633), p. Atanasio da Capua (+ 1614), p. Francesco da Apricena (+ 1614, frà Antonio da Lecce (+ 1622), frà Pacifico da S. Elia a Pianisi (+ 1627), frà Antonino da Castagna (+ 1624), p. Francesco da Altamura (+ 1625), frà Bonifacio da Frosolone (+ 1624) e tanti altri contemporaneamente. Egli era stato eletto superiore di una provincia di santi. Arduo compito questo, ma per lui, tanto avan­zato nella spiritualità, non ci furono ostacoli. Santo tra i santi, ha saputo dare una nuova spinta verso la meta, con forza e dolcez­za.
Nel 1599 si tenne il capitolo intermedio a Campobasso ed egli venne ugualmente a pieni voti, riconfermato. In questo stes­so anno egli partecipa al Capitolo Generale tenutosi a Roma il 28 Maggio, in cui venne eletto Generale il p. Girolamo da Castelferretti e quarto definitore generale il p. Lorenzo da Brin­disi (San) per la seconda volta.
La relazione sulla provincia portata a Roma dal p. Matteo, in detta occasione come è costume dell'Ordine, consiste unicamen­te in una lista, comprendente lo stato del personale e dei Con­venti, e risulta così compilata:
Vicario Provinciale: p. Matteo da Agnone
Lettore di Teologia: p. Serafino da Senigallia
Guardiani: Vico - p. Francesco da Vico Rodi - p. Marco da Milo Manfredonia - p. Clemente da Apricena S. Giov. Rot.  – p. Bonaventura da Cerignola
Foggia - p. Ambrogio da Lucera Apricena - p. Francesco da Manfredonia Torremaggiore - p. Francesco da Larino Serracapriola - p. Gregorio da Manfre­donia
Larino - p. Ludovico da Circello Vasto - p. Francesco - portoghese Trivento - P Michele da Toro Frosolone -p. Francesco da Serracapriola Isernia - p. Matteo da S. Severina Campobasso - p. Francesco da Altamura S. Marco la Catola - p. Paolo da Monte S. Angelo
Luoghi di fabbrica: Monte S. Angelo ove è presidente p. Bernardo da Manfredonia - Luoghi 17 - predicatori 12 - sacerdo­ti 59 - chierici 26 - Laici 67.
Nel luglio del 1600, anno santo, sotto la presidenza del Gene­rale p. Girolamo da Castelferretti, si tenne il Capitolo a Lucera e fu rieletto il p. Matteo, completando così il triennio.
Visitando la provincia conveniva in coro sia di giorno che di notte, prendendo parte a tutti gli atti comuni. Non voleva cibi particolari. Più volte all'ora della sveglia, fu trovato in cucina a lavare le stoviglie recitando devotamente salmi ed inni spiritua­li. Compativa molto i difetti dei Frati, e quando ne veniva a co­noscenza in segreto, non vedeva il momento che il frate ne aves­se pentimento, e non riposava finché non avesse posto rimedio per il bene spirituale del confratello.
Una volta un frate del convento di Isernia se ne uscì senza permesso. Leggerezza e tentazione lo indussero a quel gesto. Poi tornò indietro. Sentendo il p. Matteo che il frate fuggitivo stava tornando, tutto contento gli andò incontrò, lo abbracciò dicendogli: "Sii il benvenuto o mio figliolo, non ritorni invano, poiché troverai perdono nella casa patema". A somiglianza del padre del Figliuol prodigo del Vangelo, disse a tutta la comunità.
"È necessario che questa sera facciamo festa grande, perché abbiamo recuperata la pecorella già smarrita". Difatti la comu­nità partecipò alla festa del ritorno.
Un altro aneddoto ci è stato tramandato, dal quale traspare il basso concetto che egli aveva di sé. Se riferisce anche al periodo che egli era Provinciale. Mentre si portava a visitare i conventi della Montagna in compagnia di alcuni altri confratelli, data la stanchezza dovuta al viaggio a piedi, arrivato vicino ad un ruscello, volle sedersi, sotto un albero e mangiare un tozzo di pane con i fratelli. Mentre stavano a consumare quel pane, si avvicina un giovane bifolco che gli dice: "Ecco, la vostra vita Padre, la spendete tutta in ricreazione". I frati che sapevano quanti chilometri avevano fatto a piedi, avrebbero voluto rispondere, rendendo ragione di quel meritato riposo. Il P. Matteo invece senza turbarsi, disse: "Hai ben ragione figliolo, di accusare le nostre imperfezioni che sono grandi". Senza continuare a man­giare, se ne partirono per arrivare al convento che avrebbero dovuto visitare per prima. I frati che accompagnavano p. Matteo portavano con sè il ricordo di quelle parole mordaci dette loro dal contadino, e le parole virtuose dette dal p. Matteo.
Il giudizio dei cronisti sul provincialato del p. Matteo, è estre­mamente positivo. Il p. Gabriele da Cerignola dice: "... fu elet­to il p. Matteo d'Agnone nelle cui mani stette saviamente e prudentemente amministrato il governo della Provincia". "Si mostrò molto atto ai maneggi del governo, dimostrò som­ma vigilanza nel custodir la sua greggia, ... profondo consiglio nel presiedere e provvedere ai bisogni dei conventi, gran zelo nel punire i cocciuti e gran mansuetudine nel perdonare gl'umi­liati..: compativa grandemente gli imperfetti... bramava man­tenere in piedi l'illibata osservanza regolare, l'emenda dei di­fetti...".
Dalle linee tracciate dai cronisti si può desumere che fu una guida forte e sicura, ed alla fine del triennio è stato certamente rimpianto, ma le leggi dell'avvicendamento erano rigide. Si ten­ne il Capitolo nel Convento di Manfredonia nel 1601 e vi fu eletto come successore del p. Matteo, il p. Francesco-portoghe­se, soggetto degno del suo precedessore.
 
Visitatore della provincia dei Cappuccini di Bari - Esone­rato dalla carica di Superiore Provinciale egli pensava di poter rimanere libero dalle prelature per dedicarsi alla preghiera ed alla predicazione. Il desiderio dei Superiori Generali contrasta­va con il suo. P Girolamo da Castelferretti, superiore generale, nel 1601, ossia appena finito di essere provinciale nella sua pro­vincia di S. Angelo, lo nominò Visitatore della Provincia di Bari.
Il compito di Visitatore, comprende uffici delicati riguardanti questioni e osservanza Regolare di una provincia religiosa. Egli, in tal carica, era il rappresentante del p. Generale. Com­preso di tante responsabilità, egli mise nel suo programma uni­camente il bene dei confratelli della provincia limitrofa. Prese con sè, quale consulente, il p. Tommaso da Trivento e si avviò verso la provincia di Bari. Il viaggio fu effettuato certamen­te nei mesi estivi, in quanto egli nel 1601 predicò quaresima ed Avvento ad Acquaviva ed a Monte S. Angelo.
Il cronista sottolinea questo viaggio nel tronco Foggia-Ceri­gnola. Su questo tratto, dimenticanza e Provvidenza si incontra­rono. Prima di partire non si curarono di prendere con sè "qual­che cosellina" per potersi rifocillare lungo la via. Avevano fatto buona parte del viaggio, ma le forze venivano meno per la fame e per la sete. Fame, sete e stanchezza, elementi negativi per il viaggio da fare ancora. Il p. Tommaso, risentì per primo di detti elementi, e cadde sfinito a terra. Era quasi notte e non vi era la possibilità di chiedere aiuto, perché nessuno passava.
Tutto faceva prevedere che avrebbero passato la notte in quelle condizioni. Il p. Matteo ed altri due frati che facevano parte della delegazione, non avevano perso la fiducia nella Provvidenza.
Non furono delusi. Improvvisamente appare un giovane di bello aspetto, compatendo la stanchezza dei Frati, diede al p. Tommaso due bellissimi pani bianchi, dicendogli di darne anche agli altri. Offrì anche un po' di vino in una zucca. Naturalmente nacque nei frati la meraviglia e curiosità per l'improvvisa appa­rizione del giovane. Lo invitarono a mangiare con loro, ma ri­spose che aveva altro da fare. Consolò i Frati con dire che Cerignola era vicina. Pochi passi ed il giovane disparve. Angelo della Provvidenza? Uno di quelli che bussavano alla porta del convento, portando cibo ai Frati, colti da disavventure atmosfe­riche?
1 Frati della comitiva furono convinti che un angelo avesse portato loro il necessario soccorso. Proseguirono lodando il Signore per averli soccorsi.
Visitando la provincia di Bari, diede prova della sua prudenza e della sua paternità. Finita la visita canonica, riunì il capitolo provinciale, ed i Frati baresi rimasero tutti soddisfatti del suo comportamento, ed edificati per la esemplarità della sua vita.
Terminato questo delicatissimo compito nella provincia di Bari, tornò nella sua nativa provincia di S. Angelo, fu nominato defi­nitore provinciale con l'incarico di Lettore, ed in questi compiti viene assegnato al convento di Serracapriola.
Riprese la sue attività di professore e di oratore, ma più di tutto riprese il suo ritmo giornaliero di osservanza e di mortifica­zioni. 

Metodo di vita - La sua spiritualità

Metodo di vita - La sua giornata era così suddivisa: S. Messa con rispettiva lunga preparazione e ringraziamento, recita del divino ufficio sia di giorno che di notte, preghiere e devozioni personali, studio, poco cibo, poco riposo.
Una suddivisione così programmata, non dava tempo e luogo all'ozio. Per tal motivo il convento gli era caro. Il luogo preferito era il coro o davanti all'altare del Santissimo Sacramento. La preferenza che dava a detti luoghi era dovuta alla meravigliosa convinzione che lì gli angeli lodano il Signore. Tale convinzione era una regola di vita: il primo tocco di campana che chiamava i Frati alla recita delle divine lodi, lo trovava al suo posto, tutto raccolto, non per farisaica osservanza, ma spinto dalla viva fede nei valori trascendentali della preghiera. Quando per motivi ine­renti alla carica di Superiore era costretto a trattare anche di cose materiali, con la gente, appena sentiva il segno della campana, gentilmente si congedava dal suo interlocutore dicendo: "Que­sto è il segno di andare a trattare con Dio, bisogna lasciar da parte ogni cosa del mondo". Questo modo di agire, non è atto di eroismo, ma significa dare alle cose, il dovuto ordine. Chi vive di Dio, deve amare ogni tipo di ordine, nel quale interessi materiali e spirituali di ciascuno e di tutti vengono posti nel gra­do che loro compete.
Questo suo ordine di vita, era maturato alla luce dei suoi inte­ressi spirituali ed in vista di quelle future attività cui la Provvi­denza lo chiamava.
 
La sua spiritualità - Facendo la diagnosi della sua vita spiri­tuale, si ha che la componente base è la Fede.
Essa affiora in ogni suo gesto, dal più semplice al più impe­gnativo. Non è una sovrastruttura, dovuta all'ambiente in cui è vissuto, ma una convinzione ragionata e vagliata alla luce dei suoi profondi studi teologici. La qualifica della sua Fede e della sua dottrina teologica, è essenzialmente Cristocentrica. Tutte le sue attività spirituali sono indirizzate e concentrate sul Gesù del­l'altare e della Croce. Non è disgiunta, dall'adorazione al Figlio la tenera devozione per la Madre santissima. Gli elementi della sua spiritualità sono Gesù e la Madonna. L'aneddotica arrivataci dice chiaramente che la sua attrattiva principale era Gesù Euca­ristico. Le ore che passavano velocemente, erano quelle che trascorreva dinanzi all'altare, sempre con le ginocchia a terra. Nel suo animo d'uomo giusto e nella sua mente di teologo, face­vano dolce gara, la devozione dell'umile e la gioia del dotto. Tutti i misteri della vita di Cristo, passavano davanti a lui, nelle sue meditazioni eucaristiche. Contempla sotto quei sacrati acci­denti l'incarnato Verbo, verace Figlio di Dio, fatto cibo dei viato­ri, l'adorava come Creatore e Redentore. A queste fonti attin­geva maggior forza la sua fede, e scrutando quei misteri, quasi incosapevolmente, chinava la testa sino a terra. Dinanzi all'alta­re passa le ore in posizione di estatico. Il tempo non conta. La notte equivale al giorno, ed egli, stando dinanzi all'altare, si tro­va innestato sull'Eterno Presente, mentre vive ancora gli attimi fuggenti della vita che logora il corpo con il martellare delle ore. La sua gioia spirituale, generata dalla sua profonda fede, lo inve­stiva tutto, nelle ore della preghiera.
Voleva partecipare la sua gioia a tutti i Frati, quando li esorta­va a compiere il servizio della Chiesa, non come un fatto umano, ma in relazione a Colui che vi abitava silenziosamente.
Per tal motivo voleva che i paramenti dell'altare fossero ben adorni, mondissime le tonaghe, le vesti sacerdotali e tutte l'altre cose al culto divino destinate.... L'esempio precedeva le sue disposizioni che egli dava quando era superiore. Il servizio dell'altare gli procurava tanta gioia, da fargli dimenticare i forti do­lori della podagra.
Un giorno, approfittando che i dolori della podagra, si erano alquanto diminuiti, appoggiato ad un bastone si recò in Chiesa per celebrare. Finita la celebrazione della Messa; in compagnia di un Frate che lo aiutava a camminare, se ne usciva dalla Chie­sa. Senti il campanello che annunziava il Sanctus di un'altra Mes­sa, si girò e con grande sforzo se spingea per tornare in Chiesa e potersi trovare all'elevazione del Santissimo presente. Il Frate che lo accompagnava, vedendo che si trascinava con gran fatica, lo esortò "gentilmente" ad aver pietà dei suoi piedi gonfi. Il p. Matteo rispose: "Oh figlio, i magi camminarono dodici giornate, e vennero sin dall'Oriente, con gran fatica e stenti, per adorare il nato Bambino Salvatore, e noi stiamo a quattro passi distanti e non vogliamo andare ad adorarlo". Tornò in Chiesa e fece la sua adorazione esortando il Frate a fare lo stesso.
Significativo un altro aneddoto. Stava in Agnone, e, nel gior­no del Corpus Domini, partecipò alla processione del Sacramen­to. Tutte le strade erano addobbate con drappi e coperte.
Quando i Frati tornarono in Convento, uno di essi chiese al p. Matteo se gli fossero piaciuti gli addobbi della chiesa. Rispose: Non ho visto altro che il Santissimo Sacramento, e questo ho portato sempre davanti agli occhi della mente, nè altra cosa terrena mi son curato di mirare".
Questi brevi tratti della sua vita eucaristica, arrivati a noi come il guizzo di un faro nella notte, ci fanno vedere quanta forza veniva al p. Matteo dalla sua fede nel Sacramento dell'altare.
 
La Madonna - Il secondo elemento della sua vita spirituale era la Madonna. Non poteva essere diversamente.
Egli che aveva puntato il suo obiettivo su Cristo, con rigorosa logica, doveva guardare a Maria. Ha scritto della Madonna con rara competenza, e con tutta la forza del suo raziocinio teologi­co. Abbiamo già visto il suo deciso atteggiamento a favore del­l'Assunzione della Madonna. Su questo argomento, la sua paro­la è viva come la certezza di un domma. La sua devozione alla Madonna, non ha neppure l'ombra del sentimentalismo, ma è vera teologia mariana. Egli dimostra, con il rigore della sua logi­ca, in 41 tesi, la posizione teologica di Maria nel piano della Redenzione. Eccone alcune: Maria essendo stata obbediente, - non soffrì dolore alcuno nel parto e non fu soggetta alla corru­zione della morte; a Maria Regina, sono comunicati tutti i privilegi di Cristo Re; Maria è l'arca santa, dinanzi alla quale gioì Davide; è la Donna forte desiderata dal Sapiente, l'Arca di Noè e la figlia che ha superato tutte le altre coetanee. La solennità dell'Assunzione di Maria, è raffigurata dalla solennità con cui Davide introduce l'Arca santa nella sua città. Questi ed altri temi sono le basi della sua devozione alla Madonna.
In lui studio sulla Madre di Dio e devozione verso di Lei, sono elementi inscindibili. Egli dimostra rigorosamente che è impossibile, non amare la Madonna, dato il sostanziale legame tra il Figlio e la madre. Da questo contesto profondamente teolo­gico, si deduce con certezza matematica che le sue preghiere e la devozione alla Madonna, non sono fatte di sterili formule ma sono un dialogo, un incontro vivace ed affettuoso del figlio con la Madre.
Quest'incontro era continuo, ed era fatto, di scambi di doni, di richieste a favore di tante anime bisognose. Il suo animo godeva immensamente di poter stare ai piedi di tanta madre, e prendere a piene mani, e distribuire generosamente, il messaggio mater­no. In cambio di tanta gioia che gli veniva da questi incontri, egli rispondeva con la parola del semplice devoto recitando il rosa­rio, l'ufficio della Madonna tutti i giorni, offrendo a Lei, come un dono delicato o un mazzetto di fiori, le sue sofferenze fisiche e morali.
Era suo impegno di non mancare mai alla recita del breviario in coro. Quando, per motivi di salute era impossibilitato a recar­si nel coro ne era tanto dispiaciuto, ed offriva tale dispiacere come fioretto alla Madonna. Da uno degli aneddoti trasmessici dal cronista, possiamo dedurre quanto fosse gradito alla Madon­na tale fioretto.
È la vigilia dell'Assunta; il p. Matteo giace a letto, infermo, nel convento di Serracapriola. E suonata la campana che chiama i Frati alla recita del vespro. Egli sente la recita dei salmi, sa che l'indomani è la festa della Assunzione della Madonna, tanto da lui difesa, ma non può unirsi ai Frati. Volge il pensiero alla Ma­donna, quasi a chiedere scusa per il mancato appuntamento, e si contenta di seguire con la mente il canto dei Frati.
Un meraviglioso usignolo, viene subito a posarsi sul piccolo davanzale della sua finestra e canta, canta tanto bene, per tutto il tempo della recita del Vespro. Finita la recita, finisce il canto dell'uccello che riprende il volo. Non era il solito uccello in cer­ca di mangime. Portava il messaggio della Madonna, per conso­lare l'animo dell'umile devoto.
Il p. Matteo, vide in quell'uccello un pensiero delicato della Madonna, rimase meravigliato e contento, con giusta ragione, lui il poeta ed il difensore di Maria. 

Amava la sua celletta

Il cronista insiste molto su quest'aspetto; ne fa un oggetto del­la devozione del p. Matteo. Quattro mura tappezzate di immagi­ni sacre e di detti della S. Scrittura, una piccolissima finestra, simile piuttosto ad una feritoia degli antichi castelli, per pavi­mento terra battuta, un tavolino, una sedia, un misero pagliericcio su alcune tavole: tutto qui la sua cella. Se dessimo uno sguar­do a ritroso nel tempo, e ci fosse permesso di vedere quella cella, ci porremmo il quesito: come si fa ad amare un cubicolo, senza la gioia del sole, senza un largo respiro di aria?
A questo interrogativo risponde lo stesso p. Matteo dicendo: "Siccome il pesce fuor dell'acqua, privo del proprio alimento e natural nutrimento, necessariamente muore, così il religioso va­gabondo, che senza inevitabile necessità, esce dal monastero, s'espone a' combattimenti del senso, agli assalti del demonio agli allettamenti del mondo, e corre manifesto pericolo di cadere nella colpa, e morir nel peccato. Io, in quanto a me, non vorrei uscir mai dal convento, mentre tengo tutte le mie delizie in cella; sto tutto contento e consolato, in cella godo una caparra di Paradiso; in cella tengo riposto tutto il tesoro, però del secolo non mi curo, e pongo in non cale tutte le cose della terra".
Da ciò risulta che la cameretta non era per lui il luogo del­l'inerzia, ma la scuola di una continua formazione spirituale e dottrinale. Poiché nella cameretta vi era non solo il suo studiolo con i libri necessari per la predicazione e per l'inse­gnamento, ma anche un piccolo oratorietto con l'immagine di Gesù e della Madonna dinanzi alle quali sovente con amoro­so affetto orava.
La devozione alla sua celletta derivava dal suo desiderio di solitudine e dalla certezza che egli aveva che non si può dare agli altri ciò che non si ha. La cameretta luogo di studio e di preghiera, gli dava la possibilità di attuare il precetto della Re­gola che impone di lavorare fedelmente e devotamente senza però posporre lo spirito della s. orazione. Ma dove trovare un luogo più adatto per seguire le direttive della Regola Francescana?
Unicamente preparandosi in tal modo avrebbe potuto sfamare con la divina dottrina, le folle che lo avrebbero ascoltato, e gli studenti che avrebbero appreso dal suo labbro.
Dietro la cigolante porta della sua celletta, vi era scritto: "Ora, primos impetus retine, sustine et tace, si vis vivere in pace". Frase scultorea che racchiude tutto il segreto del saper vivere. Il p. Matteo ne aveva fatto il suo motto personale, sul quale, nel silenzio della sua cameretta aveva tante volte meditato.
Il primo elemento, la preghiera "ora" era la forza del suo ani­mo, per poter dominare i primi impeti dell'istinto.
Sono molto significativi tre esempi che ci sono stati traman­dati, in cui si mostra la forza di sopportazione. In un convento, dove egli era superiore, arriva il p. Provinciale con i definitori, per tenere una riunione. Un benefattore, sapendo ciò manda in convento un po' di pesce per gli ospiti. Il p. Matteo accetta tanto volentieri il gesto del benefattore. Un frate, però, non tenendo conto del rispetto che si doveva al superiore, per uno scherzo di pessimo gusto, buttò in faccia al p. Matteo uno di quei pesci. Immaginarsi la confusione del p. Matteo ed il disappunto degli altri Frati. Chi non avrebbe reagito, sia pure rifacendosi ai mezzi di cui dispone l'autorità? Poteva punirlo, ma non lo fece. Si pulì con la mano il viso, e chinò la faccia verso terra. Fu la risposta, la risposta di un santo che si ammira, ma non troppo facilmente si imita. Gli era presente certamente il motto: primos impetus retine.
Nel convento di Serracapriola, ove il p. Matteo era superiore e professore, uno dei frati più giovani, ancora chierico, mal sop­portava l'usanza di lavare, a turno i piatti, dopo del desinare. Quando toccava a lui questo compito, non soltanto non recitava le preghiere di uso, durante il lavoro di pulizia, ma triturava mormorazioni e borbottamenti contro il p. Matteo. Un giorno il p. Matteo sentì tutto e tacque. Nel capitolo delle colpe, il p. Matteo ingiunse a detto frate di dire ad alta voce tutto quello che aveva mormorato contro lui. Il povero chierico tutto pauroso, pensò che lo avrebbero punito. Le sue grigie prospettive furono deluse. Invece del rimprovero si sentì dire: "Figliolo, io ti benedico, e ti ringrazio affettuosamente dell'occasione che mi dai di meritare. Sii sicuro che ti amerò per l'avvenire, più di prima". Diede subi­to prova della sua benevolenza, dandogli da mangiare anche la sua porzione.
Nella sua cameretta imparò a reprimere se stesso sino all'ero­ismo. La sua linea pedagogica era dei tempi più avanzati.
Colui che mancava doveva sentire in se stesso il peso della colpa ed il motivo del ravvedimento.
Un altro aneddoto. Il p. Matteo vede una donna che vestiva con poca modestia. La rimprovera e la esorta alla serietà. La signora, non contenta di aver risposto subito a p. Matteo che si facesse i fatti suoi, gli scrisse una lettera piena di insulti e villanie. Riceve la lettera, la legge e la rilegge. Sembrava che leggesse una lettera di elogi, tanto gli sorrideva il volto. Poi con vera gioia esclamò: "O Dio mio, sia a tua gloria e ti ringrazio che mi hai dato sì nobile occasione per meritare; solo mi dispiace che questa persona si sia fatta ingannare dal demonio sul falso. Io da parte mia perdono tutto". Quella lettera la conservava come oggetto prezioso, per­ché la teneva insieme al libretto della regola e ne abbinava la lettu­ra. Ogni volta che la prendeva, la baciava ripetutamente e pregava per la persona che gli aveva fatto un tal dono.
Siamo troppo lontani dalla sua spiritualità per comprendere il suo modo di agire che noi giudicheremmo da alienato. Egli sa raccogliere le briciole per fame un pane, riunisce i petali perché non vadano dispersi dal vento. Egli era convinto che Dio che tutto dona, tutto accetta, per il bene di chi generosamente ha imparato nel silenzio della sua camera, a star vicino a chi sbaglia per essere il bastone della ripresa. 

I suoi doni

Deposizione del p. Girolamo da Napoli - La testimonianza del p. Girolamo sul p. Matteo penso, che abbia valore per due ragioni. Prima di tutto fu teste oculare di quanto scrive, e poi la sua attestata virtù, è il miglior garante. Egli asserisce testual­mente: "Professo io f. Girolamo da Napoli essere molto obbliga­to a Dio Nostro Signore che per reggimento della mia trascurat'e mal'avviata via dello spirito, me diede questo buon Padre e San­to Maestro, all'attioni virtuose del quale trovavo in che emendar­mi et a che dovessi appigliarmi. Per in vero la sua vita fu tanto ornata di tutte le virtù, che concatenate insieme, non huomo, ma Angiolo terreno lo rendevano. Quindi è che da' Frati, riguardan­dosi la sua faccia, ne cavavano una particolare devotione e dilet­to; e bene e spesso venivano i Frati da altri luoghi solo per desio di rivederlo e parlare seco di cose allo spirito appartenenti, per­mettendo ad ognuno di ritrovare in esso, cibo proporzionato al suo palato. Aggiungo questo che io F. Girolamo non mi dilato nella carità nascosta nel suo petto, in compatir all'infermi e sol­levare i bisognosi Frati che a lui facevano ricorso; nè meno nei suoi continui e familiari esercizi d'oratione, o pure nella singola­re virtù dell'humiltà, poiché intorno a queste, avanzandosi ogni giorno di bene in meglio, si rendea caro a Dio, amabile a gli homini, e terribile ai demonij. Dirò solo c'havendo io F. Girola­mo conversato con esso lui per venti tre anni in circa e familiar­mente pratticato, nol viddi in si lungo tempo una sola volta adi­rato, nè di volto conturbato; ricordomi di più che nel primo anno della mia guardiania, stando egli con esso meco, nel partirsi la sera dal choro per andarsi a riposare, con ogni hu mile e profon­da riverenza dimandava la santa benedittione, conforme usano i
novitij dall'ingresso nella Religione, atteso che facea molto con­to dell'osservanza regolare e non lasciava d'essercitare qualsivo­glia cerimonia che nell'anno del novitiato imparato havea ancor­ché minima si fusse. Rengratiava sopramodo la Bontà divina, del beneficio della Vocatione e con abondanza de lacrime solea baciare non solo il pavimento del choro, ma 1'habito che portava in dosso, e confessandosi indegno di tal gratia singulare mostra­va anche all'esterno il gran contenuto e giubilo del cuore per ritrovarsi nella Religione al culto divino dedicato et al servitio di Dio Benedetto mancipato (2).
 
Carità verso gli infermi - Un'altra caratteristica, tramandata in termini inequivocavibili, è la sua materna attenzione per gli infermi. Con meravigliosa ansietà e sollecitudine si preoccupa­va che nulla mancasse ad essi: medicinali, cibi convenienti, igie­ne, allo scopo che, ripresa la salute, potessero tornare al servizio del Signore con maggiore energia fisica e morale.
Riservava a sè tutti i servizi più umili e si riteneva onorato di servire agli ammalati, nei quali pensava di servire a Cristo. Il confratello, malato, pur nel comprensibile disagio morale in cui si veniva a trovare, accettava volentieri il servizio reso da p. Matteo, il frate straordinario che serviva a Dio ed ai fratelli con la dotta predicazione, con il rigoroso insegnamento, con l'esem­pio di rigorosa osservanza, e con lavare le stoviglie od altro, usa­to dai frati infermi. Il suo servizio valeva più di ogni medicina, perché rafforzava la familiare convivenza sulle basi di una carità fatta di devozione e di fede.
Questa sua attenzione non la restringeva nell'ambito del con­vento, ma la spingeva ovunque sapesse di un ammalato; correva a portare l'indispensabile conforto della parola di Dio. Forse que­st'angolo della sua attività di apostolato, non è stato tramandato nella sua interezza. Forma però una delle componenti del suo zelo. Gli infermi lo amavano e lo benedicevano; era il silenzioso benefattore del loro capezzale. La visita non aveva lo stile della convenienza, ma rivestiva tutti i caratteri dell'apostolato della pazienza, della forza d'animo, della rassegnazione o della prepa­razione per l'ultimo volo.
 
Predice la morte del novizio Fr. Agostino da Casacalenda - Era solito, dopo la recita del Vespro, radunare i novizi per tenere loro la lezione spirituale. Stando a Vasto, come maestro di novi­zi, un giorno, approfittando delle lettura spirituale, pose ad ogni novizio un quesito su diversi argomenti di coscienza. Giunto al novizio F. Agostino da Casacalenda, gli disse: "Dimmi figliuol mio Frate Agostino, se ti chiamasse Dio adesso all'altra vita, ac­cetteresti di buona voglia la morte?". "Sì padre, rispose il novi­zio, io l'accetterei più che volentieri, perché confido nella pietà divina". Riprese il p. Matteo: "Hai ben ragione di accettare vo­lentieri la morte, perché dove noi con gran fatica e con gran lun­ghezza di tempo, speriamo, morendo in grazia del Signore, di conseguire la gloria, tu, con poco stento, ed in così breve tempo, giungeresti in Paradiso e ti faresti possessore di quella. Sta dun­que apparecchiato, frequenta con devozione le proteste".
Era l'antivigilia della Madonna degli Angeli. Il novizio lucrò regolarmente la indulgenza della Porziuncola, e per poco tempo, continuò nella sua florida salute. Poi si ammalò e rese santamen­te la sua anima a Dio. Tutti i confratelli rimasero meravigliati per la delicatezza con cui il p. Matteo fece la sua previsione e per la estrema puntualità con cui si verificò.
 
Guarisce il sig. Lorenzo De Santis - Questi era un gentiluo­mo di Serracapriola, molto devoto dei Cappuccini e particolar­mente del p. Matteo. Ritornando da un viaggio dal nord, volle fermarsi a Vasto. I frati lo accolsero molto affabilmente essendo un loro benefattore. Lo scopo di quella sosta era di raccoman­darsi alle preghiere del p. Matteo, poiché soffriva di scaranzia, una specie di tumore alla gola.
Il p. Matteo lo esortò a non dubitare della potenza del Signore e gli disse che sarebbe guarito quanto prima, con queste parole: "Abbi fede in Dio benedetto, e sta allegramente che sarai sano e subito". Gli fece sulla parte malata un segno di croce. Il croni­sta dice "mirabil cosa!", immediatamente si aprì la postema nel­la gola, emettendo gran quantità di materia, e non ebbe alcun bisogno di altre medicine. Il sig. De Santis, pieno di indicibile allegrezza se ne tornò a Serracapriola totalmente sano.
 
Guarisce il dott. G. Masone - Questi era di Agnone. Il P Matteo si trovava in residenza nella città nativa. L'ammalato, si trovava in condizioni disperate. Aveva perso la vista ed ogni co­noscenza. Il p. Matteo si portò a visitarlo, ne ebbe compassione. Lo chiamò per nome e fu riconosciuto dall'ammalato. Gli disse che se prometteva di vivere cristianamente, avrebbe chiesto al Signore la grazia della vita. La promessa fu fatta con pieno pen­timento della sua vita non molto corretta. Il p. Matteo si mise in ginocchio, pregò fervorosamente per qualche istante, poi si alzò, fece un segno di croce sulla fronte del malato il quale ad un tratto riapre gli occhi e si vede guarito.
 
Guarisce il figlio del dott. Masone - Nella stessa famiglia Masone il p. Matteo compie la guarigione di Marcantonio Masone, primogenito di quella famiglia. Tutte le speranze erano su di lui. L'eventuale morte avrebbe fatto cadere i sogni che i genitori avevano fatti. I medici non avevano altri farmaci da som­ministrare. Fu chiamato il p. Matteo, il quale usò lo stesso metodo che usò con il padre di Marcantonio. Disse al giovane: "Marcantonio, sappi che Dio vuole essere servito da te nello sta­to ecclesiastico, ora se tu mi prometti di lasciare i giovanili pen­sieri del mondo, e di perseverare nell'abito che avrai preso da prete, Dio ti salverà". Il giovane promise di servire a Dio nel sacerdozio. Il p. Matteo, prese la corona del rosario che gli pen­deva dal cingolo, e avendo visto che sulla crocetta vi era un po' di polvere, la prese, la mise in un bicchiere d'acqua e gliela diede a bere. Bevuta quell'acqua, si tolse subito la febbre, e tantosto si alzò dal letto. Riprese gli studi a Napoli e divenne un bravo sa­cerdote.
 
Guarisce un bambino muto - La signora Lucia di Marchitto, di Agnone, parente del p. Matteo, aveva un figlio di quattro anni, ma senza il dono della parola.
Comprensibile la preoccupazione della madre. Tutti i rimedi umani a nulla valsero. Trovandosi un giorno il p. Matteo in casa, lo scongiurò di ottenere dal Signore la grazia della paro­la. Il p. Matteo si commosse profondamente dinanzi al dolore di quella madre. Prese il bambino tra le braccia, sollevò gli occhi verso il cielo e pregò per alcuni istanti. Poi restituì il bambino alla madre, dicendo: "Non dubitare, sorella, abbi fede in Dio benedetto, che ben presto resterai consolata". Fece un segno di croce sulla bocca del bambino e se ne tornò in Con­vento ove continuò a pregare per lo stesso scopo. Nello stesso tempo in cui p. Matteo continuava a pregare, il bambino fra lo stupore dei parenti, fece sentire la sua voce chiamando la mam­ma e la sorella.
 
Prega e soddisfa alle necessità di un ospite - Il p. Matteo è nel Convento di Serracapriola. Una sera arriva un gentiluomo e suo parente da Agnone. L'ospite, aveva certamente bisogno di mangiare e di riposare, dato il viaggio piuttosto lungo. Lo fa accomodare in una stanza per il dovuto riposo, ma come poteva dormire senza aver mangiato? Questa era la preoccupazione del p. Matteo. In convento non vi era proprio nulla, il paese è lonta­no e l'ora è tarda. Si mette a pregare il Signore perché provveda. Aveva appena finito di pregare, e sente uno strano rumore alla finestre.
Incuriosito e pauroso insieme andò a vedere chi fosse. Aprì ed entrarono due bellissimi colombi. Egli il prese e fece preparare una bella cena per l'ospite.
 
Guarisce la madre della Marchesa di Vasto - Finito il triennio di guardiania a Serracapriola, il p. Matteo fu trasferito a Vasto, unitamente ai chierici. I Vastesi ne ebbero grande gioia. I mar­chesi lo stimavano apertamente come santo. Attesta la signora Isabella Della Rovere D'Avalos D'Aquino, la marchesa di Vasto e Pescara, che sua madre pativa di un penosissimo mal di testa, che non le lasciava un attimo di riposo. Il p. Matteo andò a visi­tarla e fece con lei tanti bei discorsi spirituali. Appena uscito il p. Matteo, spinta dalla fede in p. Matteo, andò a toccare la sedia sulla quale egli si era seduto con la piena convinzione che ciò sarebbe bastato a guarirla. Toccata la sedia, svanì in un tratto il dolore. Subito ne rese grazie a Dio.
 
Guarisce la persona di servizio della marchesa di Vasto - La stessa marchesa di Vasto e Pescara, attesta che una sua perso­na di servizio, Emilia Marana, venuta a contesa con il fratello più piccolo ed alquanto demente, questi le tirò nell'occhio la subbia che aveva in mano. La poverina cadde a terra con il viso pieno di sangue. La mamma era disperata perché temeva che la figlia rimanesse cieca. Si trovò ad entrare per caso il p. Matteo, il quale, sentito l'accaduto, disse alla mamma di stare allegra­mente e di fidare nella pietà divina. Fece un segno di croce sul­l'occhio offeso. Subito il sangue ristagnò senza che l'occhio ri­portasse alcuna lesione. Si vedeva unicamente la cicatrice che non sfigurava nel volto della ragazza ed era la prova della guari­gione ritenuta miracolosa.
 
Prevede la morte della zia - Stando di residenza nel convento di Vasto, una sera d'estate, improvvisamente decise di andare ad Agnone. Prese come compagno di viaggio il p. Francesco da Serracapriola e parti. Era già tramontato il sole. Il p. Francesco, non si rendeva conto di quella decisione improvvisa e non osava chiedere il perché. Camminarono tutta la notte. La mattina se­guente arrivarono a Tufillo, ove, celebrata la Messa e ristoratisi alquanto in casa di una benefattrice, ripresero subito il cammi­no. Il passo svelto di p. Matteo meraviglia sempre più il suo compagno di viaggio. Arrivarono al Convento di Trivento, di sera, accolti da tanta carità da quei Frati. L'indomani, nonostante le gentile pressione dei Confratelli, volle riprendere il cammino per arrivare il più presto possibile ad Agnone. Vi arrivò, e con­trariamente alla sua abitudine di recarsi per prima al Convento, andò direttamente alla casa paterna. Le sorelle si meravigliarono del suo imprevisto arrivo. Entrò subito nella camera dove giace­va la zia, più carica di anni che di malattia. Appena la zia lo vide lo abbracciò e gli disse: "Ah frà Matteo, figlio mio, siate il ben­venuto, quanto ho desiderato di vedervi, prima di morire; sia lodato Iddio che mi ha concessa questa grazia". "Sappi, mia cara zia, disse il p. Matteo, a questo fine io son venuto a consolarti e per assistere alla tua morte". Si sedette accanto al letto ed iniziò il tentativo di prepararla ai Sacramenti. Il compito era duro. Vo­leva rimandare la confessione per la festa dell'Assunta. Ci vole­vano ancora quattro giorni. Il p. Matteo disse che non sarebbe arrivata all'Assunta. Il motivo vero per cui rimandava la confes­sione era il fatto che in famiglia vi era un disguido per causa della eredità da lasciare ai parenti.
Il p. Matteo la predispone ai Sacramenti. La degente, non era arrivata agli estremi ragionava con molta lucidità. I pa­renti si meravigliarono che il p. Matteo insistesse tanto per gli ultimi Sacramenti. "È necessario fare così; perché non pas­seranno sei ore di notte che passerà all'altra vita". Si verificò tutto come previsto. A mezzanotte la zia lieta e contenta spi­rò. Fu sepolta nella chiesa dei Conventuali, nella cappella di famiglia. Il p. Matteo, celebrata la Messa in suffragio della zia, se ne tornò a Vasto. Subito si sparse la voce che il p. Matteo, solo per divina ispirazione, potè essere presente a quanto stava per accadere alla zia. Tutti dicevano: "Beata lei che è stata favorita da Dio di morire con l'intervento e l'assi­stenza di un nipote così santo".
 
Guarisce un altro bambino cieco - I coniugi Lattanzio De Cicco e Giovannella De Tuccio, di Agnone, erano molto afflitti per un loro figlio di nome Agostino.
Questi era affetto da morbiglione, una malattia che lo rese quasi cieco. Non poteva sopportare neppure un minimo di luce, per cui i genitori lo tennero per ben tre anni in una camera senza luce. Nella fede di tutti, solo il p. Matteo poteva rimediare al terribile male. Chiamato il p. Matteo, questi si inginocchiò vici­no al letto e pregò. Poi prese della manna di S. Nicola di Bari e unse agli occhi del bambino. Prima di tornarsene al convento, disse ai genitori: "Amici, abbiate confidenza in Dio, perché es­sendo la bontà di Lui pieghevole, a consolare gli afflitti, di cuore umiliati, donerà anche a voi il bramato contento di vedere vostro figlio libero da questa cecità".
Lo stesso giorno, il gionavetto cominciò a vedere tutto chiara­mente e distintamente. Tre giorni dopo il bambino e la madre si recarono al convento per ringraziare il p. Matteo, il quale dando ogni merito al Signore, unse nuovamente gli occhi del bambino con la manna di S. Nicola.
Il p. Simone da Orsara, superiore del Convento di Agnone nel 1620, attesta che il giovane in oggetto, riferì a lui personalmente il miracolo avvenuto nel 1614, e che lo stesso giovane, godendo di ottima vista, potè frequentare la scuola di D. Gian Domenico Totaro, rettore della chiesa di S. Margherita in Agnone.
 
Guarisce il p. Provinciale, gravemente ammalato - Trovan­dosi nel convento di Lucera con la carica di Lettore ebbe la triste notizia che il p. Provinciale, p. Tommaso da Trivento, giunto a Serracapriola per la visita canonica, si ammalò gravemente, tanto che i medici disperavano di salvarlo, ed i Frati sentivano odore di morte. Il p. Matteo, affrontando il cattivo tempo, essen­do inverno, volle cavalcare un giumento con l'aiuto di un amico dei Frati. Arrivato a Serracapriola, tutto intirizzito dal freddo e senza curare la stanchezza, corre subito nella stanza ove giaceva il Provinciale. Lo abbracciò teneramente, e vista la gravità del male, prese un pezzetto della veste di S. Carlo, che portava come reliquia, la mise in un po' d'acqua e ne diede a bere all'infermo. Si inginocchiò e recitò la preghiera pro infirmis. Non appena si alzò da terra il miracolo era compiuto. Il p. Provinciale subito si riprese in pieno. Lo stesso p. Provinciale diceva ai Frati che la guarigione gliel'aveva impetrata da Dio il charitativo Mattheo per meriti di S. Carlo.
 
Sventa la tentazione di un novizio - Il p. Bernardino da Roio attesta di essere stato novizio del p. Matteo. Era fortemente ten­tato di tornarsene a casa.
La tentazione era un fatto noto unicamente a lui.
Aveva resistito per vari giorni, poi decise che la sera, dopo aver aspettato che i frati fossero andati a riposare, egli se ne sa­rebbe andato.
Il p. Matteo lo chiama in camera sua e gli dice: "Figliuolo, che tentazione hai?". "Nessuna, padre", rispose il novizio. Il p. Matteo riprese: "Vedi figliuolo, che il demonio ti caccia, dimmi la veri­tà, perché io son tua madre e tuo padre". Il novizio spinto così dolcemente, disse la verità.
Da quel giorno tutto tornò normale.
 
Benedice la città di Agnone - Nel 1614 si recò al convento di Frosolone ove giaceva moribondo il p. Provinciale, p. Tommaso da Trivento, già da lui guarito nel Convento di Serracapriola. Dopo aver preso parte ai funerali di detto padre, riprese la via del ritorno in compagnia di Frà Adriano da S. Marco La Catola.
Disse a questi che lo avesse avvisato, appena scorgeva la città di Agnone. Alla vista della sua città natale, alzando gli occhi al cielo con abbondanza di lacrime la benedisse. Poi subito aggiunse: "Patria mia, cara Agnone, Patria, non dirò come disse Scipione, ingrata, perché mi hai sempre amato, ed io da buon figliuolo, con tutto il cuore servito, dirò come Scipione, tu non possederai le mie ossa".
 
Guarisce dal mal di denti una signora - Il p. Matteo era di residenza nel convento di Serracapriola. Venne a trovarlo la si­gnora Antonia De Santis, moglie di Lorenzo De Santis, già gua­rito dal p. Matteo nel Convento di Vasto. La predetta signora impazziva dal dolore di denti che non le permetteva né di man­giare, né di dormire. Sapendo che p. Matteo aveva guarito il suo consorte, si recò al Convento. Chiamò il p. Matteo e gli raccontò quanto pativa. Il p. Matteo era restio alle richieste della donna per la sua umiltà.
Ma la donna, gli si inginocchiò davanti supplicandolo per ca­rità. Il p. Matteo si inginocchiò sulla predella dell'altare maggio­re e pregò. Poi, quasi ispirato si alzò, fece sulla guancia della signora un segno di croce dicendo: "Iddio ti conceda la grazia secondo la tua fede". I dolori cessarono ad un tratto, e se ne tor­nò a casa libera da ogni male.
 
Sventa l'inganno del demonio a Chieuti - Il p. Matteo risiede nel convento di Serracapriola, con la carica di superiore. In detto periodo si verifica a Chieuti un caso strano. Si è sparsa la voce che un'immagine della Madonna fa miracoli. La gente cor­re da ogni parte, per venerare detta immagine che era conservata nell'antica chiesa di rito greco.
Si pone in preghiera e chiede al Signore di non permettere che la gente venga ingannata. Certamente aveva saputo per divina ispirazione che tutto era falso e che ciò avveniva per tramite di un uomo che aveva inscenato tutto per guadagno.
Parlandone ai Frati diceva: "oh se questa strada avesse la lin­gua e se quegli alberi potessero parlare, quanti peccati palese­rebbero che con gli occhi solamente si commettono per andare a vedere falsi miracoli operati dal demonio e non dalla Regina dei Cieli. Bisogna opporsi al tentatore e cercare di scoprire le astu­zie degli uomini perversi". Subito mandò due frati a Chieuti presso alcuni benefattori per dire loro che non mandassero più le ragaz­ze a piedi scalzi in quella chiesa. Denunziò al Vescovo di Larino, Mons. Gian Tommaso-Eustachio, gli inconvenienti di Chieuti. Il vescovo delegò lui e altri due preti per indagare. Si reca subito a Chieuti, nella chiesa ove stava la predetta immagine. Vede don­ne scalze, bambini nudi, storpi, dementi.
Tutti attendevano il miracolo. Il p. Matteo chiese di celebrare la Messa sull'altare di rito latino sul quale vi era l'immagine di s. Francesco d'Assisi. All'elevazione, due di quelle donne diedero altissime grida quasi fossero ossesse, con grande spavento di tutti. Finita la Messa, fece avvicinare tutti gli infermi all'altare, fece fare il segno della croce secondo il rito latino e fece recitare l'Ave Maria. Gli storpi, che prima che arrivasse il p. Matteo agitavano mani o piedi, poi cessarono. Cacciò tutti fuori della Chiesa, velò l'immagine e chiuse la Chiesa. Iniziò l'esame dei presunti mira­coli, ma trovò che tutto era opera di fattucchieri.
La gente fanatica non si diede per vinta. Si organizzarono ad­dirittura dei balli intorno alla chiesa. Il p. Matteo non poteva tacere. Fece venire il vescovo essendo la festa della Pentecoste e tanta gente si era portata colà per devozione a quell'immagine.
Il Vescovo fece capire a quella gente che quei fatti che si dice­vano miracoli non erano che falsità e montature a scopo di gua­dagno. Proibì severamente di accedere a quella Chiesa, sotto pena di scomunica latae sententiae. Fece affiggere sulla porta della chiesa un pubblico avviso di proibizione.
Tutti tornarono a casa, convinti dell'inganno. Il vescovo si recò al Convento di Serracapriola per ringraziare il p. Matteo.
Il vescovo mise in carcere un uomo ed una donna che funge­vano da sagrestani e che si erano prestati al giuoco. Non si potè mai sapere chi fosse l'autore principale. Il vescovo riferì a Roma quanto era accaduto a Chieuti. La risposta fu estremamente de­cisa. Se si fossero ripetuti i fatti, si sarebbe dovuta smantellare la chiesa e mettere in carcere i colpevoli.
 
Il geloso gatto del Convento - Il p. Matteo non vedeva mai di buon occhio il maltrattamento fatto alle bestie. Per esse aveva tanta delicatezza ed attenzione.
Aveva imparato dal padre san Francesco.
Nel Convento di Serracapriola, il gatto festeggiava il lieto evento. Niente di nuovo. I Frati, curiosi e poco accorti verso i neonati, vanno a scomodare la nidiata. La buona gattina, pazien­temente, cambia posto. I Frati però seguono la pista, tutti i gior­ni, presi dalla curiosità, prendono in mano i gattini, li acccarez­zano e poi li rimettono al posto dove li aveva nascosti la mam­ma. La gatta madre è gelosa: non vuole assolutamente che i suoi nati siano giocherellati con tanta spensieratezza. Certamente avrà pensato: dove li potrò nascondere? Un attimo di incertezza e poi... decide.
Una mattina, mentre erano a refettorio, entra il gatto portando un gattino alla volta in bocca. Dove li va a deporre?
Nella tasca del mantello di p. Matteo. Lo fece con tanta deli­catezza, che il p. Matteo, sempre assorto in preghiera, non se ne accorse. Quando però tutti si levarono dalla mensa per le pre­ghiere di ringraziamento, i gattini cominciarono a gattilare. Vi­sto l'accaduto, tutti si meravigliarono. Il p. Matteo accortosi del fatto, prese la gatta ed i gattini e li mise in un luogo sicuro e diede ordine severo ai Frati di non toccare più quei gattini.
Sia la gatta che i Frati obbedirono al p. Matteo, ed i gattini rimasero in quel posto sino a quando non furono in grado di camminare da soli.
 
Preannuncia tempi brutti per Agnone - Aveva predicato la sua ultima quaresima in Agnone, pregato dai suoi concittadini.
In tale occasione ebbe modo di rilevare disordini e peccati nella sua città. Nell'ultima predica predisse le sventure. Disse: "Dogliomi Patria cara che per quello che io scorgo in te sei abo­minevole per le tue sceleragini agli occhi della Maestà Divina, onde ti verrà addosso il meritato castigo che da Agnone ti farà picciolo agnello, et humiliata nei flagelli conoscerai la tua col­pa". La predizione si avverò subito. Una vera guerra civile tra nobili e popolani, tanto che il duca Ossuna che governava il Re­gno, fu costretto a mandarvi alcune compagnie di Valloni, i quali con la pessima condotta distrussero buona parte della città.
 
Un umile e coraggioso scontro con il Vescovo di Larino - Nell'estate del 1611, il Vescovo di Larino, Mons. Girolamo Vela, Vicentino, venne a Serracapriola per cambiamento di aria. Il p. Matteo, saputo l'arrivo del Vescovo volle andare ad ossequiarlo. La conversazione fu oltremodo dignitosa, tanto che il Vescovo preferiva recarsi spesso al Convento dei Cappuccini. Tanta sti­ma e benevolenza si mutò subito in contesa per motivi giuridici.
Il punto centrale della questione è che il Vescovo pretendeva di poter imporre delle gabelle ai Frati. Questa pretesa del Vesco­vo trovava nei frati difficoltà di ordine economico e giuridico. La renitenza dei frati non trovava comprensione nel Vescovo il quale voleva fulminare scomunica a tutta la comunità dei Cap­puccini.
Il superiore, p. Bonifcio da s. Germano, uomo di santa vita, raduna la comunità e tratta la questione. Si dice di affidare al p. Matteo la soluzione del caso. Il p. Matteo, dopo matura conside­razione, pacata discussione e molta orazione, decise a favore del convento. Il suo parere fu condiviso anche da altri giuristi. Il Vescovo, saputo che la questione era stata affidata al p. Matteo, il giudizio del quale era condiviso da altri giuristi, se ne tenne sommamente offeso. La delicatezza dell'animo del p. Matteo era colpita in pieno, al pensiero che il Vescovo era offeso per una decisione presa da lui. Decise di andare di persona dal Vescovo per chiarire la questione. Il Vescovo lo ricevette con ciera brutta lamentandosi alla gagliarda e pieno di sdegno.
Non vi furono ragioni sufficienti per calmarlo. Il p. Matteo visto fallito il suo tentativo se ne tornò in Convento dispiaciu­to.
Per oltre un mese il Vescovo non volle vedere i Frati.
Nel frattempo si ammalò e correva voce che stesse grave. Sa­puta la notizia, il p. Matteo, un giorno, recitato il Vespro, si av­viò verso la casa del Vescovo per visitarlo. Tutto fu inutile; non gli fu concessa udienza. Il Vescovo aveva accusato il colpo e decise: mai più frati nel mio palazzo.
In realtà la salute del Vescovo era andata giù ed il p. Matteo non voleva che morisse con tanto rancore contro i Cappuccini. Tentò per la terza volta di essere ricevuto. Prese con sè tre sacer­doti studenti e precisamente i pp. Simone da Orsara, Micbele da Agnone, e Bartolomeo da Casalviero, dopo il tramonto del sole, e andò.
I tre giovani sacerdoti, meravigliati dell'ora insolita, gli chie­sero dove si dovessero recare. Rispose: "Figliuoli, andiamo a caccia per amor di Cristo, preghiamolo che ci aiuti, perché forse questa notte faremo una gran preda". La risposta, chiaramente, non li aveva soddisfatti. Poi si resero conto che si andava dal Vescovo. Fecero mezz'ora di anticamera furono ricevuti tutti e quattro. Il p. Matteo gli baciò la mano e inginocchiato gli chiese scusa se per caso lo avesse offeso. Questo gesto calmò il Vesco­vo il quale sperava in una prossima ripresa della salute. Il p. Matteo gli diceva belle parole per prepararlo alla morte. Il Ve­scovo fingeva di non capire. Fu chiamato il medico dott. Giulio Cesare Pascarella, e questi senza mezzi termini, confermò la pre­visione del p. Matteo dicendo che la medicina aveva esaurito il suo compito. La cruda risposta del medico turbò fortemente il Vescovo, tanto desideroso di vivere. Intervenne di nuovo il p. Matteo e si espresse più chiaramente del medico, dicendo al vescovo che era arrivata la sua ultima ora. Lo dispose a riceve­re i Sacramenti e li ricevette con molta sudata rassegnazione. I Frati stettero presso il capezzale del Vescovo, fino all'aurora, pregando. Essendo venute meno le forze, all'aurora, spirò piamente.
Tanta sollecitudine del p. Matteo per incontrare il Vescovo malato, fa pensare che egli sapeva della prossima morte del Ve­scovo diocesano. Conferma questa tesi l'insistenza delicata usa­ta dal p. Matteo nel voler preparare il Vescovo alla morte. Il de­cesso avvenne il 21 novembre 1611. Se il p. Matteo non avesse insistito per una degna preparazione, il vescovo sarebbe morto senza l'assistenza di un sacerdote, perché con lui vi era un nipote ed alcuni cortigiani che non pensavano minimamente alla morte del prelato.
Fu seppellito nella Chiesa di s. Maria ed in seguito fu trasferi­to nella tomba dei Vescovi nella cattedrale di Larino.
 
Fa crescere il vino e l'olio in casa Sottile - La signora Livia Sottile, nativa di Vasto ma accasata ad Agnone, all'età di ottant’anni, prima che morisse volle lasciare la seguente dichia­razione a favore del p. Matteo.
Detta signora, madre di tre figli cappuccini, di cui due erano vivi all'epoca della presente dichiarazione. La botte da vino, della capacità di tre some, era asciutta da parecchio, forse per malattie delle viti. La signora Sottile, sapendo ciò che aveva fat­to il p. Matteo in casa Cellillo, mandava al p. Matteo ogni giorno un fiaschetto di vino, pregandolo che dal convento stesso si vo­lesse benignare di benedire la botte. Il p. Matteo volle contentare la madre di due suoi confratelli. Benedisse dal convento la botte ed il vino durò oltre un anno, nonostante che ne desse a tutti gli ammalati del paese ed a tutti i Frati.
La stessa signora fa fede nel dire che dalla prima volta che il p. Matteo entrò in sua casa tutte le cose andarono meglio. Parti­colarmente ricorda quando fece benedire il truocco, ossia il reci­piente di pietra ove conservava l'olio. Fattavi la benedizione, il p. Matteo quasi di corsa se ne andò in Convento. Appena egli uscì di casa, l'olio crebbe tanto da versarsi dal recipiente. La signora Sottile dovette chiamare per ben due volte la figlia Camilla, perché togliesse dell'olio dal vaso, perché non si ver­sasse per terra. Questo fatto, fu affermato anche dalla signora Camilla, alla presenza del p. Simone da Orsara, superiore del Convento di Agnone e di Frà Adriano da S. Marco la Catola, nel 1621.
 
Prevede la sua morte - Fin dai primi giorni del 1616 si diede ad una vita spirituale molto più intese.
Dovendosi iniziare la quaresima dell'Epifania, egli, nonostan­te la sua indisposizione di stomaco, volle digiunare con maggio­re rigore, senza prendere neppure un pezzo di pane per cena. Diceva infatti che quella sarebbe stata l'ultima quaresima della benedetta che avrebbe digiunato. Verso la festa della Pente­coste del 1616, si tenne il capitolo provinciale a s. Elia a Pianisi, sotto la presidenza del p. Paolo da Cesena, Ministro Generale, il p. Matteo vi partecipò come superiore di Agnone.
Il p. Generale, nonostante che il p. Matteo avesse finito il triennio di guardiano, voleva farlo rieleggere, in deroga alle Co­stituzioni dell'ordine. Il p. Matteo, a questa proposta, si pone in ginocchio davanti al p. Generale ed ai definitori, chiedendo di lasciarlo semplice suddito, perché egli aveva chiesto al Signore la grazia di morire senza prelatura. Fece chiaramente capire che i suoi giorni erano contati. La previsione si verificò puntual­mente. 

Addio alla terra - Da s. Elia a Sérracapriola

L'albero carico di frutti dolcemente declinava. Poteva dare l'ad­dio a tutti i confratelli, ai tanti discepoli, alle folle che lo aveva­no ascoltato, a tutti i beneficati. Era vicina la sua ultima ora: egli lo sapeva benissimo.
Fu indetto il capitolo intermedio, dal p. Pietro da Lucera, Mi­nistro Provinciale in carica. Allo scopo fu scelta la città di Lucera. A questo capitolo, che fu celebrato dopo Pasqua, partecipò il p. Matteo, come superiore di Agnone, ove ricopriva anche la carica di Lettore. Dovendosi eleggere i guardiani dei Con­venti, si voleva rieleggere il p. Matteo che già aveva finito il triennio. Questi, però, desiderando vivamente di rimanere senza prelatura, scongiurò i superiori della provincia perché gli conce­dessero tale grazia. Fu contentato.
Nella sistemazione delle famiglie religiose, egli è assegnato al Convento di s. Elia a Pianisi, ove è superiore il p. Bonaventura da Apricena. A s. Elia non poteva essere semplice suddito, ma era il maestro che insegnava a soffrire dal suo povero giaci­glio, con la stessa chiarezza ed incisività con cui aveva insegna­to dalla cattedra.
Si era acuita l'ora delle sue sofferenze, divenute preghiera. Ne aveva tante e tutte le sopportava con quella forza di rassegnazio­ne di cui sono ricche le anime generose del suo stampo.
Da tempo si trascinava dietro una forte podagra che gli rendeva sempre più penoso il camminare. I piedi non gli servivano più per muoversi, ma per fargli pensare ad un altro cammino che fra breve avrebbe iniziato.
Il clima di s. Elia a Pianisi non era adatto per il suo male. I dottori non avevano altro rimedio che tentare il cambiamento di aria. Dove? La scelta cadde sul fortunato Convento di Serraca­priola, che egli, per molti anni aveva onorato con la sua presen­za, fatta di opere virtuose e sante. I frati di s. Elia a Pianisi si dovettero privare della gioia di averlo tra di loro, per cederlo e definitivamente, al Convento di Serracapriola che poteva, in certo senso rivendicare un invidiabile diritto, quello di sentire, sino alla fine, quell'insegnamento che ebbe il privilegio di sentire per primo.
L'arco della sua attività in provincia, si aprì e si chiuse, per dono della Provvidenza a Serracapriola.
 
Da s. Elia a Serracapriola - Questo viaggio fu come la salita del suo calvario; lungo, interminabile.
Data la piena impossibilità di andare a piedi, i Frati di s. Elia gli procurarono un cavallo. I frati che lo accompagnavano strada facendo, si accorsero, che non era possibile arrivare a Serraca­priola sul cavallo. Le gambe penzoloni, infatti, aumentavano il dolore dei piedi. Decisero di trovare un carro che non fu difficile trovare per il p. Matteo. Lo adagiarono sul carro, lo coprirono ben bene, e soffrendo e pregando, ripresero il cammino che non era né breve, né comodo.
La notizia che il p. Matteo era stato assegnato a Serracapriola, era già arrivata al p. Bernardino da Castelluccio superiore del detto Convento. I frati della nuova residenza erano impazienti di averlo con loro il più presto possibile. Il p. Matteo era una pre­ziosa colonna che cadeva tra le loro braccia.
Dopo un viaggio così lungo e penoso, il piccolo e silenzioso corteo, superata la salita della collina di Serracapriola, qualche chilometro ancora, e sono arrivati alla porta del Convento. Piena oscurità ricopre la zona. La notte è fonda. Solo qualche raro lumicino aiuta i viandanti. Si bussò alla porta del Convento, ed i Frati, passatisi la voce dell'arrivo del p. Matteo, con passo svel­to, vanno incontro a colui, che resosi docile strumento nelle mani di Dio, arrivava a loro come una grazia. Tutti lo abbracciaro­no, gli baciarono le mani, ed egli sorrise di cuore a tanta tenerez­za, che nella sua umiltà, pensava di non meritare.
Lo tolsero dal carro con molta accortezza per non moltiplicar­gli i dolori, lo presero sulle braccia per portarlo nella cameretta preparata per lui. Fatti pochi passi, prima che si arrivasse alla porta battitora, si passò sulla buca della sepoltura dei Frati che era sotto l'atrio antistante la Chiesa. Il p. Matteo, con voce flebi­le disse le parole del Salmista: "Haec requies mea, in saeculum saeculi, hic habitabo quoniam elegi eam". I Frati, quasi di­menticando i dolori della podagra, dello stomaco e del fegato, dell'illustre infermo, erano traboccanti di gioia, perché avevano tra loro il generoso operatore di miracoli, colui che aveva saputo distribuire le insondabili divine ricchezze.
Entrati nel chiostro, quest'incontrollata gioia, esplode nel Canto del Te Deum intonato dal superiore p. Bernardino da Castelluccio. Il chiostro, solo per pochi momenti risuona del canto del ringra­ziamento, perché subito intervenne il p. Matteo, che rivolgendo­si al superiore, disse: "Padre mio, ai morti non si canta il Te Deum, ma si dice il De Profundis". Nell'animo dei Frati sce­se un mal celato senso di tristezza. Dovettero spezzare il canto del Te Deum e seguitare la recita del De Profundis iniziato dallo stesso p. Matteo. Recitando detto salmo, lo accompagnarono nella sua cameretta, lo deposero pian piano sul misero letticciolo. Ai Frati che gli stavano attorno disse: "Con questo medesimo sal­mo, fra non molto uscirò per questa porta".
Egli che ebbe la missione di insegnare, la esercitò sino alla fine dei suoi giorni: il letticciolo della sua cameretta, assumeva il ruolo di pulpito e di cattedra. L'ammirevole pazienza con cui sopportò le ultime infermità, insegnò a prendere dalla mano di Dio i giorni degli applausi e quelli della sofferenza. Con questo insegnamento concludeva la sua missione di sacerdote, di orato­re e di professore, in modo degno della sua fede e della sua Re­gola.
Negli ultimi giorni di ottobre fu preso da fortissima febbre. Fu chiamato ancora una volta il medico; la scienza non aveva altro da dire. Rassegnato, ascoltò l'ultima parla del medico che non dava speranza. Egli era già pronto per salpare da quel povero convento di Serracapriola, come da un porto terreno, per l'eter­nità.
Pregò ripetutamente i confratelli perché lo tenessero presente nelle loro preghiere e voleva che gli si parlasse unicamente di Dio.
La notizia della prossima morte del p. Matteo, addolorò mol­tissimo i Frati. Essi avrebbero voluto tener ancora per molti anni colui che fu assiduo nelle veglie, nelle speculationi di studio, e nelle fatiche dello scrivere. Il p. Matteo; sereno come un giorno di sole, sta in atteggiamento devoto sul suo giaciglio, in attesa che venga l'angelo bianco a dirgli che l'udienza eterna è aperta. L'attesa, non è una pausa di lacrime per rimpiangere il passato, ma è piena di misterioso colloquio, fatto con gli occhi e con le labbra con un vecchio Crocifisso che egli si fece portare vicino al letto. Erano dialoghi tra Maestro e discepolo, fra la terra ed il Cielo. Accanto al Crocifisso volle anche un vasetto di acqua santa con cui aspergeva il letto.
L'intelligenza e la memoria erano limpidissime. Ricordava tutti, ed a tutti, vicini e lontani voleva chiedere scusa per qual­che eventuale mancanza e per dire a tutti una parola di ringra­ziamento. Questo gesto di fraternità senza confine, gli portava alla memoria le folle che lo avevano ascoltato nelle chiese o nelle piazze, i peccatori che gli avevano promesso conversio­ne, tutti i moribondi che lo vollero custode e guida del loro ultimo respiro. In questo vasto giro d'orizzonte, punto centrale era la sua coscienza, con rigoroso esame. Tutto era pronto per spiccare il volo.
Chiamò il p. Bernardino da Castelluccio, superiore del Con­vento, fece la sua confessione generale, che poneva un sigillo a quella lusinghiera preparazione alla morte, che fu la sua vita.
L'animo dei confratelli era inconsolabile al pensiero che fra poco avrebbero dovuto fare i funerali a colui, che pur essendo di giovane età, si poteva definire il patriarca della provincia alla quale aveva procurato un multiforme onore.
Il convento di Serracapriola stava diventando più silenzioso del solito. Gravava il pensiero del prossimo lutto, che toglieva fiato ed energia a quei Frati tanto solerti.
Le magnifiche ottobrate pugliesi, avevano fatto nutrire qual­che speranza... ma fu un miraggio. Il respiro dell'infermo si fa­ceva sempre più lento. Non aveva più forza quel corpo che af­frontò mille fatiche; aveva bisogno che altri lo aiutassero a solle­varsi. Erano mani materne quelle dei Frati, che avevano l'onore di toccare un santo reso pesante dalla triste vendetta del retaggio d'Adamo.
Silenziosamente, quasi in punta di piedi camminavano quei Frati che non volevano disturbare il prezioso silenzio dell'infer­mo, con il rumore dei rozzi sandali o il fruscio delle ruvide tona­che.
È l'imbrunire dell'ultimo giorno di ottobre, venerdì. Il delica­to tintinnio di un campanello rompe quel silenzio arcano, due frati con le torce accese, squarciano l'oscurità del Convento: è il Viatico del p. Matteo. Il volto dell'illustre infermo si abbellì di tutta la gioia di cui abbondava il suo cuore. Veniva Gesù nella sua cameretta la quale diventava la sala dell'ultimo convegno terreno tra il Maestro ed il suo messaggero. Questa gioia diede forza al corpo. Si alza, si pone in ginocchio per ricevere con la massima umiltà il Gesù della vita.
Poi si rimette sul letto. Gli occhi chiusi per la fede; e prega con la mente e con il cuore. Le labbra, devotamente dicono: Gesù, Gesù... Il piccolo corteo si scioglie: non hanno più senso i ceri, né il suono del campanello, saranno sostituiti tra poco da altra luce e da altri suoni.
Fece chiamare intorno a sé tutti i Frati e diede ancora una volta una prova del suo sentito apostolato. Non fece un discorso, ma volle leggere le sue Proteste, allo scopo di giurare fedeltà a Dio sino all'ultimo fiato. Scandì quelle parole con coraggio di chi seriamente promette e giura sulla sua promessa. I Frati non seppero nascondere le lacrime, quando furono invitati a sotto­scrivere la carta delle sue Proteste.
La firma apposta aveva il valore della testimonianza e volle che quel foglio gli fosse messo al collo, perché non dimenticasse la promessa giurata davanti a tanti testimoni.
L'Unzione degli Infermi, chiesta ripetutamente, diede l'ultima pennellata ad un quadro già pronto per essere imitato in terra e festeggiato in Cielo.
Una goccia di Olio Santo, unse quegli occhi meravigliosi, quelle mani benedette e benedicenti, quei piedi rigonfi di cam­mino, l'udito che accolse le voci penitenti, l'olfatto che gustò il soave odore di Cristo. Recitò tutte le preghiere che recitava il sacerdote che gli amministrava il sacramento.
Tutto era stato adempito, il programma puntualmente attuato. Aveva rivestito l'abito nuziale; era pronto per il banchetto. Egli, devotissimo della Passione di Gesù, devotissimo della Madonna, chiese al Signore di morire di venerdì o di sabato. Ottenne la grazia. La celeste chiamata venne puntualmente il 31 ottobre 1616, venerdì, a sera inoltrata, Vigilia di tutti i Santi. Spirò dolcemente, con Gesù nel cuore con somma pace e quiete. Aveva 53 anni e 37 di vita cappuccina. 
I Funerali - Curiosità di alcuni Frati - Appare a F. Antonio da Castagna - Una Mamma disperata
I Funerali - La campanella del convento, ruppe il silenzio dell'ultima notte di ottobre, con lenti rintocchi. Quel suono ca­denzato, invitava i serrani a meditare sulla bara del loro benefat­tore. La notizia della morte del p. Matteo si divulgò, ben presto, passando di bocca in bocca, si sparse come un profumo. Nessuno mancò all'appello della campana. La chiesa era ancora chiusa, non ancora sorgeva il sole, e lo spiazzale del Convento era già gremito di fedeli e devoti.
La salma fu portata dalla cameretta alla Chiesa. Fu posta sul cataletto, intorno al quale i Frati hanno vegliato tutta la notte. Era l'ultima di tante notti passate in preghiera davanti al SS. Sacramento in compagnia della tremula lampada, che spezzava l'oscurità del piccolo tempio. Ora la stessa lampada gli rischiara il volto sereno, le mani incrociate sul petto, i candidi capelli, e, in quel profondo silenzio, proietta, alta, sulla spoglia parete, l'om­bra del feretro. La fonda notte sembra abbia tolto la bellezza alle stelle, che pur nascoste dietro le nuvole, erano ansiose di far luce a quel corpo, la cui anima avevano vista passare veloce tra le loro sfere.
Le prime luci dell'alba avevano un tono più scialbo; la festa dei Santi, sembrò declassata. Fu aperta la Chiesa, ed il popolo potè vedere, inerte, quell'uomo giusto, che parlò tante volte, pro­feta di Dio, con l'entusiasmo che scaturiva dalla forte volontà di salvare le anime dei fratelli. Erano tutti commossi ed a schiere si davano il cambio intorno alla bara. La cerimonia funebre vide la presenza di tutta Serracapriola. I Confratelli della Con­grega, recitarono per primo l'Ufficio dei Morti, subentrò poi il clero di s. Mercurio per altre preghiere funebri, quindi il clero di s. Maria cantò la Messa. Infine i Frati cominciarono le preghiere per accompagnarlo alla sepoltura. I magistrati ed il popolo a pro­prie spese fecero preparare, all'insaputa dei frati, una cassa, per non far confondere il suo cadavere con quello di altri Frati. Si deve a questo gesto delicato del popolo serrano, se ossa così preziose son potute arrivare fino a noi.
Il popolo non si partì dalla chiesa senza aver baciato mani e piedi al loro santo. Molti spinti dalla loro devozione, tagliarono a pezzetti l'abito che il p. Matteo indossava, per portarsi a casa una reliquia molto cara.
Alla presenza delle autorità e dei popolo fu chiusa la cassa. O Frati composero il breve corteo funebre fino alla sepoltura. Fu chiusa la porta di questa fossa.
Con questo ultimo gesto, scomparve agli occhi della gente, come un astro dietro ai monti, la grande figura di p. MATTEO da Agnone.
Tutti tornarono a casa con un grande vuoto nell'anima, ma con la certezza di avere un nuovo protettore in Cielo. I Frati, usi a godere della compagnia di questo Frate di eccezione, tornarono mesti, quasi fossero degli orfani, al loro consueto lavoro. Rivedono il letticciuolo del p. Matteo, tutto disfatto, come un altare spoglio di fiori. In quella cameretta sembra loro di vedere la figura dell'asceta scomparso, di sentire le sue belle parole di incoraggiamento e di preghiera, ma... è vuota. Servirà per tanti altri Frati, purtroppo, all'insegna dell'anominato.
 
Curiosità di alcuni Frati - Sei mesi dopo il decesso, i pp. Simone da Orsara e Girolamo da Serracapriola, insieme a frà Raffaele da Agnone, presi dalla curiosità di rivedere il corpo del p. Matteo, decidono di scendere nella tomba comune. Un gior­no, durante l'ora del silenzio regolare, si sono calati nella tomba, hanno schiodato la cassa del p. Matteo e trovarono il corpo inte­ro, la bocca alquanto aperta, e videro la lingua così vivace e rubiconda che rimasero tutti pieni di consolazione e richiusero cassa e tomba.
Nel 1619, tre anni dopo la morte, un più autorevole curioso, il p. Girolamo da Napoli, Guardiano e Maestro dei Novizi a Serracapriola, volle scendere per vedere il suo vecchio e venera­to Lettore. Trovò il corpo intero, tranne la testa che era alquanto rovinata. Appena apri la cassa, fu investito da un forte profumo che sapeva di rose, ambra, muschio e gigli che gli durò due gior­ni. Guardò quel corpo, con grande devozione, lo palpò, quasi a volerlo svegliare per sentire ancora una volta il luminoso inse­gnamento, ma dovette richiudere tutto e ritornare, consolato di quella esperienza, alle consuete occupazioni di comunità.
 
Appare a Frà Antonino da Castagna - Questo religioso, è degno di ogni fede, in quanto ha vissuto una vita di massima rettitudine ed è stato insignito dal Signore del dono dei miracoli e delle profezie.
Per tali doni egli è stato sempre nelle case di noviziato. Atte­sta che stando egli a Serracapriola, e recitandosi l'ufficio divino di mezzanotte, vide il p. Matteo una volta, che recitava i salmi, con voce più angelica che umana. Era convinto che tutti i frati godessero di quella visione ma raccontando il fatto ai confratelli si ebbe che solo lui lo vide con li occhi corporali il p. Matteo morto già da qualche tempo. Il cronista specifica che la vi­sione non dà luogo a dubbi o fantasie, ed assicura che il religioso frà Antonino è sicuro di aver visto ciò che poi ha attestato.
 
Una mamma disperata - La moglie del dott. Gagliarducci, di Agnone, nel 1622 diede alla luce una bambina. Dopo alcuni mesi del detto evento, detta signora ebbe una grossa lite in casa, ed in conseguenza di ciò perdette il latte. Era un problema grande perché non poteva nutrire la sua bambina. Una sera, preve­dendo la morte della sua bambina, pregò il Signore, perché sal­vasse la figlia, per li meriti del p. Matteo. Si mise a dormire e si verificò il sogno del miracolo. Sognò una Chiesa nella quale vide che scendeva dal cielo una scala. Per questa scala scendeva un Cappuccino assai macilente di volto il quale aveva stimmate alle mani ed ai piedi. Capì che era s. Francesco, che arrivato all'ulti­mo gradino della scala, fu incontrato da altri due cappuccini che venivano dalla sacrestia.
Di questi, uno portava una scatoletta di confetti, e l'altro una carafina di vino. S. Francesco disse a questi due Cappuccini: "Consolate un poco quest'afflitta donna; soccorrete pietosamen­te al suo bisogno". Subito, quel cappuccino che aveva la scatola di confetti, si accostò a quella donna e le disse: "Conosci tu, chi sono io? Io sono Frà Matteo, a cui ti raccomandasti ieri sera; sta pure allegramente figlia, confida con tutto il cuore in Dio perché egli è Colui che da un gran male sa trarre un gran bene e dopo le tenebre fa comparire la luce. Se io non ammazzavo, se bene inav­vedutamente, il figlio di Mario Cellillo, non sarei giunto a quei gradi di gloria ove ora mi trovo. Confortati, che otterrai quanto brami per la tua figliuola". Così dicendo le mise un confetto in bocca e le diede un sorso di vino. Si sentì subito ristorata. Finì il sonno ed il sogno. La desiderata grazia era stata concessa. Sve­gliatasi dopo il sogno, si ritrovò con le mammelle piene di latte, tanto che ne rimase bagnata anche la camicia. Svegliò il marito, raccontò quanto le era accaduto, e non le venne mai più meno il latte, fino a che la bambina ne ha avuto bisogno.
Questa grazia del p. Matteo l'attesta il p. Giovanni Battista da Guglionesi, al quale l'ha raccontata l'interessata, la quale rilasciò fede giurata alla presenza dei sacerdoti Donato Antonio De Leonardis e Giulio Longo, dinanzi al p. Bernardo da Morcone; guardiano del Convento di Agnone, dinanzi al p. Gabriele da Cerignola, Cronista e guardiano del Convento di Serracapriola. Detta deposizione, è firmata dall'interessata e dai sacerdoti suindicati, in data, Agnone 29 settembre 1634.
Molti altri fatti avremmo potuto registrare, a gloria di Dio e del suo servo p. Matteo da Agnone. Probabilmente, il senso di umiltà e di voluto nascondimento del p. Matteo, ha prevalso non solamente in vita, ma anche dopo la morte. 

 
UN SANTO CONTRO IL DIAVOLO

Il servo di Dio Padre Matteo daAgno­ne, al secolo Prospero Lolli, nacque ad Agnone in Molise nel 1563. La sua fanciullezza fu segnata da un grave incidente. Mentre infatti maneggiava per gioco un'arma da fuoco, un colpo gli partì accidentalmente uccidendo un coetaneo. Per sfuggire alla giustizia, i genitori lo nascosero lontano da casa, presso amici. Dotato di viva intelligen­za, il giovane studiò filosofia e medicina presso l'Università di Napoli e, pur es­sendo il suo direttore spirituale un ge­suita, abbracciò l'ideale francescano. Fu accettato presso il convento di Napoli della Concezione e fece il noviziato a Sessa Aurunca, prendendo il nome di Fra Matteo.
Dopo breve permanenza nella pro­vincia religiosa di Napoli, per interessa­mento delle sue sorelle, fu accolto nel convento di Serracapriola (FG). Nel 1592, dopo un soggiorno a Bologna per seguire le lezioni di Pietro Trigoso da Calatayud, famoso teologo bonaventu­rista, fra Matteo fu ordinato sacerdote e divenne un famoso predicatore.
La sua spiritualità era incentrata sul­la passione di Cristo e sull'assunzione in Cielo della Madre di Dio. Fu superiore locale e provinciale, maestro dei novizi, oratore dotto e devoto. Ebbe dal Signo­re il dono della profezia e dei miracoli. Andando a predicare ad Àgnone, si ri­conciliò pubblicamente con la madre del compagno d'infanzia da lui acciden­talmente ucciso, con grande commo­zione di tutti. La popolazione edificò un convento, di cui P Matteo divenne guar­diano, dove rimase fino al 1616.

IL CARISMA DI ESORCISTA

 Il cappuccino conduceva una vita di estrema penitenza. Operava guarigioni con il segno di croce, era dotato del dono di profezia e di discernimento e soprattutto fu potente esorcista. Que­sto carisma si manifestò mentre era an­cora a Bologna per compiere gli studi nei quali eccelleva, ma si riteneva sem­pre il più indegno di tutti. Una donna di Castelbolognese, posseduta da tredici anni dal demonio, fu condotta a Bolo­gna per essere esorcizzata ma, durante l'esorcismo, i demoni per bocca dell'os­sessa iniziarono a gridare: «Fate pure quanto volete che noi non usciremo da qui, giammai, se non viene Fra Matteo d'Agno­ne, l'umiltà del quale sopra ogni altra cosa ci cruccia e ci flagella». Il frate era nella sua cella a studiare e quando vennero a chiamarlo rifiutò di seguirli, pensando a un inganno diabolico. Ma per ordine del superiore fu costretto a recarsi in pre­senza dell'ossessa e subito il demonio esclamò: «Eccolo... che vuole questo Fra Matteo da me? Io non posso più soffrire di vederlo». E fuggì via in quell'istante, la­sciando libera la donna.
Tre mesi prima di morire, Padre Matteo da Agnone fu assegnato al con­vento di Serracapriola,dove morì e dove ancora si trova la sua tomba. Il Processo diocesano sulla fama di santità è iniziato ufficialmente il 19 giugno 1996.

ESORCISTA DAVIVO E DA MORTO

Il carisma di esorcista di Fra Matteo da Agnone è stato riscoperto da Padre Cipriano de Meo (classe 1924), decano degli esorcisti, nonché vice postulatore della causa di canonizzazione di Padre Matteo.
In 56 anni di ministero esorcistico, Padre Cipriano ha sperimentato che al contatto con la tomba di Padre Matteo d'Agnone e con le sue reliquie, le perso­ne disturbate danno in escandescenze, e il demonio si manifesta in loro con violenza. Per bocca degli ossessi, il dia­volo lamenta che l'invocazione di Padre Matteo lo tormenta.
Padre Cipriano ha raccolto in due voluminosi tomi i colloqui col demonio da lui registrati durante gli esorcismi dal 1986 al 2003. La lettura è un forte stimolo alla fede e un importante sup­porto alla causa di canonizzazione di P Matteo.
Ecco alcuni brani del colloquio dell'esorcista con satana, in cui il nemico ammette la santità del Servo di Dio:
Il demonio con rabbia: «Matteo mi è antipatico perché puzza di Cristo! ... È puzza di beatitudine, di santità, ed io non la sopporto... Non voglio sentire parlare di colui che mi potrebbe provocare grossi dan­ni se gli dai man forte. Tu non lo devi far conoscere a nessuno».
Esorcista: «A me la causa di beatifi­cazione di Padre Matteo sta a cuore... ».
Demonio: «Tu non sai cosa ci sta com­binando. Smetti di portare avanti quella causa!».
Esorcista: «Perché parli così?»
Demonio: «Perché quel morto è mol­to pericoloso, più pericoloso di quando era vivo, e lo sarà ancora di più se quella causa andrà avanti e se quel maledetto verrà glo­rificato per colpa tua». di Patrizia Cattaneo
 

Testimonianze

PADRE MATTEO ESORCIZZA SEMPRE

Una testimonianza, una delle tante, fresca di giornata direi, è la se­guente dalla provincia di Saler­no. Naturalmente taccio il nome dell'esorcista e dell'esorcizzata. È una donna. Prendo dalla rela­zione alcune frasi significative che fanno vedere il tormen­to che soffre l'interessata e la forza degli interventi del P Matteo invocato sia dall'esorci­sta che dalla esorcizzanda.
"Per me è una grande gio­ia dirvi che la presenza spi­rituale di Padre Matteo non mi lascia mai né di giorno, né di notte. Sono sempre sotto la sua protezione; è il mio angelo custode. Quan­do la mattina vado a lavora­re prendo l'immaginetta di P Matteo me la metto in tasca e mi sento protetta perché so per esperienza che il de­monio è terrorizzato da P Matteo.
Ora durante gli esorcismi sto meglio, però se l'esorci­sta invoca l'aiuto di p. Matteo immediatamente il demonio esplode tanto che ci voglio­no quattro persone per man­tenermi. Spesso il demonio, stufo di P Matteo, grida: "Se ne deve andare di qua manda­lo via, se ne deve andare a Ser­racapriola, non ne posso più!"
Qualche volta l'esorcista quasi scherzando ha detto: "Prima o poi ti porterò a Serracapriola da p. Cipriano, quello ti farà ballare".
Il demonio ha risposto: "No, non ci voglio andare da Ciprianuccio, perché lui mi prende e mi sbatte con la te­sta sulla tomba di Matteo, quel pazzo".
Più di una volta l'esorci­sta invocando Padre Matteo ha detto: "Padre Matteo, ora vieni tu ad esorcizzare al mio posto".
Immediatamente la rea­zione è fortissima e le gri­da sono insopportabili. Da un tempo a questa parte, sto vedendo che P Matteo dà al demonio batoste a più non posso.. Io non riesco a descrivere la potenza dei P Matteo.
Quando ho le crisi in ca­sa, mia madre prende l'im­maginetta del P Matteo, me la mette sotto il cuscino e invoca P Matteo. Giuro che "immediatamente" tutto fi­nisce.
Quando il demonio ten­ta di farmi andare fuori stra­da con la macchina, invoco P Matteo e me lo sento al mio fianco e non succede niente.
Vorrei raccontarvi tanti altri aneddoti, ma sarei trop­po lunga.
Padre Matteo per me è un grande santo. Spero che qualche volta possa essere accompagnata a visitare la tomba di Padre Matteo.
Dio benedica il vostro mi­nistero. N. N.
 
Chi crede in Christo, cre­de l'infinita bontà di Dio, perché è stata infinita humi­liatione di quell'infinita ma­està di Dio il farsi huomo, et però è segno d'infinita bon­tà. Se crediamo in Christo, è necessario che confessiamo somma giustizia in Dio et infinita misericordia: infinita giustitia, perché per punire il peccato, è gionto a tal se­gno che ha condotto a mor­te il proprio suo Figliolo; infinita misericordia, perché ciò pur ha fatto per pietà di noi, non ci essendo huomo, né altra pura creatura che potesse a pieno sodisfare con intiera giustitia per le nostre colpe. (R Matteo da Agnone Fasciculus Myrrae)
 
PREGHIERA alla Madonna per la glorificazione del Servo di Dio p. MATTEO DA AGNONE, cappuccino
Vergine e Madre nostra Maria, che ti sei sempre mostrata sensibilissima verso i tuoi devoti, Ti preghiamo umil­mente che Tu ci ottenga dalla Santis­sima Trinità, con la tua potente inter­cessione di Figlia, di Madre e di Sposa, la glorificazione del tuo servo p. Mat­teo da Agnone, che con la parola e con gli scritti, dimostrò e promulgò la tua Assunzione in anima e corpo in cielo, e la divina Regalità del tuo Figlio e Signore nostro Gesù Cristo. Confidiamo nel tuo materno aiuto. Tre Ave Maria

Imprinaatur: San Severo, 25 - 3 - 84 + ANGELO CRISCITO Vescovo

Si annette l'indulgenza parziale.
 

Brevi cenni biografici

P. Matteo da Agnone nacque nel 1563 da pii genitori i quali gli imposero il nome di Prospero. L'educazione, profondamente cristiana ricevuta dai genitori, gli faceva vedere Dio in tutte le cose.
Frequentò l'Università di Napoli nelle facoltà di filosofia e medicina. La bellezza dell'ideale francescano rifulse nella sua mente, ed in questa luce, preferì farsi cappuccino, per poter conoscere meglio le verità della teologia e divenire medico delle anime.
Fece il noviziato a Sessa Aurunca e dopo breve permanenza nella provincia religiosa di Napoli, si affiliò ai Cappuccini di Foggia. Si distinse per l'amore alla Madonna della quale difese l'assunzione in anima e corpo in cielo. Fu superiore locale e provinciale, oratore dotto e devoto. Ebbe dal Signore il dono della profezia e dei miracoli. Con il solo segno di Croce, operò tante guarigioni ad Agnone, a Vasto ed a Serracapriola. Fu potente esorcista.
Molti dolori fisici accompagnarono la sua vita e furono per lui, motivo costante di ringraziamento al Signore.
Tre mesi prima di morire fu assegnato al convento di Serracapriola ed i frati di quel convento lo accolsero con il canto del Te Deum.
Morì santamente il 31 Ottobre 1616. Il 5 maggio 1751 ebbe luogo la prima ricognizione canonica ad opera del vescovo di Larino mons. Scipione De Laurentis ed il 19 ottobre 1978, una seconda ricognizione fatta dal vescovo di San Severo, mons. Angelo Criscito.
Il 26 aprile 1984 lo stesso vescovo di San Severo dava inizio al processo informativo diocesano.
Il 19 giugno 1996, mons. Cesare Bonicelli ne apriva ufficialmente la Causa di Beatificazione e Canonizzazione nella Cattedrale di San Severo.
Il 9 maggio 2002 mons. Michele Seccia, nel Convento dei Cappuccini di Serracapriola; ha presieduto la solenne concelebrazione ed alla cerimonia di chiusura del Processo diocesano.
Il 16 maggio 2002 i faldoni contenenti la documentazione storica del Servo di Dio, sono stati consegnati alla Congregazione dei Santi.
Il 31 Marzo 2006 la stessa Sacra Congre­gazione ha emesso il decreto di validità del Processo Diocesano.
Nel Giugno del 2006 è stato nominato il relatore della causa.