lunedì 27 dicembre 2010

AD IMMAGINE DI DIO [Storia di Emanuele]


[Storia di Emanuele]
In una famiglia cristiana della re­gione parigina, i1 20 novembre 1970, viene alla luce un bambino che sarà battezzato con il nome di Emanue­le. Un fratello, Vincenzo, ed una so­rella, Anna, lo hanno preceduto. La nascita provoca un tripudio di gioia in tutta la famiglia. Il babbo, Signor D., si reca tutte le sere alla maternità, suoi due tesori: la mamma ed Ema­nuele; e, ogni volta, la stessa felicità, sempre nuova, si ripete.

"Non sa poppare"

Tre giorni dopo, il Signor D. si af­fretta alla volta della clinica, con un mazzo di fiori. Il cuore accelera i bat­titi, proprio come la prima volta. Ec­colo sulla soglia della stanza. Ma lì, è come inchiodato sul posto: dal let­to, la moglie gira verso di lui un vol­to inondato di lacrime. Le si precipita accanto. Essa lo guarda fissamente, gli tende le braccia, con la voce stroz­zata dal pianto, balbetta: "Nostro fi­glio non è normale!". Istintivamen­te, lo sguardo del padre si dirige ver­so la culla in cui è adagiato il neona­to, che dorme profondamente. "Non vedo nulla di anormale; te l'ha det­to qualcuno? Chiede alla moglie. - No, nessuno; ma lo so, lo sento, non si muove, non piange, non sa pop­pare". I coniugi rimangono insieme per tutto il pomeriggio, accanto al bam­bino. Il giorno seguente, la Signora D. si decide a farlo esaminare da un pediatra. Lo specialista interroga be­nevolmente la moglie, poi il marito, e comincia con molta calma una vi­sita del piccolo, lunga e meticolosa. L'attesa è un supplizio per i genito­ri. Finalmente, il medico gira verso di essi uno sguardo pieno di amici­zia, di carità. Commenta con deli­catezza la propria diagnosi, prima di giungere alla conclusione: "Vo­stro figlio non sarà come gli altri". Con estrema dolcezza, apprende lo­ro che Emanuele è affetto da triso­mia 21..., è "mongoloide". La prima intuizione della mamma era giusta.

Gli vorremo bene come agli altri!

Il Signor D. deve informare la fa­miglia. Di ritorno a casa, trova i non­ni, gli zii, le zie di Emanuele, che so­no venuti per avere notizie. Egli non riesce a contenere le lacrime e bal­betta: "Mongoloide". La costerna­zione è generale. Poi, ci si riprende, e la stessa frase spunta su tutte le lab­bra: "Gli vorremo bene... come agli altri". "Gli altri", Vincenzo ed An­na, sono anch'essi presenti, e sono perfettamente d'accordo: "Si, gli vor­remo bene, sì, gli vorrò bene!". "Gli vorremo bene!". Risposta me­ravigliosa, che è luce per il nostro mondo. L'atteggiamento cristiano della famiglia di Emanuele contra­sta con il rigetto, tanto frequente ahimè, nelle nostre società, del figlio minorato, inadatto - si ritiene - ad essere felice ed a rendere felici gli al­tri. Papa Giovanni Paolo II constata a questo proposito: "Ci troviamo di fronte ad una realtà caratterizzata dalla preponderanza di una cultura contraria alla solidarietà, che si pre­senta in molti casi come una vera e propria 'cultura di morte' ... A cau­sa della sua malattia, della sua me­nomazione, colui che compromette il benessere o le abitudini di vita di coloro che sono più avvantaggiati, tende ad esser considerato come un nemico da cui ci si deve difendere o che bisogna eliminare. Si scatena in questo modo una specie di cospira­zione contro la vita" (Enciclica Evan­gelium vitx,12). Il rifiuto di accogliere e di lasciar vivere quelli che ci in­tralciano (il bambino concepito ma "non desiderato", la persona mino­rata, o anziana, l'ammalato allo sta­dio terminale... ) manifesta una profonda ignoranza del valore di ogni vita umana. Perché ogni vita umana costitui­sce un bene? La Sacra Bibbia forni­sce, fin dalle prime pagine, una ri­sposta energica e ammirabile a que­sta domanda. La vita che Dio dà al­l'uomo è diversa e distinta da quel­la di qualsiasi altra creatura viven­te. Solo la creazione dell'uomo è pre­sentata come il frutto di una deci­sione speciale da parte di Dio: al ter­mine dell'opera della creazione del mondo, Egli decreta solennemente: Facciamo l'uomo a nostra immagi­ne, secondo la nostra somiglianza (Gen. 1, 26). È conferita all'uomo un'elevatissima dignità, le cui radi­ci si immergono nel legame intimo che lo unisce al suo Creatore: ri­splende nell'uomo un riflesso della realtà stessa di Dio (Evangelium viti, 34). Tale riflesso non è cancellato dal­la menomazione mentale.
Non ti dimenticherò mai!
Poiché è ad immagine di Dio, unico fra tutte le creature visibili ad essere dotato di intelligenza e di volontà li­bera, l'uomo è capace di conoscere e di amare il proprio Creatore. È chia­mato ad entrare in comunicazione personale d'amore con Lui, anche se, per un certo tempo, o addirittura per tutta la vita terrena, tale rela­zione è resa difficile o misteriosa. Proviamo a capire quanto sia tene­ro l'amore di Dio, diceva Madre Te­resa di Calcutta. Poiché Lui medesi­mo dice nella Sacra Scrittura: Anche se una madre potesse dimenticare suo fi­glio, io non potrò dimenticarti. Ecco, ti ho inciso sulla palma della mia mano (Is. 49,15-16). Quando ti senti solo, quando ti senti respinto, quando sei ammalato e dimenticato, ricordati che per Lui sei prezioso. Hai una grande importanza per Lui". L'importanza di ogni persona per Dio ci è manifestata ancora di più at­traverso l'opera della Redenzione, il riscatto dei peccati: In questo sta l'a­more: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi e ha manda­to suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati (1 Giov. 4,10). "Con­templando il sangue prezioso di Cri­sto, il credente impara a riconosce­re e ad apprezzare la dignità quasi di­vina di ogni uomo; può esclamare, con un'ammirazione ed una grati­tudine sempre rinnovate: Che valo­re deve avere l'uomo per il Creato­re se ha meritato di avere un simile e tanto grande Redentore (Exultet della liturgia pasquale), se Dio ha da­to suo Figlio affinché lui, l'uomo, non perisca, ma abbia la vita eterna! (Giov. 3,16)" (Evangelium viti, 25).

"Figlio di Dio, totalmente"

La vita che il Figlio di Dio è venu­to a dare agli uomini non si riduce al­la sola esistenza nel tempo. È desti­nata a durare per tutta l'eternità. L'a­postolo San Giovanni scrive: Consi­derate quale ineffabile amore ci ha do­nato il Padre; che ci chiamano figli di Dio. E lo siamo! Carissimi noi siamo fin d'ora figli di Dio, ma non è stato anco­ra manifestato quello che saremo. Sap­piamo che quando ciò verrà manifesta­to, saremo simili a Lui, perché lo vedre­mo quale Egli è (1 Giov. 3,1-2 ). Il nonno di Emanuele mette in ri­salto questa verità quando scrive: 'Il Battesimo dei miei figli (e nipo­tini) è stato ogni volta per me un mo­mento importante. Mi sembra che attualmente si metta l'accento sul­l'entrata nella Chiesa'. D'accordo. Ma, quanto a me, ci vedo soprattut­to la vera nascita del figlio della no­stra carne alla Vita stessa di Dio. Emanuele non avrà lo sviluppo in­tellettuale, né le capacità fisiche de­gli altri bambini. Ma qui, lo so, lo sento, non vi è nessuna inferiorità; ec­colo figlio di Dio, totalmente, la ma­lattia non ha nessun potere contro questa dignità essenziale". Così, "la verità cristiana relativa alla vita raggiunge la sua pienezza. La dignità della vita non è legata sol­tanto alle sue origini, al fatto che vie­ne da Dio, ma anche al suo fine, al suo destino, che è quello di essere in comunione con Dio, per co­noscerlo ed amarlo" (Evan­gelium viti, 38). Tale comu­nione d'amore non è riser­vata ad una élite di uomini perfettamente costituiti. Si estende an­che a tutti i "poveri" di corpo o di spirito. "I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti ri­sorgono, la Buona No­vella è annunciata ai po­veri (Luca 7, 22). Con queste parole del profe­ta Isaia, GESÙ spiega il sen­so della sua missione: così, coloro che soffrono di una for­ma di menomazione nella loro esistenza, sentono, annunciata da lui, la Buona Novella della solleci­tudine di Dio per loro ed hanno la conferma che anche la loro vita è un dono gelosamente tenuto in mano dal Padre (Matt. 6,25-34) " (Ibid., 32).

Superare i propri limiti

Carissimi, poiché Dio ci ha amati tan­to, anche noi dobbiamo amarci scam­bievolmente (1 Giov. 4,11). La paziente educazione di Emanuele è tutta pie­na dell'amore cui ci esorta San Gio­vanni. Essa presuppone un'infor­mazione esatta sulla natura della menomazione del bambino. Il pro­fessor Jérôme Lejeune, che ha sco­perto nel 1959 la causa della triso­mia 21, spiega che questa malattia non è né una tara razziale, né una conseguenza della sifilide, dell'al­colismo o della cattiva qualità del cervello dei genitori, come si ritene­va fino a quel momento: è un'aber­razione cromosomica. Il bambino "mongoloide" possiede tutti gli or­gani, tutto l'insieme genetico pro­prio all'uomo, senza "errori nella pianta della costruzione"; egli pre­senta unicamente un eccesso di informazione genetica, perché le sue cellule possiedono, per un'aberra­zione, un cromosoma di troppo. Si tratta di una malattia che ostacola lo sviluppo delle facoltà intellettuali, senza le­dere la memoria né l'affettività di colui che ne è colpito. La medicina non dispera di poter un giorno gua­rire le vittime di questo male. Come la maggior parte dei triso­mici, Emanuele si distingue per l'in­dolenza. Ma la Signora D. non si ras­segna a tale fatalità: con tenacia, lo in­cita a superare i propri limiti. Quan­do cade in avanti, non ha l'idea di proteggersi la testa con le mani. La mamma gli insegna a cadere, su un materasso, mettendo avanti le brac­cia, finché egli acquisisce l'automa­tismo. Per farlo camminare, gli pren­de prima un piede, poi l'altro, fa­cendolo trattenersi alla parete; e ciò, per giorni e giorni, fino a quando cammina da solo: miracolo di pa­zienza! È la stessa cosa, per inse­gnargli a salire e scendere una scala... Ben presto, con il babbo, il fratello e la sorella, Emanuele partecipa a cor­se a piedi, e, di tanto in tanto, lo si la­scia arrivare primo al traguardo, mentre, la mamma applaude. Gli ci è vo­luta molta energia per abitua­re la lingua, le labbra, i denti e for­mare le vocali e le consonanti. Parla volentieri, ma la sua pronuncia è spesso confusa. Quando non lo si capisce, lo si fa ri­petere una volta, due volte, tre vol­te: alla fine, si stanca, si prende la te­sta fra le mani, per un minuto o due, poi si riprende e pronuncia la paro­la giusta, o un sinonimo. Ha una co­scienza netta del bene e del male, di quel che è permesso e di quel che è vietato. Si occupa, si distrae, diffon­de l'allegria. E poi, vi è in lui uno spi­rito birichino, una vivacità che non è mai a corto di fantasia. Il riso, in lui, è caratteristico. Gli piace lo sport: nel calcio, la sua azione è ottima, nel judo, è temibile. Nel gioco delle boc­ce, il suo lancio è "magico": non fal­lisce mai il bersaglio. L'equilibrismo non gli fa paura: se la cava sempre. La famiglia passa le vacanze in mon­tagna: talvolta le camminate sono un po' lunghe, soprattutto in salita. Si sente allora la sua vocina: "Non si fa un riposino?".

Come uno specchio d'acqua

In generale, tutti quelli che hanno a che fare con Emanuele sono se­dotti da vari tratti del suo carat­tere. Prima di tutto, ha fidu­cia in tutti, senza restrizio­ni. Poi, ci sono gli occhi con cui ti guarda, di un'estrema dolcezza, e con cui ti avviluppa come uno specchio d'acqua che si spande in tutte le cavità che incon­tra. Ti inonda di tenerezza. Infine, rie­sce a dimenticare se stesso, per curarsi degli altri. Gli piace occuparsi dei piccoli, aiutarli. Spesso, ha una parola, una frase gentile per i suoi. Far piacere è per lui una seconda natura. La sua menomazione, se non è sop­pressa, è attenuata, superata. Il caso di Emanuele conferma la testimonianza di Jean Vanier, fon­datore dell'Arca: l'attenzione bene­vola prestata ai minorati "diventa a poco a poco comunione dei cuori, perché la persona, anche con una menomazione grave, risponde al­l'amore con l'amore... È un rappor­to di fiducia muta che trasforma l'immagine ferita e depressiva del­la persona inun'immagine positiva, mettendo in luce il suo valore, la sua dignità e dandole speranza e ragio­ni di vivere... Le persone deboli han­no una potenza misteriosa che invi­ta alla comunione, trasforma quelli che le accolgono, avvicinandoli al cuore di Dio. Esse sono fonte di unità".

Nella sofferenza... con GESÙ

Il 30 gennaio 1976, Emanuele è col­to da una grave emorragia nasale, seguita da accessi di febbre. Il 17 mar­zo, viene ricoverato all'Ospedale della "Salpétrière", a Parigi. Si pro­cede a prelievi di midollo osseo. Gli esami rivelano che Emanuele è af­fetto da leucemia. Durante le nu­merose degenze nel corso dei sette anni successivi, i genitori si avvi­cendano con altri affinché egli non sia mai solo. Nei periodi di tregua, può vivere in famiglia, ma, alla fine, le ri­cadute si fanno via via più frequen­ti: luglio '82, aprile '83, luglio '83. Emanuele ha desiderato ricevere GESÙ molto presto. "Ed io?" dice ogni volta che vede la mamma far la comunione. Nel corso delle messe domenicali, si distrae raramente e, per quanto riguarda le cose di Dio, è sempre particolarmente attento. Gli capita di sgridare i bambini che fanno chiasso in chiesa, o di far loro cenno di tacere. La sua fede matura di giorno in giorno. La sua attratti­va per "Gesù-Ostia" è sempre mag­giore. Il Giovedì Santo, 23 marzo 1978, Lo riceve per la prima volta. A partire da quel giorno, si comunica ad ogni messa con un raccoglimen­to profondo e un immenso deside­rio. Un giorno, dopo la comunione in una parrocchia di Auxerre, inve­ce di tornare al proprio posto con i ge­nitori, rimane in uno degli stalli del coro, con la testa appoggiata sulle mani giunte. Passandogli accanto, il papà gli chiede: "Cosa fai lì, Ema­nuele? - Prego MARIA perché la mamma non pianga più". Riceve la cresima, il 24 aprile 1983. Questa sensibilità, quest'apertu­ra al divino, è condivisa dalla mag­gior parte dei trisomici. GESÙ, che bussa alla porta di tutti i cuori, tro­va quei piccoli premurosi ad aprir­Gli. Commentando un'allocuzione in cui papa Paolo VI esortava i mi­norati a camminare verso la santità, Jean Vanier afferma: "Sì, certi uo­mini e donne minorati psichici so­no dei Santi. Per via della loro sem­plicità, della sete di essere amati e dell'apertura a GESÙ, confondono i grandi di questo mondo, quelli che ricercano l'efficacia ed il potere fuo­ri del senso del servizio e della co­munione dei cuori. Sono molto po­veri e limitati, ma sono ricchi nella fede, come ci ricorda l'apostolo San Giacomo: "Sentite, miei diletti fratel­li! Dio non ha forse scelto quelli che so­no poveri agli occhi del mondo, affinché siano ricchi nella fede ed eredi di quel Regno che ha promesso a quanti Lo ama­no?" (Giac. 2,5).

Un delitto abominevole

Tuttavia, "i minorati sono fra i più oppressi del nostro mondo, mal­grado i progressi che si compiono in certi Paesi. Molti, e sono sempre più numerosi, vengono eliminati nel se­no stesso della madre" (Jean Vanier). Un giorno, il professor Lejeune ri­ceve in ambulatorio un bimbo tri­somico di dieci anni che gli si getta fra le braccia e gli dice: "Vogliono ucciderci; bisogna che tu ci proteg­ga, perché noi siamo troppo deboli, non saremo in grado di difenderci!". La vigilia, con i genitori, aveva guar­dato una delle prime emissioni te­levisive sull'aborto, in cui si spiega­va come, grazie alla diagnosi pre­natale, fosse possibile scoprire la tri­somia 21 e sopprimere tali bambini indesiderabili. Da quel giorno, il pro­fessore prenderà instancabilmente la difesa del nascituro. Aveva capito che la prima vita dei minorati è situata a livello della diagnosi prenatale, quando questa è realizzata per spingere all'aborto. "La diagnosi prenatale, che non pre­senta difficoltà morali se viene ef­fettuata per determinare le cure eventualmente necessarie per il bambino non ancora nato, diventa troppo spesso un'occasione per con­sigliare e provocare l'aborto" (Gio­vanni Paolo II, Evangelium vitae,14). Ora, l'aborto è sempre, in sé e per sé, un peccato gravissimo. Papa Gio­vanni Paolo II scrive: "Il comanda­mento non uccidere ha un valore as­soluto quando si riferisce alla per­sona innocente. E ciò a più forte ra­gione se si tratta di un essere umano debole e indifeso, che trova solo nel carattere assoluto del comanda­mento di Dio una difesa radicale di fronte all'arbitrio ed all'abuso di po­tere degli altri... La decisione deli­berata di privare un essere umano innocente della vita, è sempre catti­va dal punto di vista morale e non può mai esser lecita, né come fine, né come mezzo in vista di uno sco­po lodevole... Nulla né nessuno può autorizzare che si dia la morte ad un essere umano innocente, feto o em­brione, bambino o adulto, vecchio, malato incurabile o agonizzante. Nessuno può chiedere questo gesto omicida per sé o per un altro affida­to alla sua responsabilità, e neppu­re consentirvi, esplicitamente o me­no. Nessuna autorità può imporlo legittimamente, e neppure autoriz­zarlo" (Ibid., 57). Oggi, nella coscienza di molte per­sone, la percezione della gravità del­l'aborto si è andata offuscando pro­gressivamente. La sua "accettazione nelle mentalità, nei costumi e nella legge medesima è un segno elo­quente di una crisi pericolosa del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere il bene dal male, anche quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Da­vanti ad una situazione tanto grave, il coraggio di guardare in faccia la verità e di dir pane al pane e vino al vino è più che mai necessario, senza cedere a compromessi per facilità o alla tentazione di ingannare se stes­si. A questo proposito, il rimprove­ro del Profeta risuona in modo cate­gorico: Guai a coloro che chiamano be­ne il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre (Is. 5, 20)" (Evangelium vitae, 58). Taluni tentano di giustificare l'a­borto sostenendo che il frutto della concezione, almeno fino a un certo numero di giorni, non può esser con­siderato come una vita umana per­sonale. In realtà, "non appena l'o­vulo è fecondato, si trova inaugura­ta una vita che non è né quella del padre né quella della madre, bensì quella di un nuovo essere umano che si sviluppa a sé. Non sarà mai reso umano, se non lo è già fin da al­lora. A quest'evidenza di sempre, la scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Ha mostrato che, fin dal primo istante, si trova defi­nito il programma di quel che sarà quell'essere: una persona, persona individuale con le sue note caratte­ristiche già ben determinate" (Con­gregazione per la Dottrina della Fe­de, 18 novembre 1974). Forte di una simile convinzione, acquisita attra­verso la scienza, il professor Lejeu­ne diceva volentieri: "Lo studente di medicina più materialistico è co­stretto a riconoscere che l'essere umano comincia all'atto della con­cezione, altrimenti viene bocciato!".

Sei troppo stanco!

Il 7 settembre 1983, lo specialista di­chiara ai genitori di Emanuele che non c'è più nulla da fare. Le ultime domeniche, benché allo stremo del­le forze, Emanuele vuole andare a messa e servirla. Suo fratello cerca di dissuaderlo: "Sei troppo stanco e poi non potrai inginocchiarti'". Allora, facendo prova di un coraggio straor­dinario per dimostrare che può, che vuole andarci, Emanuele fa forza sulle gambe, si strappa dal suolo e in piedi, senza appoggi, fa una genu­flessione, poi si rialza ben diritto. Andrà a servire GESÙ. Il 27 settembre, le cose vanno per il peggio. Emanuele può soltanto gemere, steso nel letto. Il papà e la mamma sono chini insieme su di lui. È il bambino che parla, debolmente, ma nettamente: "Ti voglio molto be­ne, sai, papà - Ti voglio molto bene, sai, mamma". Sono le ultime paro­le che rivolge ai genitori. Ha detto loro "arrivederci, in Cielo". "Emanuele, Dio con noi, resterà un simbolo pieno di speranza. Perché i cristiani sono persone per cui la na­scita, la vita e la morte di un piccolo minorato valgono più di tutti gli ap­plausi offerti agli idoli, più di tutti gli imperi e più di tutto l'oro del mon­do". (Da: “Teologica”)
(don Maurice Cordier, ex par­roco della famiglia di Emanuele).

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