sabato 2 aprile 2011

GENITORI E FIGLI NELL'ISEGNAMENTO BIBLICO

Il tema della vita di coppia, inteso come progetto di comunione personale di un uomo e di una donna, non esaurisce l’argomento né le problematiche sollevate dal sacramento del matrimonio. Un vasto ambito che ancora resta da scandagliare è quello della fecondità della coppia e del rapporto educativo che ne scaturisce in relazione ai figli. Cercheremo di andare con ordine attraverso i due Testamenti.
La necessità dello stato di grazia al momento del concepimento
Il ministero della vita, affidato ai coniugi, inizia prima della nascita dei figli. In Genesi ciò è molto chiaro. La benedizione divina che garantisce loro la fecondità, li rende custodi della persona umana che trae vita da loro:
“Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra” (Gen 1,28).

Questa benedizione originaria è molto più che un semplice comando di propagazione della specie umana, visto che a essa si connette un mandato di gestione della creazione e un dominio sugli esseri viventi. In sostanza, mentre tutti gli esseri semplicemente si riproducono, l’umanità si espande sul pianeta per dominarlo; questo fatto conferisce una nota particolare al loro ministero genitoriale, che non può fermarsi all’atto del generare, ma deve proseguire nell’opera educativa, che inserirà i loro figli in quel processo di apprendimento che è necessario per dominare il mondo.

Il ministero della vita e l’opera educativa che vi è connessa, come la benedizione originaria, ha in certo senso inizio prima della nascita dei figli. Il primo sigillo che si imprime sul carattere dei figli è lo spirito nel quale vivono i genitori al momento del concepimento. Ci sembra importante notare come, in Genesi, i progenitori abbiano avuto i loro figli dopo la cacciata, e quindi fuori dall’Eden. Ora, l’Eden è la cifra dell’uomo che vive nel favore di Dio. Dei figli di Adamo ed Eva si parla solo a partire dal cap. 4, e ciò significa che essi non hanno generato nessuno, mentre si trovavano nella luce piena della grazia di Dio. I figli concepiti fuori dall’Eden, ossia in una condizione soggettiva di lontananza dal favore di Dio, sono rappresentati da due fratelli in stato di conflitto: vale a dire, l’umanità concepita fuori dallo stato di grazia è un’umanità divisa, che si porta dentro una ferita tale da rendere molto difficile la sua ricerca di Dio.

Caino e Abele sono i due volti della discendenza squilibrata di una coppia che vive lontana dall’amore di Dio. Caino e Abele sono anche l’annuncio del dolore che i figli possono dare ai loro genitori, quando non siano stati introdotti fin dall’inizio della vita alla conoscenza e al timore di Dio. Nell’AT ci sono degli esempi notevoli, che non si possono sottovalutare, circa la necessità che la grazia di Dio avvolga i bambini fin dal concepimento. Ovviamente, si tratta di testi che vanno letti tenendo conto dell’epoca e della mentalità soggiacente, ma il significato dei due brani cui ci riferiamo è molto chiaro secondo lo spirito del racconto. Il primo riferimento lo prendiamo dal libro dei Giudici, dove la nascita di Sansone viene preannunciata ai suoi genitori. Egli nasce da una donna sterile, che viene avvertita da un angelo con queste parole: “concepirai e partorirai un figlio. Ora guardati dal bere vino o bevanda inebriante e dal mangiare nulla di immondo… tuo figlio sarà consacrato a Dio fin dal seno materno” (Gdc 13,3-5).

Queste esortazioni rivolte alla madre, circa la purezza religiosa da mantenere durante la sua gravidanza, ritornano con insistenza nel seguito del medesimo capitolo. Il figlio, che ha una missione da parte di Dio in favore di Israele, ha bisogno di svilupparsi in grembo a una donna che viva in primo luogo lei stessa nella luce della grazia divina. La stessa prospettiva, sebbene con piccole variazioni, si ripresenta a proposito della nascita del profeta Samuele: uno dei massimi profeti di Israele nasce da una coppia che vive nell’ubbidienza al volere di Dio, recandosi ogni anno in pellegrinaggio al tempio per compiere sacrifici al Signore. Anna, futura madre del profeta, prega con insistenza e con lacrime per ottenere un figlio, tanto che il sacerdote del tempio pensa che sia ubriaca; ma Anna gli risponde: “Non ho bevuto né vino né altra bevanda inebriante, ma sto solo sfogandomi davanti al Signore”. Lui allora le disse: “Va’ in pace e il Dio di Israele ti ascolti” (1 Sam 1,15-18).

Ma anche nel NT, che dire dei genitori del Precursore di Cristo, di cui Luca riferisce questa testimonianza: “Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore” (Lc 1,6). Il battista nasce insomma da una radice di santità che lo avvolge fin dalla nascita (cfr. Lc 1,39-45). Non citiamo il caso della nascita di Gesù, essendo del tutto fuori delle regole della natura, ma non possiamo tacere il fatto che il Verbo di Dio, per farsi uomo, ha voluto che sua Madre fosse “piena di grazia” (Lc 1,28). La solidarietà generazionale è ancora affermata in Genesi a proposito di Noè. Il Signore gli dice: “Con te io stabilisco la mia alleanza” (Gen 6,18); eppure questa alleanza, stabilita con il giusto Noè, ha un valore inclusivo per tutta la sua famiglia: “Entrerai nell’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli” (Gen 6,18). Solo di Noè si dice che “trovò grazia agli occhi del Signore” (Gen 6,8).

Perché questa grazia si estende anche a tutti i membri della sua famiglia? Una generazione è sempre strettamente collegata all’altra in una sorta di solidarietà o di responsabilità collettiva, se si vuole, per cui il peccato di uno ha delle conseguenze inevitabili su chi gli vive accanto, come pure la santità di uno si irradia beneficamente in maniera analoga sui propri familiari. In questa prospettiva possiamo senz’altro comprendere molto meglio il senso di una grazia di salvezza che viene riservata da Dio a una comunità umana, della quale non si dice che è giusta nel suo insieme, ma si dice che il suo capostipite ha trovato grazia presso Dio. Del resto, aldilà del legame di consanguineità, non è lo stesso concetto soggiacente alla possibile salvezza della città di Sodoma, se in essa si fossero trovati dieci giusti? (cfr. Gen 18,32). Se una intera città avrebbe potuto essere salvata dalla distruzione, se in essa si fossero trovati dieci giusti, ci può meravigliare che una intera famiglia possa ricevere da Dio una benedizione, in forza della giustizia del suo capostipite? Siamo insomma tutti legati da una profonda solidarietà nel bene e nel male. Il NT ritorna su questa verità antropologica, riaffermandone gli effetti che perdurano tra una generazione e un’altra:

Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi. E voi per opera sua credete in Dio, che l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria e così la vostra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio (1 Pt 1,18-21).

L’Apostolo parla esplicitamente di una eredità proveniente dalle generazioni precedenti, da cui i cristiani devono prendere le distanze. Nello stesso tempo, la guarigione delle tendenze peccaminose dei padri non avviene senza uno speciale aiuto da parte del Signore: la potenza del Sangue di Cristo (cfr. vv. 18-19). Il Sangue di Cristo, espressione che allude indirettamente all’Eucaristia, ci rende consanguinei di Cristo, comunicandoci la sua purezza e la sua santità, e ci sgancia dalla peccaminosa consanguineità del peccato ereditario, cioè il peccato originale, con tutti i suoi molteplici addentellati. Infatti, al peso di negatività che il peccato originale comunica a ogni bambino che viene in questo mondo, si aggiunge anche la ramificazione dei peccati familiari (cfr. v. 18). Come pure:

Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te (2 Tm 1,5).

Non tutte le eredità familiari, però, sono negative. Vi sono famiglie in cui il Sangue di Cristo, per la buona volontà dei loro membri, ha prodotto infatti frutti di santità che si espandono e passano di generazione in generazione. E’ il caso di Timoteo, nato in una famiglia dove da almeno tre generazioni si vive di fede; l’Apostolo Paolo, ricorda la nonna di Timoteo e la madre di lui, donne che rappresentano una tradizione familiare che ha scelto di vivere nell’ubbidienza a Dio e nella pietà religiosa. Nelle parole di Paolo si percepisce l’idea che il cammino cristiano di Timoteo è stato reso più facile e più lineare in forza della fede della nonna e della mamma. Non a caso la fede di Timoteo è quella della nonna e della mamma:
“la tua fede schietta che fu prima nella tua nonna, poi in tua madre, e ora anche in te”.

L’esperienza di fede della famiglia è dunque passata a Timoteo come la consegna di una eredità spirituale. Alla luce di queste considerazioni, rileggiamo con maggiore intelligenza certi testi del Pentateuco che trattano il problema dell’antenatismo. Il tema della solidarietà generazionale, o antenatismo, ritorna infatti esplicitamente in Esodo, Numeri e Deuteronomio. Riprendiamone brevemente i termini. La solidarietà nel peccato o nella santità è chiaramente affermata in uno dei testi più basilari della fede ebraico-cristiana, ossia il Decalogo:

“Io sono il Signore, tuo Dio, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore per mille generazioni, per quelli che mi amano” (Es 20,5-6).

Non è possibile dubitare del passaggio di una eredità spirituale che unisce una generazione a quella successiva. Infatti, nessun uomo ragionevole potrebbe pensare che i genitori comunicano ai loro figli solo il patrimonio somatico e non anche quello psichico e spirituale. L’essere umano non è solo carne; la persona è anche mossa da un insieme di tendenze, di inclinazioni del temperamento, di disposizioni mentali, che in buona parte si ereditano dai propri antenati. E’ sotto l’esperienza di tutti il fatto che in certe famiglie esistano dei fenomeni ricorrenti; e non si tratta solo di malattie ereditarie, che di tanto in tanto rispuntano nell’albero genealogico, bensì anche di elementi del temperamento o comportamentali che si ripresentano da una generazione a un’altra.

Insomma, i genitori comunicano ai loro figli qualcosa di più che non la statura, la carnagione o il colore degli occhi; vi è un mondo psichico e spirituale che il bambino respira fin dal grembo della madre, e da cui viene in parte condizionato nella sua crescita. Il bambino non è un foglio bianco su cui si può scrivere di tutto; il bambino è una pagina già scritta, anche se in forma di bozza. L’intreccio imponderabile tra l’esperienza della vita e la libertà personale trasformeranno poi la bozza in un testo definitivo. Il brano del Decalogo citato sopra, mentre afferma la realtà di una solidarietà nel peccato all’interno dell’albero genealogico, afferma anche la solidarietà nella grazia, la quale si presenta con una forza diffusiva molto maggiore di quella del peccato. Il concetto viene ripreso in termini identici in Nm. 14,18 e Dt 5,9-10.

Il dato dogmatico che ci sembra di potere ricavare da questi testi è che lo stato di grazia dei genitori ha un certo influsso sullo spirito dei loro figli, a partire dal concepimento. Ciò significa che non è lo stesso - relativamente al cammino di ricerca di Dio che i figli faranno – generare i propri figli in stato di grazia o in stato di peccato. La loro vita spirituale da adulti potrebbe risentirne. E dobbiamo usare il condizionale, perché l’influsso spirituale (positivo o negativo) che i figli ricevono dai genitori non è mai una forza dal carattere assoluto e deterministico. Infatti, se da un lato la Bibbia dice che, in linea di massima, da genitori santi nascono figli santi, dall’altro lato – affermando la libertà dell’arbitrio individuale – lascia aperta la possibilità che i figli possano spezzare l’eredità negativa proveniente dai genitori o, al contrario, capovolgere in male ciò che essi hanno ricevuto in bene. Ne è un chiaro esempio un testo di Ezechiele, che riportiamo in forma sintetica:

“Se uno ha generato un figlio violento e sanguinario, che commette tali azioni, mentre il padre non le commette, il figlio morirà e dovrà a se stesso la propria morte; ma se un uomo peccatore ha generato un figlio che, vedendo tutti i peccati commessi dal padre tuttavia non li commette, costui non morirà per l’iniquità di suo padre” (18,10-18).

Si vede bene come un figlio possa esercitare il suo libero arbitrio, distaccandosi dalle consuetudini familiari e spezzando l’eredità spirituale dei suoi antenati. Lo stesso concetto viene affermato dal libro del Deuteronomio:

“Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri” (24,16). Così anche in Ger. 31,29-30.

In conclusione, si vuole dire che ciascuno di noi è il risultato di una evoluzione generazionale, nella quale, in seno alle nostre famiglie, siamo tutti solidali nel bene e nel male; così tutti noi ci affacciamo alla vita portandoci dentro una eredità umana e spirituale in parte positiva e in parte negativa. Su questa eredità si esercita poi l’azione del nostro libero arbitrio, in forza del quale possiamo sviluppare o annullare l’eredità proveniente dagli antenati, qualunque essa sia.
La coppia, custode dell’uomo

L’affidamento del compito procreativo, ricevuto all’origine dalla prima coppia, non può esaurirsi, com’è ovvio, nel mettere al mondo i figli, ma deve prolungarsi in una paternità e maternità capaci di generare la personalità dei propri figli, dopo averli generati come individui. A proposito del dolore del parto, preannunciato alla donna in Gen. 3, è usato un verbo ebraico altamente significativo (yalad) che non contiene soltanto l’idea di “mettere fisicamente al mondo”, ma indica anche la fatica di “far crescere”. Alla donna non sono preannunciati solo i dolori del parto come fatto fisico, ma sono preannunciati anche quei dolori che accompagneranno il difficile compito di guidare i propri figli verso la maturità umana. Il verbo ebraico yalad allude in certo senso a una paternità e maternità che rispondono al disegno di Dio nella misura in cui generano “una seconda volta” i propri figli, formando in loro una personalità completa come uomini e come figli di Dio.
Gli errori dell’educazione:

Vediamo adesso qual è il discorso biblico sull’educazione, che sarebbe appunto il secondo modo di generare i figli, anch’esso in qualche modo doloroso come il parto fisico.
Procreatori ma non educatori

Riprendendo il testo di Genesi, analizziamo l’atteggiamento della prima coppia nel rapporto coi propri figli. Gli indizi scritturistici talvolta sono molto esigui, ma non per questo meno significativi. Ad esempio, perché i progenitori sono presentati in Genesi 1-4 solo come coppia, e quando nascono Caino e Abele non sono presentati mai insieme ai loro figli come una famiglia unita? Nella lettura del racconto delle origini si ha l’impressione di vedere da un lato Adamo ed Eva, dall’altro i loro figli; mai tutti insieme. Sembra una famiglia internamente divisa, dove i genitori non sono mai descritti accanto ai figli, e i figli sono descritti da soli e in lotta tra loro. Si dice che Eva partorì un figlio e poi un altro (cfr. 4,1-2), ma nel racconto biblico Caino e Abele non si trovano mai insieme a lei e a lui. Come mai? Qual è la ragione di questa omissione? Forse il testo biblico vuole dire che il primo effetto del peccato, in relazione all’educazione dei figli, è l’assenza dei genitori? Anche in questo caso la conseguenza del peccato si presenta sotto l’aspetto di una scissione, ossia la separazione tra il ruolo di procreatori e quello di educatori. Adamo ed Eva sono presentati sì come procreatori, ma non come educatori di Caino e Abele. Essi sembrano infatti assenti nella vita dei loro figli. La loro paternità e maternità sembra estendersi interamente sulla dimensione umana e scarsamente su quella spirituale. Al contrario, ad Abramo sarà chiesta una duplice paternità: non solo la procreazione, ma anche l’inserimento dei propri figli e discendenti nell’alleanza con Dio. Così, la paternità fisica diventa paternità spirituale nell’atto di comunicare ai figli la propria fede:

“Guardati dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli” (Dt 4,9); e altrove: “Ora, figli, vi comando: servite Dio nella verità e fate ciò che a Lui piace. Anche ai vostri figli insegnate a ricordarsi di Dio” (Tb 14,8).
La paternità debole

Un’altra disfunzione possibile, indicata dalla Scrittura, oltre all’assenza dell’educatore, è la sua presenza debole. Ne abbiamo un esempio istruttivo nel primo libro di Samuele a proposito del rapporto tra il sacerdote Eli e i suoi figli. L’insieme del racconto vuole suggerire che la paternità debole produce dei figli che si impongono ai genitori e talvolta, divenuti adulti, anche a Dio. Il caso di Eli in questo senso è emblematico. Dopo lo svezzamento, Samuele è condotto al tempio da sua madre e viene accolto dal sacerdote Eli. Questi ha due figli che esercitano anch’essi il sacerdozio, ma in maniera del tutto scapigliata: spadroneggiano e sfruttano le persone che vanno al tempo a offrire sacrifici (cfr. 1 Sam 2,12-17). Eli comunque è già abbastanza vecchio e i suoi figli non ascoltano i suoi richiami e le sue correzioni (cfr. 1 Sam 2,22-26). Il problema però non è questo. Il Signore interviene successivamente pronunciando un giudizio sull’opera educativa di Eli, e ciò getta molta luce sulla vera causa della disubbidienza dei suoi figli, che non è il decadimento della vecchiaia. Un uomo di Dio va al tempio con un messaggio del Signore per Eli; in questo discorso profetico, a Eli viene detto tra l’altro:

“tu hai avuto maggior riguardo ai tuoi figli che a me, e vi siete pasciuti in tal modo con le primizie di Israele, mio popolo” (1 Sam 2,29).

Con le parole “hai avuto maggior riguardo ai tuoi figli che a me”, il Signore gli svela la vera causa della disubbidienza dei suoi figli: Eli, nella sua vita sacerdotale, non ha ubbidito a Dio e non ha avuto zelo per l’onore del suo nome, e perciò ha perduto l’ubbidienza dei suoi figli. Inoltre, li ha fatti crescere e li ha educati col timore di dire loro dei “no”, che essi non avrebbero gradito. Dicendo sempre “si” ha quindi formato in loro una personalità indomabile, che con l’adolescenza e la maturità sfugge poi del tutto a qualunque controllo. A maggior ragione, nella debolezza della vecchiaia la sua parola per loro non conta più nulla. In questa stessa linea si muove anche il libro del Siracide:

“Come un cavallo non domato diventa restio, così il figlio lasciato a se stesso diventa sconsiderato” (30,8); e ancora: “Educa tuo figlio e prenditi cura di lui, così non dovrai affrontare la sua insolenza” (Sir 30,13).

La paternità rigorista

Se la paternità debole produce delle persone tendenzialmente selvagge, la paternità rigorista produce delle persone tendenzialmente insicure. L’insicurezza è una malattia dello spirito, e non va confusa con l’umiltà, che invece è una virtù di alto valore. La persona umile è capace di dominarsi e talvolta di tacere dinanzi a gravi affronti subiti personalmente; ma è una scelta libera, non un’incapacità. L’umile non è mai né pauroso né insicuro, e quando tace dinanzi a chi lo colpisce in volto, rimane perfettamente padrone di sé. La paternità rigorista non produce delle persone umili in senso cristiano, ma semplicemente delle persone spaventate, che troveranno nelle loro stesse paure un ostacolo notevole al vivere da persone mature e al cammino evangelico di santità. Qui è soprattutto l’Apostolo Paolo che mette in guardia gli sposi cristiani dal cadere in questo genere di errore educativo, che si paga poi a lungo raggio:

“Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino” (Col 3,21); e nella lettera agli Efesini: “E voi, padri, non inasprite i vostri figli” (6,4).

Dal punto di vista dell’Apostolo, una paternità rigorista conduce i figli allo “scoraggiamento”, inteso ovviamente come sentimento permanente di sconfitta dinanzi alla vita, sentimento che accompagna inevitabilmente tutti coloro che sono stati rimpiccioliti da una paternità squilibratamente rigorosa. Se a questo si aggiunge, come talvolta può accadere, anche l’inasprimento, allora la relazione educativa che unisce genitori e figli giunge definitivamente a un punto morto. La fragilità di una personalità, e di un carattere in formazione, potrebbe venire irreversibilmente spezzata da un metodo educativo che non sa dosare la fermezza e la dolcezza. Anche il libro dei Proverbi si muove in questa direzione:
“Correggi tuo figlio finché c’è speranza, ma non ti lasciare trasportare dall’ira” (Prv 19,18).

La preferenza di persone

La Bibbia disapprova altresì l’atteggiamento educativo che non sa essere imparziale e, per una ragione o un’altra, si schiera in favore di un figlio a scapito degli altri. La conseguenza è di solito quella di gravi lacerazioni tra fratelli e sorelle. Le figure bibliche che incarnano l’errore educativo della preferenza di persone sono Rebecca e Giacobbe. Rebecca ha due figli, Esaù e Giacobbe. Il primo era un abile cacciatore, mentre Giacobbe era un uomo tranquillo che stava molto tempo a casa. Sua madre era più legata a lui che a Esaù (cfr. Gen 25,27-28).

Con un inganno, narrato al cap. 27 della Genesi, Rebecca fa in modo che la benedizione della primogenitura - ossia il diritto a ereditare una doppia parte dei beni familiari - passasse a Giacobbe, escludendo Esaù, che invece ne aveva il pieno diritto secondo le consuetudini dell’epoca patriarcale. Quando Esaù prende coscienza di essere stato estromesso dai suoi diritti di primogenito, comincia a perseguitare suo fratello e minaccia perfino di ucciderlo. Rebecca comincia a temere il peggio e fa fuggire Giacobbe, perché conosce Esaù e sa che è un uomo violento (cfr. Gen 27,41-45). Si riserva, però, di richiamare indietro Giacobbe, quando l’ira del fratello fosse sbollita. Giacobbe, a sua volta, coi suoi figli rifarà lo stesso sbaglio che sua madre aveva fatto con lui: amerà di amore di predilezione Giuseppe, attirandogli addosso l’ostilità degli altri fratelli. Sappiamo, però, che, nell’uno e nell’altro caso, Dio si è servito di questi sbagli molto umani per realizzare senza difficoltà i suoi disegni. In sostanza, coloro che Dio chiama a entrare nella sua alleanza e a coinvolgersi nella sua storia, non sono santi al momento della chiamata, e tuttavia, la volontà di Dio si realizza comunque, al di sopra e al di là dei loro limiti personali.
La paternità che strumentalizza

E’ il caso di Ismaele, il figlio nato per risolvere il problema dell’eredità. In questo punto, la Bibbia intende biasimare un altro genere di errore di impostazione del rapporto coi figli, che è quello di desiderare un figlio in vista di un risultato che si vuole conseguire. L’antefatto è ben noto: la moglie di Abramo era sterile, e in un primo tempo egli pensava di dover lasciare l’eredità a Eliezer, un domestico di cui aveva fiducia. In Gen 15 si narra però di una promessa fattagli da Dio, di dargli cioè una discendenza. In questo momento Dio non precisa da chi gli nascerà il figlio promessogli e lo stesso Abramo non pensa che gli possa nascere dalla moglie.

Egli prende come un segnale divino la proposta di sua moglie di prendere la sua schiava come concubina e di adottare il figlio di Agar come fosse il proprio figlio. Solo nella visione del capitolo 17, e poi ancora al capitolo 18, quando Dio gli comparirà alle querce di Mamrè, Abramo saprà che proprio Sara, nonostante la sua sterilità, dovrà essere la madre del figlio della promessa. Abramo, come sempre, crede sulla parola, mentre Sara ci ride su. Ad ogni modo, la nascita di Ismaele avviene prima di questi fatti ed è una nascita che non risolve ma complica la situazione di partenza. Ci sembra che qui la Bibbia ci voglia dire che i figli devono essere voluti per se stessi e non per un qualche obiettivo che tramite loro si pensa di poter raggiungere. Il rischio potrebbe essere quello che accompagna la nascita di Ismaele: egli è un figlio voluto per un determinato scopo – quello di avere un erede che mantenga la coesione del patrimonio familiare - ma per se stesso non è veramente amato né veramente accolto in seno al clan di Abramo. La stessa Sara, che pure lo ha adottato, talvolta non lo sopporta e chiede ad Abramo di allontanarlo insieme a sua madre (cfr. Gen 21,8-21).

Fin qui abbiamo parlato dei disguidi che la Bibbia ci indica nel processo educativo, mettendoci in guardia da questi possibili errori, il cui prezzo talvolta è alto e duraturo nei suoi effetti negativi. Ma non è tutto in negativo l’insegnamento biblico sull’educazione. Vi sono anche delle indicazioni che vanno in senso positivo, ma le rimandiamo al discorso che faremo sull’educazione nel NT.
La Sapienza parla a genitori e figli

Il gruppo di libri che va sotto la definizione tradizionale di “libri sapienziali” ha un carattere eminentemente pratico e un obiettivo preciso, che è quello di individuare le leggi costanti della vita; chi ha scoperto le leggi costanti della vita è raramente soggetto a commettere errori, perciò la sapienza pratica si potrebbe anche definire come “l’arte di vivere”. Questi libri trattano praticamente di tutti gli ambiti della vita quotidiana, in cui occorre fare delle scelte, sia nell’ambito della vita privata e familiare che in quello pubblico e sociale. Noi ci soffermeremo sul primo gruppo di temi sapienziali, da cui dedurremo le piste pratiche suggerite dalla tradizione ebraica veterotestamentaria a proposito del rapporto genitori-figli.

Diciamo subito che i libri sapienziali non svolgono la loro materia in maniera ordinata. Un tema viene talvolta ripreso più volte in punti diversi dello stesso libro. Cercheremo di mettere in evidenza solo ciò che tali testi dicono ai genitori e ai figli. Ci sembra che alla base del discorso educativo dei libri sapienziali ci sia un principio religioso fondamentale, in base al quale i genitori rivestono verso i loro figli lo stesso ruolo rivestito da Dio verso ogni persona. Il principio suddetto noi lo ricaviamo, ad esempio, dal libro dei Proverbi:

“Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signore e non avere a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (Prv 3,11-12).

E in modo ancora più esplicito nel Siracide:
“Chi teme il Signore rispetta il padre” (Sir 3,7).

Si stabilisce così una linea diretta tra il Signore e il padre terreno, nel momento in cui Dio è venerato nel rispetto dato al proprio padre. Dall’altro lato, la disubbidienza al proprio padre è rovinosa come lo è quella che ci fa ribelli a Dio:

“Chi rifiuta la correzione disprezza se stesso”, mentre l’accettazione della correzione paterna ci migliora e ci comunica la saggezza, come se si fosse corretti da Dio: “chi ascolta il rimprovero acquista senno” (Prv 15,32);

e ancora:

“Lo stolto disprezza la correzione paterna, chi tiene conto dell’ammonizione diventa prudente” (Prv 15,5).

C’è insomma una linea diretta che unisce il ministero educativo dei genitori e l’opera pedagogica che Dio svolge incessantemente nel mondo verso tutti gli uomini. Questa medesima idea soggiace anche alla disposizione dei comandamenti nel Decalogo, dove il comandamento dedicato ai genitori è posto subito dopo i tre che riguardano Dio. Distinguiamo la materia in due categorie: detti sapienziali rivolti ai genitori e detti rivolti ai figli. I libri di riferimento sono Proverbi e Siracide.
Il dettato dei Proverbi

Ai genitori:
“Chi genera uno stolto ne avrà afflizione” (Prv 17,21)

“Un figlio stolto è un tormento per il padre e un’amarezza per colei che lo ha partorito” (Prv 17,25).

Si tratta di due proverbi dal contenuto analogo: l’autore intende richiamare i genitori, e soprattutto coloro che si preparano a divenirlo, a una precisa consapevolezza riguardante l’opera educativa genitoriale. I dolori che i figli possono dare ai loro genitori sono molto grandi, come si vede dall’intensità dei vocaboli utilizzati per definire un figlio che vive disordinatamente: afflizione, tormento e amarezza. Non sempre, però, la colpa è tutta dei figli. In fondo i genitori, nella loro opera educativa, raccolgono di solito quello che hanno seminato. Altre volte accade che i figli degenerino per volontà propria, pur avendo ricevuto un’ottima educazione. In ogni caso, quando la stoltezza penetra nel cuore dei figli, o perché non hanno conosciuto la sapienza, o perché l’hanno respinta da sé, i dolori, a cui i genitori vanno incontro, sono di grande portata. Ciò che conta è che i genitori facciano tutto il loro possibile, per far crescere i figli nella saggezza dei giusti, finché non venga superato quel margine dell’età evolutiva, oltre il quale i figli si sganciano dalla guida genitoriale. In questo senso possiamo leggere la parte iniziale del proverbio successivo:
“Correggi tuo figlio finché c’è speranza, ma non ti lasciare trasportare dall’ira” (Prv 19,18).

L’espressione restrittiva “finché c’è speranza”, allude ovviamente al fatto che, nel processo educativo che si svolge tra le mura domestiche, c’è un limite di tempo oltre il quale non è più possibile far passare dei messaggi verso i figli, o comunicare loro dei valori, se prima dello scadere di quel limite ciò non fosse mai stato fatto. Un esempio banale per uscire dall’astratto dei principi generali: un valore come la Messa domenicale, i figli di una coppia cristiana, lo apprendono in modo non verbale, andandoci con i genitori nel corso di quegli anni, preziosissimi, in cui i figli sogliono uscire coi genitori. Scaduto quel tempo, i genitori difficilmente potranno convincere i figli ad andare a Messa la domenica usando solo le esortazioni verbali, se tale valore non fosse stato comunicato, in modo non verbale, durante gli anni precedenti. La seconda parte del proverbio ha un altro significato non meno importante nella sfera dell’educazione: i genitori sono esortati dalla Bibbia a saper distinguere, con acuto discernimento, la correzione, che scaturisce da un lucido e misurato rimprovero, da quella che invece esplode senza misura e senza lucidità a causa di un’ira incontrollata: “ma non ti lasciare trasportare dall’ira” (Prv 19,18).

La correzione veramente educativa è solo quella che si dà con lucidità, giustizia e misura. Diversamente si rischierebbe di ferire una personalità fragile e in fase di formazione. Se questo difficile lavoro educativo riesce, i suoi frutti sono di gioia e di consolazione:
“Correggi il figlio e ti farà contento e ti procurerà consolazioni” (Prv 29,17).

Questo tema della correzione del figlio è molto ricorrente nell’insegnamento sapienziale; l’idea di fondo è che questo lavoro di correzione, che forma la personalità dei figli, deve essere fatto – come già si è detto - in tempo utile, prima che la crescita li renda meno malleabili.
Ai figli:

Ai figli viene dato innanzitutto un criterio di discernimento per valutare la posizione davanti ai genitori: la stoltezza tipica dei figli consiste essenzialmente nel rifiuto della educazione genitoriale. Il figlio che comincia a sentire dentro di sé tali fermenti, deve prenderli come una segnalazione di pericolo, come i sintomi di una malattia spirituale che potrebbe comportare gravi conseguenze:
“Lo stolto disprezza la correzione paterna” (Prv 15,5).

“Il figlio saggio ama la disciplina” (Prv 13,1).

“Il figlio saggio allieta il padre, l’uomo stolto disprezza la madre” (Prv 15,20).

“Ascolta il consiglio e accetta la correzione, per essere saggio in avvenire” (Prv 19,20).

L’idea che il testo intende comunicare è che l’orgoglio è del tutto fuori luogo nel rapporto educativo tra genitori e figli; i figli vengono avvertiti a non prendere la correzione come se fosse un’offesa, ma indirettamente anche ai genitori si suggerisce che il loro modo di correggere gli errori dei figli non abbia l’aspetto di una umiliazione gratuita. I figli vengono ancora avvertiti del fatto che devono guardare più al futuro che al presente per non scoraggiarsi: è infatti del tutto normale avere ancora qualcosa da imparare finché si è ragazzi. E lo stesso sarà anche da vecchi. Dunque, nessuna meraviglia se qualcosa ancora manca nella nostra personalità prima di diventare perfetta.

“Figlio mio, cessa pure di ascoltare l’istruzione, se vuoi allontanarti dalle parole della sapienza” (Prv 19,27).

Ossia lo spazio va garantito per l’esercizio della libertà nella posizione che i figli prenderanno circa i valori ricevuti dai genitori. In questo punto la Bibbia si mostra estremamente attenta al valore della libertà nel rapporto educativo. I genitori devono certamente fare di tutto per comunicare ai loro figli ciò che di più prezioso essi hanno scoperto nella vita, ma non devono pretendere di replicarsi e di produrre nei figli tante piccole immagini di se stessi.

“Chi maledice il padre e la madre vedrà spegnersi la sua lucerna nel cuore delle tenebre” (Prv 20,20).

Ossia, è uno che non avrà luce nella sua vita. Il tema della efficacia della maledizione ricorre sovente nei contesti sapienziali che si riferiscono al rapporto genitori-figli. La benedizione dei genitori rende la vita dei figli sicura e prospera, così come la loro maledizione indebolisce le fondamenta della casa dei figli (cfr. Sir 3,9): in altre parole, c’è come un potere sacerdotale nella benedizione dei genitori, che acquista valore ed efficacia sulla vita dei figli; anche la maledizione lanciata da un figlio verso i propri genitori ha la sua efficacia, ma nella forma del boomerang, cioè è efficace su colui che la lancia.

“Figlio mio, se il tuo cuore sarà saggio, anche il mio cuore gioirà” (Prv 23,15).

I figli devono essere consapevoli del fatto che la gioia più grande che possono dare ai loro genitori è una vita armonica ed equilibrata, senza eccessi e senza pericolose stranezze.

“Ascolta tuo padre che ti ha generato, non disprezzare tua madre quando è vecchia” (Prv 23,24).
Il dettato del Siracide

Il libro del Siracide, a proposito del rapporto genitori-figli, ha uno spessore teologico indubbiamente maggiore di quello di Proverbi, che in fondo non si discosta eccessivamente da indicazioni di ordine pratico. Il Siracide include le prospettive pratiche di Proverbi ma al tempo stesso le supera verso una rilettura teologica del problema educativo.
“Chi onora il padre espia i peccati” (Sir 3,3).

L’elevatezza teologica di questo versetto si percepisce immediatamente. Sullo sfondo c’è il quarto comandamento, osservando il quale si ubbidisce a Dio, e l’ubbidienza a Dio è il principio per il quale i nostri peccati vengono cancellati, così come la ribellione a Lui è il principio per il quale si diviene peccatori.

Così anche il proverbio successivo:

“Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera” (Sir 3,5).

L’osservanza del quarto comandamento si ribalta positivamente nell’esperienza genitoriale: chi vive onorando i propri genitori, getta le basi perché anche i suoi figli onorino lui. Ciò allude a una verità fondamentale che sarà meglio esplicitata dai testi esortativi dell’Apostolo Paolo: è vero che Dio comanda ai figli l’onore per i genitori, ma è vero anche, e non si può tacere, che l’onore non è a senso unico e si potrebbe non ricevere, quando lo si è gravemente demeritato. Il testo del Siracide vuole dire in questo punto che l’onore da parte dei propri figli si riceve certamente, quando si ha la statura morale per riceverlo. L’onore verso il proprio padre viene posto in diretta corrispondenza con quello dovuto a Dio:
“Chi teme il Signore rispetta il padre” (Sir 3,7).

L’onore verso i genitori, dicevamo, potrebbe per un complesso di cause essere da questi demeritato, ma ciò non autorizza i figli a sorvolare le esigenze del quarto comandamento; infatti, per onorare i genitori è sufficiente che si conosca il timore di Dio. Il testo suppone poi anche un’altra verità: il modo con cui noi siamo figli rispetto a Dio si rende visibile nel modo in cui ci rapportiamo ai nostri genitori umani.

Il tema del sacerdozio dei genitori viene poi affermato ancora una volta, mettendo in rilievo l’efficacia della loro benedizione:

“La benedizione del padre consolida le case dei figli, la maledizione della madre ne scalza le fondamenta” (Sir 3,9).

La rilettura teologica del rapporto genitori-figli emerge sovente tra le righe del Siracide:

"Figlio soccorri tuo padre nella vecchiaia… non disprezzarlo mentre tu sei nel pieno vigore, poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata e ti sarà computata a sconto dei peccati” (Sir 3,13-14).

Il dovere di onorare i genitori, stabilito dal quarto comandamento, non può restare su un piano puramente teorico e deve concretizzarsi in scelte di servizio e di assistenza nel tempo della loro vecchiaia. Ma c’è di più: la pietà verso i genitori - e qui subentra l’aspetto teologico - equivale a un sacrificio espiatorio, ovvero un’indulgenza che cancella i propri peccati personali. Gli aspetti pratici, tuttavia, non sono mai trascurati, come si vede da esortazioni che riprendono delle tematiche educative già accennate dal libro dei Proverbi:
“Hai figli? Educali e sottomettili fin dalla giovinezza” (Sir 7,23).

“Educa tuo figlio e prenditi cura di lui, così non dovrai affrontare la sua insolenza” (Sir 30,13).

L’idea di fondo è ancora quella del tempismo dell’educazione: i figli si possono plasmare nel loro carattere entro la fine della fase evolutiva della loro crescita; dopo, quando la personalità inizia a delinearsi nella sua originalità, diventa molto difficile influire sul loro pensiero in maniera determinante. Su questo tema il Siracide ritorna insistentemente con toni piuttosto accorati:

"Chi corregge il proprio figlio ne trarrà vantaggio. Chi accarezza un figlio ne fascerà poi le ferite. Un cavallo non domato diventa restio, un figlio lasciato a se stesso diventa sventato. Piegagli il collo in gioventù perché poi intestardito non ti disobbedisca e tu ne abbia un profondo dolore. Educa tuo figlio e prenditi cura di lui, così non dovrai affrontare la sua insolenza” (Sir 30,2.7-8.12-13).
L’insegnamento del Nuovo Testamento

Un discorso definitivo sulla paternità e maternità dei genitori cristiani non può essere fatto, se non alla luce del NT. Qui il senso della fecondità della coppia umana raggiunge la sua luce maggiore. Ci sembra di poter cogliere, nel mondo del vangelo, due grandi piste di comprensione dell’esperienza genitoriale e filiale: la generazione verginale e il ridimensionamento della paternità e della maternità in Cristo.
La generazione verginale in Cristo
(ossia: l’amplificazione della fecondità)

Con la famiglia di Nazaret, si può dire che si apra per la coppia un nuovo tipo di cammino familiare. Maria e Giuseppe vivono entrambi, ciascuno per il suo verso, un’esperienza di maternità e di paternità molto originale, o quantomeno fuori dai canoni delle consuetudini comuni. In questa esperienza di maternità e di paternità c’è però qualcosa che riguarda tutti i cristiani e non soltanto la loro vocazione individuale. Si tratterà di scoprire cosa c’è nella famiglia di Nazaret che sia in grado di parlare a ogni famiglia cristiana. La paternità di Giuseppe di Nazaret, analogamente alla maternità di Maria (con le dovute differenze), è una paternità verginale. Egli accetta quel Bambino, e gli fa spazio nella sua vita, come se fosse suo figlio. Ciò che importa notare è che Giuseppe non è meno padre per il fatto che Cristo non è nato fisicamente da lui. Di lui si può dire che egli è veramente padre, nella misura in cui intendiamo per paternità la capacità di fare spazio nella propria vita a una personalità in evoluzione. Chi non è capace di questo non può mai essere padre, anche se ha generato fisicamente molti figli.

La sua esperienza fonda così per i cristiani la possibilità della paternità verginale, che deve venire a completare la paternità fisica dell’uomo sposato. La paternità verginale si estende allo spirito del figlio, rivelandogli nei tratti umani del proprio padre, un segno visibile e un’idea approssimativa di ciò che Dio Padre è per ogni essere umano. Anche se il vangelo non è esplicito su questo punto, ci sembra tuttavia plausibile affermare che il Cristo Bambino abbia ritrovato nei tratti umani di Giuseppe un riflesso della divina paternità. Se in Lc 2,48-49 Cristo ridimensiona la paternità di Giuseppe, ciò non è per negarne il valore, bensì per affermare il primato della paternità di Dio. Di fatto il testo prosegue non a caso affermando:
“Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso” (Lc 2,51).

Anche per Maria, cambiando alcuni particolari che in Lei sono irripetibili, bisogna dire lo stesso: la sua maternità va compresa più nella linea della fede che in quella della carne, sebbene Cristo sia fisicamente figlio di Lei. Tuttavia, ella dovrà imparare a gestire la sua maternità in un nuovo ordine di cose. E qui entriamo nel secondo nucleo che volevamo sottolineare.
Il ridimensionamento in Cristo della paternità e della maternità

Su questo punto bisogna dire che entrambi, sia Giuseppe che Maria, si scontrano con una realtà nuova. A differenza delle altre coppie, devono accettare l’idea che su questo Figlio essi non possono progettare nulla, non possono nutrire desideri, non possono sognare. Piuttosto, come risulta dal già citato passo di Luca, devono custodire Cristo fino a quell’età decisa dal Padre, nella quale giungerà l’ora di ubbidire a un disegno prestabilito. Giuseppe vede in questo senso ridimensionata la sua paternità, quando Gesù dodicenne, nel Tempio, fa riferimento al “Padre suo” (Lc 2,49). Non è invece affatto ridimensionata la sua figura di “custode”. Cristo rimane sottomesso a lui, fino al tempo stabilito dall’altro Padre. In fondo, da questo momento in poi, la genitorialità non può che essere modellata sulla famiglia di Nazaret, che custodisce il Figlio, ma non ostacola il disegno di Dio, che Egli sarà chiamato a realizzare. Qui si inquadra il ruolo dei genitori nella ricerca vocazionale dei figli. Essi sono custodi delle vite che Dio ha loro affidato, ma sono anche accompagnatori e consiglieri sulla strada della scoperta della propria vocazione.

Anche Maria viene condotta lungo un processo di espropriazione della sua maternità: Gesù dunque allontana Maria dalla sua maternità fisica per aprirla però a una nuova esperienza di maternità, che si estenderà a tutti coloro che nasceranno dalla morte del Figlio e dal consenso della Madre. Un episodio altamente significativo si ha a Cana, dove Maria agisce con autorità materna su Cristo: “Non hanno più vino”. E’ sicura che Egli le ubbidirà, come sempre. Ma qui c’è in gioco qualcosa di più: la manifestazione del segno messianico non può dipendere dalla Madre, ma solo dal Padre:
“Che c’è tra Me e te, o donna?”.

Un altro momento di questo processo di ridimensionamento della maternità di Maria, finalizzato a una più alta maternità, è riportato da Mt 12,46-50:

“Mentre ancora parlava alle folle, sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e chiedevano di parlargli. Qualcuno gli disse: Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e chiedono di parlarti. Ma egli rispose: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Quindi stese la mano verso i suoi discepoli e disse: Ecco mia madre e i miei fratelli; chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi mi è fratello, sorella e madre”.

Maria è presente e ascolta questo insegnamento di Gesù sulla novità dei rapporti di parentela che si stabiliscono in virtù della fede e della sottomissione alla volontà di Dio. Nella risposta di Gesù a quel qualcuno che lo informa della presenza della Madre e dei fratelli, anche la figura della “Madre” è equiparata ad una relazione che può esistere solo in virtù dell’ubbidienza alla volontà di Dio, aldilà della discendenza secondo la carne. In questa relazione secondo lo Spirito, Maria viene riconosciuta “Madre” da Gesù non in quanto lo ha fisicamente generato, bensì in quanto ha basato la propria vita sulla sottomissione al Padre di Gesù.

Così anche i fratelli di Gesù non possono essere i suoi cugini secondo la carne, ma tutti coloro - indipendentemente dal grado di parentela genealogica – che, una volta divenuti figli del Padre di Gesù mediante l’ubbidienza, sono necessariamente anche fratelli di Lui. Questa fratellanza implica anche una somiglianza; non somatica, ovviamente, ma spirituale. Si è fratelli di Gesù nella misura in cui si vive la propria vita nella sottomissione al volere del Padre e nella auto consegna agli interessi del Regno; esattamente a immagine di Lui. Quanto a Maria, perfino la sua maternità fisica è subordinata alla sua fede: non sarebbe infatti stata Madre di Gesù se non avesse detto “si faccia di me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Il suo consenso creaturale al progetto di Dio scaturisce dalla sua fede, ed è in virtù di questo consenso che il Verbo ha potuto farsi carne nel grembo di Lei.

In altre parole, Maria non avrebbe potuto concepire Cristo nel suo utero, se prima non lo avesse concepito nella sua fede. Per questa ragione, la divina pedagogia che Gesù le applica durante il ministero pubblico, tende continuamente a distaccarla dalla relazione fisico genitoriale con Lui, per aprirla alla relazione e all’amore nuovo della discepola Vergine e Madre. E non è soltanto verso di Lui che Maria deve operare questa trasformazione del concetto di parentela, bensì verso tutti i discepoli, fratelli di Gesù, e perciò figli autentici di Lei. Da un lato, i genitori cristiani sono custodi dei loro figli, fino al tempo stabilito da Dio per far valere i diritti assoluti della sua Paternità. Dall’altro, anche ai figli viene detto di non amare i genitori più di Dio, perché non sarebbe virtù ubbidire ai genitori, trasgredendo la volontà di Dio. Anche in questo senso va rivisto e ricompreso il quarto comandamento: non avrebbe senso onorare i genitori disprezzando la volontà di Dio. Per questo, nel discepolato cristiano, il Maestro chiede una dedizione assoluta e un amore verso di Lui ancora più grande di quello che si ha verso i genitori, la moglie, le sorelle, i figli (cfr. Lc 14,26).

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