sabato 2 aprile 2011

IL MATRIMONIO COME SACRAMENTO


Cercheremo di scandagliare i testi biblici più importanti sul tema della famiglia. Nostro intendimento sarà quello di ricostruire i nuclei del disegno di Dio sulla coppia, sia quanto al rapporto uomo-donna, sia quanto al ministero della vita affidato a entrambi come custodi della persona umana. Come cristiani siamo consapevoli del fatto che l’amore umano, vissuto secondo la spontaneità dei sentimenti, non coincide col progetto di Dio sulla coppia, per il semplice fatto che tale progetto non si intuisce, ma si conosce per rivelazione.

L’amore semplicemente umano è un amore guidato dal sentimento e dall’istinto; è un amore desideroso di colmare i propri vuoti e, in realtà, ciascuno dei due cerca nell’altro qualcosa che gli manca. E’ un amore senza progetto, che prende ogni giorno così come viene, oppure, se possiede un progetto, esso è fatto a tavolino, come un tracciato partorito dal proprio buon senso. E’ un amore ripiegato verso l’interno della casa, amore che inizia e finisce nel perimetro ristretto delle pareti domestiche e dei suoi abitanti. L’amore della coppia cristiana è, invece, un amore guidato dalla Parola di Dio e vissuto in compagnia di Cristo, che indica la strada verso l’amore dell’origine; è un amore che non cerca di colmare i propri vuoti, ma di rendere più felice l’altro. Soprattutto, è un amore che deve realizzare un progetto ideato da Dio sul modello della sponsalità di Cristo e della Chiesa, in vista di una missione particolare che la coppia deve realizzare in favore della Chiesa. La coppia cristiana ha perciò bisogno di scoprire giorno per giorno quale sia il “progetto divino dell’amore”, perché non può conoscerlo se non gradualmente e nella misura in cui Dio lo rivela. Nell’intento di tracciare i lineamenti basilari dell’amore ideato da Dio e proposto alla coppia cristiana come meta di un cammino di discepolato, ci volgiamo ai testi biblici più significativi da questo punto di vista, desumendo da essi alcuni nuclei che costituiscono i punti di forza della spiritualità coniugale.
Primo nucleo:

chi forma la coppia è DioNei due racconti della creazione, secondo Genesi 1 e 2, la coppia nasce da un progetto divino, che l’autore sacro presenta in due versioni. Entrambe, nei loro aspetti specifici, contribuiscono a completare il quadro dell’umanità maschile e femminile nel suo più genuino significato. Nel primo di questi due racconti la coppia emerge dal creato originario simultaneamente. Nessuno dei due è creato prima dell’altro. Nascono insieme come figli della stessa matrice, e perciò come fratello e sorella, prima ancora che come marito e moglie. In questo racconto si dice innanzitutto che Dio ha creato l’uomo a sua immagine (v. 27). Cosa significhi questa “immagine” è già chiaro all’interno della struttura retorica del medesimo versetto:

“a immagine di Dio li creò maschio e femmina li creò
Si vede subito come l’espressione “maschio e femmina” sia in perfetto parallelismo con “immagine di Dio”. Ciò significa che l’uomo è immagine di Dio in virtù della sua natura sessuata, ossia nella duplicità reciproca della mascolinità e della femminilità. Volendo seguire l’intenzione del Creatore, l’immagine di Dio sulla terra va dunque cercata in primo luogo nella coppia. Il matrimonio come sacramento nascerà, infatti, nel tempo della redenzione, sulla base di questo principio. La grazia sacramentale del matrimonio rende la coppia capace di “essere” sacramento, cioè segno visibile ed efficace dell’invisibile. Il mistero trinitario, invisibile all’occhio umano, diventa accessibile ai sensi nella visibilità della comunione familiare. Al tempo stesso, l’invisibile amore sponsale di Cristo per la Chiesa, amore indissolubile e fecondo, può essere “visto” nella coppia che giunge ad amarsi nell’amore di Cristo e della Chiesa. Dal punto di vista umano, ciò è impossibile; per questo occorre una grazia sacramentale per realizzarlo. La corporeità sessuata è “sacramento” dello spirito umano e dice la sua destinazione a integrarsi con un “tu” personale mediante il dono di sé. In ciò si coglie l’immagine di Dio uno e trino, che si realizza nella comunione delle persone, e si riflette visibilmente nella comunità coniugale.

Il corpo sessuato indica dunque, innanzitutto, un “essere per”. La sessualità umana esiste allora come “un dono per l’altro”. Nella creazione del corpo sessuato Dio ha in sostanza rivelato visibilmente una caratteristica peculiare dello spirito umano: se una persona non è capace di donarsi, rimane sola e sterile. La persona umana trova la sua più alta realizzazione nella propria auto consegna per amore, e questo vale in tutti gli ambiti della vita. Il corpo umano è insomma il segno di una verità che riguarda l’interiorità personale: l’io della persona ha un bisogno costitutivo di realizzarsi nel dono di sé. La persona stessa si umanizza solo quando entra in relazione di dialogo con l’altro. Il corpo è, insomma, il “sacramento” dello spirito, dove per “sacramento” si intende il segno visibile di una realtà che non si vede. Dio si manifesta pienamente allora nell’esperienza della donazione personale che avviene nella coppia, una donazione che è insieme sorgente di unità e di fecondità. Sappiamo dal NT che Dio vive una beatitudine increata proprio nell’esistere come Amore, cioè in uno slancio di eterna auto donazione. Questa sua immagine Dio ha voluto replicare nella realtà umana.

Nel medesimo primo racconto di Genesi (capitolo 1), Dio affida poi alla coppia il compito di porsi al servizio della vita e quello di amministrare il creato, personificando, in un certo senso, la signoria di Dio sulle creature (v. 28). Il secondo racconto della creazione (2,7-8.15-25) aggiunge poi nuovi particolari al disegno di Dio sulla coppia. Qui la prospettiva è un po’ diversa: l’uomo viene creato per primo e la donna in un secondo momento (vv. 7 e 18), mentre nel capitolo 1 i due vengono all’esistenza simultaneamente (cfr. 1,27). A questo duplice atto creativo, e alla sua modalità, nel creare l’uomo e la donna in due momenti distinti, si collegano nuove verità della coppia. Dio plasma l’uomo dalla polvere (v. 7), e ciò intende evidenziare la nostra natura terrestre e il nostro essenziale legame fisico e psicologico con questo pianeta. Anche in questo racconto l’uomo esercita una signoria sul creato, sia custodendo il giardino (v. 15), sia imponendo il nome alle cose create (= la nascita del linguaggio; cfr. v. 20). La signoria dell’uomo sul creato era tendenzialmente illimitata nel primo racconto, ma nel secondo è menzionato un limite ben preciso. Si tratta dell’albero della conoscenza. Chiamarlo “limite” non è del tutto esatto, dal momento che è invece l’ambito di un altro aspetto della signoria dell’uomo. Il primo racconto ci diceva che l’uomo ha avuto fin dall’inizio la vocazione a signoreggiare il creato, il secondo racconto aggiunge che egli è chiamato anche a signoreggiare se stesso. Infatti, l’uomo non è impedito dall’esterno nel suo movimento verso l’albero, ma deve comandare a se stesso di non avvicinarsi. La signoria su se stesso coincide perciò col riconoscimento della signoria di Dio. Cancellata la signoria di Dio dalla coscienza umana, cessa anche ogni ragione per la quale la persona debba esercitare un qualche controllo su se stessa e sulle proprie pulsioni. Ciò avviene precisamente col peccato originale originante: negata la signoria di Dio, rimane solo la propria; negata la legge morale sopra di sé, occorre elaborarne un’altra a partire da se stessi. A quel punto, però, la morale elaborata a partire da se stessi, è sempre una morale costruita sulla volontà di potenza.

Quando l’uomo perde la sua signoria su se stesso, la perde anche sul creato: dopo il peccato originale la natura gli si ribella, la terra lo fa sudare prima di produrre qualcosa di utile, il parto per la donna diventa difficile e carico di ansie, e la vita di coppia, piena di incomprensioni e conflitti. A differenza del primo racconto, in Genesi 2 la coppia nasce in un secondo momento, in concomitanza con la creazione della donna. Qui troviamo anche gli spunti di una teologia “al femminile”. La decisione di creare la donna è sottolineata da un pensiero di Dio, pieno di sollecitudine per Adam:
“Non è bene che l’uomo sia solo, voglio fargli un aiuto che gli sia simile” (v. 18).

La donna viene all’esistenza sulla scia di un pensiero d’amore e di sollecitudine che Dio rivolge all’uomo. Più precisamente è la personificazione di questo pensiero di Dio, preoccupato per la solitudine di Adam. D’ora in poi, se Adam vorrà avere un’idea di come lo ama Dio, dovrà guardare come lo ama lei. Qui entriamo in uno degli aspetti più profondi del sacramento del matrimonio: la “personificazione” dell’amore di Dio per l’altro; ciascuno dei due è una rivelazione di questo amore, e insieme lo sono per i figli. In questo secondo racconto la donna viene tratta dal corpo dell’uomo. Ciò significa intanto una identità di natura e un’uguaglianza di dignità. La coppia umana si differenzia quindi nettamente dagli altri esseri viventi: essa riflette l’immagine di Dio (1,27), la donna riflette l’immagine dell’uomo da cui è tratta (2,18), mentre Adam sente una distanza incolmabile tra sé e gli animali (v. 20). Rispetto agli animali, l’uomo è “un’altra cosa”, anche se la modalità della sua esistenza è corporea come la loro. In nessuno di essi, cioè degli animali, Adam riscontra alcuna similitudine con se stesso (v. 20), e in questo consiste la sua effettiva solitudine: il suo interiore bisogno di donarsi esige un “tu” personale, che ancora non c’è; e proprio qui Adam comprende di essere diverso dal resto del creato. Solo lui ha bisogno di un “tu” personale di fronte a sé, con cui entrare in relazione e a cui donarsi, per potersi sentire pienamente se stesso.

Il fatto che la donna, in Genesi 2, venga tratta dal corpo dell’uomo, intende esprimere anche altri significati. Adam non è testimone della creazione della donna: egli cade in un sonno profondo, e quando si sveglia scopre di essersi sdoppiato sessualmente (vv. 21-23). I due esseri che risultano da questo sdoppiamento tendono continuamente a ritrovare l’unità originaria. Alla donna egli impone un nome che, in lingua ebraica, indica qualcosa come “un altro se stesso”: così, lei si chiamerà ‘ishah, perché tratta da ‘ish (v. 23). In italiano potremmo tradurre: si chiamerà uoma, perché tratta da uomo. Questa imposizione del nome è parte integrante del primo canto d’amore registrato dalla Bibbia, un canto di stupore e di ammirazione: tu sì che sei davvero una parte di me! (cfr. v. 23). Notiamo ancora che in questo primo incontro tra l’uomo e la donna è Dio che la conduce ad Adam (v. 22), e non è Adam che se la prende come un bene di sua proprietà. L’accoglie, cioè, con la delicatezza e l’umiltà con cui si accoglie un dono.

Il narratore fa poi due rilievi conclusivi ai vv. 24-25: il primo sottolinea che la realtà della coppia nasce da una scelta libera e personale: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie”. I verbi “abbandonerà”, “si unirà”, fanno riferimento alla libera decisione che porta la persona ad aprire un capitolo nuovo nella propria vita, fondando una famiglia diversa da quella di origine. Inoltre quest’unità è anche feconda: “i due saranno una sola carne”, cioè i loro corpi distinti si trovano riunificati nell’unità corporea del figlio che nasce. Ma soprattutto, questa unità è segno di una unione indissolubile, come è inseparabile un corpo dalle sue membra. Il secondo rilievo, mette in evidenza il rapporto perfettamente armonico, tanto che la loro reciproca nudità non produce alcuna forma di turbamento. Il tema della nudità, in relazione a quello della vergogna, ritornerà al cap. 3, a proposito delle conseguenze del peccato originale. Ma ce ne occuperemo a suo luogo.

Una possibile pastorale per i fidanzatiIl secondo racconto della creazione, vede la coppia formarsi dopo la creazione di Adam. Per una fase della sua esistenza nell’Eden egli dunque è solo. La creazione della donna non comporta ancora la nascita della coppia. La coppia comincia a esistere quando Dio la produce:

“Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolto all’uomo, una donna e la condusse all’uomo” (Gen 2,22).

Da questo versetto chiave discende un principio importante per i giovani cristiani che si preparano al matrimonio: l’incontro con il proprio partner non è la soluzione a un problema privato. Il battezzato non trova per sé il partner, piuttosto lo riconosce come tale lungo un cammino di ricerca e di discernimento vocazionale. Il matrimonio cristiano è una vocazione; ciò comporta che il suo autore e organizzatore è Dio. Dalle sue mani divine i giovani cristiani prendono il proprio partner, non come coloro che, dopo avere scelto per conto proprio lo sposo o la sposa, senza avere consultato il Signore, senza avere pregato su ciò, senza avere compiuto alcun itinerario di ricerca vocazionale sotto la guida dei pastori della Chiesa, si presentano all’altare per ricevere il sacramento del matrimonio.

Un elemento di estrema importanza, nell’accompagnamento vocazionale dei giovani verso il matrimonio, è costituito dallo spazio che la volontà di Dio, e il suo primato, devono occupare nella scelta del partner. Infatti, se ogni partner è potenzialmente idoneo a costruire un rapporto di amore in senso puramente umano, non ogni partner è idoneo a costituire una coppia che realizza in se stessa il disegno di Dio. In modo particolare, ci riferiamo al fatto che la forza di santificazione e di ministerialità del sacramento del matrimonio attinge alla fede di entrambi, non a quella di uno solo dei due. Il fidanzamento tra due persone battezzate, ma di cui solo una è in cammino di fede, è altamente a rischio. Da qui derivano le tante brutte sorprese, che vengono fuori solo dopo il matrimonio: colui (o colei) che al tempo del fidanzamento era, come tutti i giovani, allegro e simpatico, buono e pieno di attenzioni, al confronto con le difficoltà della vita matrimoniale, non avendo un vero cammino di fede, si inaridisce nell’egoismo e si rivela incapace di altruismo e di immedesimazione nel punto di vista del partner. Qui viene a galla un’essenziale immaturità spirituale, che nel fidanzamento si era manifestata in elementi che la giovane età di solito sottovaluta. Solo Dio sa quale partner non mi deluderà nel corso lungo della vita.

Ad esempio, vi sono talvolta tra i fidanzati delle divergenze notevoli di idee, anche su grosse questioni esistenziali; i giovani fidanzati, però, le sottovalutano e tra una battuta e l’altra le sdrammatizzano. Ciascuno dei due pensa in cuor suo: “Non importa se abbiamo idee diverse sulla vita, quello che conta è che ci vogliamo bene; e poi, col tempo ci conosceremo di più e sicuramente ci capiremo”. Col tempo avviene, infatti, un processo di evoluzione, ma non sempre nel modo in cui i ragazzi se lo aspettano. L’evoluzione della persona - e questo si comprende solo in età matura – con gli anni non fa che confermare e approfondire le posizioni prese intorno ai vent’anni, consolidando le idee che da ragazzi si andavano delineando. Così, se a vent’anni si è atei, a quarant’anni di solito si è ateissimi; se a vent’anni si concepisce la vita in un determinato modo, a quarant’anni si trovano delle giustificazioni teoriche e pratiche per confermare quella visione. Vale a dire: con gli anni si cambia, sì, ma solitamente approfondendo le linee di pensiero decise intorno ai vent’anni.

L’unica eccezione è il miracolo, cioè la conversione per intervento straordinario di Dio, che non può essere atteso come se fosse una cosa normale, né si può dare per scontato, perché trattandosi di un miracolo di ordine spirituale, l’uomo potrebbe sempre resistervi e rifiutarlo nella sua libertà. Ciò significa che quei giovani credenti che vanno al matrimonio con un partner non credente o indifferente al problema religioso, devono sapere fin dall’inizio che vanno incontro a grandi sofferenze: o perderanno quota, e dovranno mettere il Signore in secondo piano per andare d’accordo col partner non credente, oppure dovranno affrontare una lotta spirituale di vaste proporzioni. La terza possibilità, ossia la conversione del partner, è un miracolo, e come tale si colloca nell’azione straordinaria di Dio, che potrebbe anche non esserci. Comprendiamo bene allora le preoccupazioni di Abramo in Gen 24,3:

“io ti farò giurare per il Signore, Dio del cielo e della terra, che tu non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, in mezzo ai quali io abito”,

come pure l’esortazione di Mosè agli israeliti che stanno per entrare nella terra di Canaan:

“Non prendere per mogli dei tuoi figli le loro figlie, altrimenti, quando esse renderanno culto ai loro dèi, indurrebbero anche i tuoi figli a fare altrettanto” (Es 34,16).

Ci colpisce il fatto che qui si parla del pericolo di essere trascinati nell’idolatria dal proprio partner, ma non si fa l’ipotesi che il partner ateo possa essere portato alla conoscenza del vero Dio. Infatti, l’esperienza dimostra ampiamente che ciò avviene solo di rado.

Il discernimento vocazionale?Da queste osservazioni risulta un fatto: da ragazzi noi sappiamo distinguere le persone che ci sono simpatiche da quelle che ci fanno soffrire, ma non sappiamo distinguere chi è il partner col quale, oltre all’amore umano (che come dicevamo si può costruire con tutti) si possa costruire l’amore come sacramento e come risposta al disegno di Dio. Qual è allora la soluzione? Rispondiamo così: la soluzione è nel discernimento vocazionale e nell’accompagnamento dei giovani verso il matrimonio. Ciò che si fa col sacerdozio e con la vita consacrata, deve essere fatto anche per il matrimonio. Occorre un’equipe di coppie per ogni comunità cristiana che guidi i giovani, li consigli, li aiuti a discernere nel tempo del fidanzamento, li introduca a capire la differenza tra l’amore umano-naturale e il disegno di Dio per la coppia. Nell’AT, il matrimonio di Isacco è un episodio che descrive molto bene la vicenda di due ragazzi in cammino di discernimento vocazionale. Sarà opportuno riprenderlo nelle linee essenziali, dal momento che esprime molto bene, con tutta l’autorità della Scrittura, quello che stiamo cercando di dire.

Il tema centrale del racconto è quello del matrimonio inteso come ricerca vocazionale. Non è dunque un affare privato, non consiste nel legarsi alla prima persona che si dimostra piacevole. Il matrimonio dei cristiani risulta da una azione vocazionale in cui Dio, come primo protagonista dell’amore, chiama un uomo e una donna a essere ministri della vita, in dipendenza dal suo divino progetto. Questo amore, umano e divino al tempo stesso, non si può realizzare, come è ovvio, con un partner non credente. Abramo si dimostra consapevole di ciò, quando fa giurare al suo servo di non prendere una moglie per Isacco dal territorio di Canaan, abitato da pagani idolatri. Abramo vuole piuttosto che suo figlio sposi una donna proveniente dalla sua stessa terra di origine, figura di una condizione di comunione con Dio. Di fatto, Dio guiderà il servo di Abramo verso la casa di Rebecca, figlia di Betuel, parente di Abramo e di tradizione familiare monoteista. Isacco troverà in lei una compagna di vita molto simile a lui, essendo stata educata, come lui, nella medesima tradizione religiosa del clan di Abramo.

Il servo di Abramo parte verso la terra di Abramo, ma non sa chi è la donna che Dio ha destinato per Isacco. Il dialogo che precede la partenza pone alla base di questa ricerca la libertà della donna: il servo è infatti libero dal suo giuramento nel caso in cui, una volta trovata la moglie per Isacco, ella si rifiuti di abbandonare la propria famiglia di origine. Il tema della libertà del consenso nella formazione della coppia è costantemente presente nel matrimonio secondo la Bibbia. Anche suo padre lascerà andare Rebecca solo dopo che essa avrà espresso manifestamente la sua decisione libera di seguire il servo di Abramo, partendo con lui. L’insegnamento sul discernimento è affidato quasi esclusivamente alla figura del servo, definito come “il più anziano della casa” (Gen 24,2). Si tratta di un uomo saggio di cui Abramo si fida totalmente. Dio concede la luce del discernimento alle persone affidabili. Uno stile di vita improntato alla lealtà è certamente la base di qualunque discernimento, dal momento che lo Spirito di Dio fugge da chi vive in modo squilibrato (cfr. Sap 1,4).

Il particolare più notevole è che il servo di Abramo, giunto nel territorio del clan di Abramo, si fermò e si rivolse a Dio nella preghiera, chiedendo di essere guidato all’incontro con la persona giusta. La risposta di Dio è immediata:
“Non aveva ancora finito di parlare, quand’ecco Rebecca…” (Gen 24,15).

Questo significa che, se tutto parte dalla preghiera, gli eventi e gli incontri della vita quotidiana acquistano il senso di un messaggio divino. L’atteggiamento di sincera ricerca della volontà di Dio libera la persona dalla cecità del caso. Per coloro che pregano, nulla è causale. Avendo chiesto a Dio di guidarci nella vita quotidiana, abbiamo la certezza di fede che Egli dispone ogni cosa nei minimi particolari. Il senso delle cose non è più contenuto, come per i pagani, nel fatto che le circostanze mi siano favorevoli, ma nel fatto che esse sono state preparate da Dio così come sono. Esse continuano perciò a essere sensate, anche se non mi sono propizie. Nel caso del servo si Abramo, tutto si svolge in maniera propizia, ma l’accento non lì. L’accento è sul fatto che l’incontro con Rebecca non è casuale, anche se lo sembra. Non è causale perché è preceduto dalla preghiera, che è la porta di ingresso della potenza di Dio nella nostra vita quotidiana. Questo intervento di Dio nelle circostanze quotidiane è riconosciuto da tutti quelli che vivono nel suo favore. Infatti, quando il servo giunge alla casa di Rebecca, anche il padre e il fratello di lei colgono la singolarità di questo incontro:
“Allora Labano e Betuel risposero: dal Signore la cosa procede” (Gen 24,50).

Secondo nucleo:lei è tua sorella La Scrittura presenta il “dialogo confidenziale” della coppia come un elemento essenziale dell’amore umano elevato dalla Grazia. Questo si vede chiaramente dal fatto che spesso, nella Bibbia, la moglie è chiamata sorella. Nel matrimonio di Tobia si leggono queste parole:
“D’ora in poi tu sei suo fratello e lei tua sorella” (Tb 7,12).

Così anche nel Cantico dei Cantici: “Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa” (Ct 5,1).

La definizione della moglie come “sorella” allude alla qualità di un rapporto elevato tra l’uomo e la donna, ossia un rapporto capace di raggiungere le profondità del cammino di fede di ciascuno nella condivisione dei doni di grazia. Così come nella comunità cristiana ciascuno mette a disposizione di tutti il proprio dono di grazia, allo stesso modo, nella vita di coppia, ciascuno dei due si arricchisce con la grazia dell’altro. Nel Cantico dei cantici, in particolare, il termine “sorella” figura sempre in prima posizione rispetto a quello di sposa, quando si trovano insieme:

“Mi hai ferito il cuore, sorella mia, sposa… come sono belle le tue carezze, sorella mia, sposa” (4,9-10). “Giardino chiuso sei tu, sorella mia, sposa” (4,12).

Questi appellativi che figurano sempre nella stessa sequenza, lasciano intravedere il primato della fraternità sulla coniugalità. Dal punto di vista biblico, infatti, queste due tonalità della relazione uomo-donna potrebbero non trovarsi insieme, vale a dire: potrebbe esisterne solo una delle due. Nel caso in cui esista la fraternità ma non la coniugalità, si avrebbe un uomo e una donna che sono fratelli nel Signore, ma non sono una coppia; nel caso, invece, in cui esista la coniugalità ma non la fraternità, si avrebbe un uomo e una donna che sono marito e moglie, ma non fratelli nel Signore. Questo è il caso del matrimonio laico, dove talvolta i due sono coniugi in senso psico-sessuale, ma incontrano grandi difficoltà a essere amici e confidenti l’uno dell’altra. Il matrimonio cristiano presuppone invece che la coniugalità abbia come base il fatto di essere fratello e sorella nel Signore. Questo messaggio ci giunge anche da Genesi 1, dove l’uomo e la donna sono creati simultaneamente e vengono all’esistenza insieme, come figli dello stesso Padre, e quindi come fratello e sorella, prima ancora che marito e moglie. Il sacramento del matrimonio ha quindi bisogno, per fiorire in tutte le sue potenzialità di salvezza, di poggiare sul cammino di fede di entrambi, per essere non solo coniugi, ma molto di più, due collaboratori di Dio nel disegno di salvezza, figli ed eredi del Signore.

I lineamenti della coppia originariaA questo punto è possibile tentare una sintesi di come la coppia vive, e di ciò che la coppia è, nella sua condizione di libertà dal peccato, secondo l’idea originaria di Dio, che li creò maschio e femmina. Possiamo riprendere i versetti chiave di Gen 1-2 e dedurne le piste per un quadro di insieme che sintetizzi i caratteri peculiari della coppia cristiana: Gen 1,27:
“a immagine di Dio li creò maschio e femmina li creò"
I due nascono simultaneamente da Dio come da un unico Padre. Sono perciò fratello e sorella, prima ancora di essere marito e moglie. Anzi, la loro coniugalità è armonica e sana solo perché si fonda sulla coscienza della fraternità. I due rappresentano insieme l’immagine di Dio sulla terra. L’immagine di Dio va ricercata nella piena comunione delle persone. L’unità che la coppia sperimenta nell’amore corrisponde al segno divino dell’immagine terrestre della Trinità. Gen 2,18:
“Poi il Signore Dio disse: Non è bene che l’uomo sia solo, voglio fargli un aiuto che gli sia simile”
L’amore che rende la coppia un’immagine terrestre del Dio Trino, può esistere solo sulla base della similitudine del cuore e della coscienza. In una coppia, nella quale ciascuno dei due segue valori differenti e crede in cose diverse, tende a prevalere l’incomunicabilità e la superficialità del dialogo. A quel punto, l’immagine di Dio si deforma e resta solo l’immagine dell’amore umano. Gen 2,21.23: “Allora il Signore Dio fece cadere un sonno profondo sull’uomo che si addormentò, poi gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto… Allora l’uomo disse: Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne!”. Ciascuno dei due si sente così intimo all’altro da percepirsi come una parte del suo corpo. La donna è tratta dal corpo dell’uomo e non da una materia indipendente da lui. Essa è un prolungamento del corpo di lui, un prolungamento dove l’umanità svela una sua diversa tonalità mediante la femminilità e la maternità. In sostanza, l’umanità in senso completo si realizza nell’integrazione delle due tonalità dell’essere umano: la mascolinità e la femminilità.

Gen 2,22: “Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolto all’uomo, una donna e la condusse all’uomo”.

La coppia nasce perché Dio stesso spinge l’uomo e la donna l’uno verso l’altro; non è l’uomo che si appropria del partner, come se l’amore fosse un affare privato, da risolvere per contro proprio. Se però l’amore è un affare privato, non si capisce perché Dio deve essere chiamato in causa al momento della celebrazione delle nozze. Al contrario, secondo il testo di Genesi, nell’incontro tra l’uomo e la donna, Dio ha un ruolo cardine fin dall’inizio, dal momento che, nell’ambito dell’amore, non potrebbe restarne fuori proprio Colui che ne è l’autore assoluto ed esclusivo. Se Dio è amore, come dice la prima lettera di Giovanni (cfr. 4,8), vivere l’amore senza di Lui è lo stesso che cercare l’amore rifiutando l’Amore. Qualunque persona sana di mente, capirebbe che questa è una pretesa assurda. Gen 2,25: “Ambedue erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne sentivano vergogna”.

La prima coppia, nello stato di innocenza, vive una sessualità che non scade mai nella strumentalizzazione. Ciò avverrà dopo il peccato originale, quando tutti gli equilibri posti da Dio nella natura sono andati perduti. Il corpo dell’altro, più che oggetto di fruizione e di possesso, è oggetto di nobile compiacimento. La bellezza della persona, infatti, si rende visibile nella corporeità. La loro nudità non è causa di turbamento, perché i loro corpi sono partecipi pienamente della dignità delle loro persone. La separazione tra il corpo e la persona sarà un’altra delle conseguenze del peccato. Inoltre, la loro serena nudità vuole alludere a un dialogo schietto e senza veli, dove nessuno dei due è lasciato fuori dall’intimità e dalla confidenza dell’altro. Nessuno dei due stabilisce in se stesso delle zone di ombra, inaccessibili al partner, o delle stanze interiori dove l’altro non possa entrare. Il terzo nucleo può adesso darci il quadro in negativo dei guasti e delle disarmonie conseguenti al peccato originale.
Terzo nucleo:

le conseguenze del peccato Il peccato originale ha prodotto nella vita di coppia dei guasti che hanno deformato l’immagine divina. Cerchiamo di prenderne coscienza. Primo guasto: l’incapacità di presentarsi serenamente davanti a Dio, o come singoli o come coppia:

“Poi udirono il Signore che passeggiava nel giardino e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore”(Gen 3,8).

Talvolta la coppia sente perfino il bisogno di lasciare fuori Dio dalla sua vita, per non avere fastidi, obblighi, confini alle proprie scelte. Questo guasto produce nella coppia l’impossibilità di pregare insieme, condividendo esperienze e riflessioni sulla vita cristiana e sulla Parola di Dio. In certi casi, nessuno dei due prega. In altri casi, taluni riescono a pregare da soli, ponendosi davanti a Dio come singoli, ma trovano estremamente difficile pregare col proprio marito o con la propria moglie. Accade, allora, che Dio può farsi spazio nella vita di uno dei due, ma – se la coppia non prega - non può inserirsi nella vita di entrambi. La coppia, perciò, non si innalza dal semplice livello dell’amore umano.
Secondo guasto: l’incapacità di dialogo, che il testo biblico descrive con diversi fenomeni. Si ha intanto il fenomeno dell’accusa. L’altro viene posto sul banco degli imputati:
“La donna … mi ha dato dell’albero” (Gen 3,12).

L’atteggiamento di rimprovero, l’attribuzione all’altro di precise responsabilità che gli si fanno pesare, crea un clima che uccide il dialogo, perché spegne la fiducia reciproca, e con la fiducia si perde anche la serenità del confronto. A ciò si aggiunge la fuga dalle proprie responsabilità:
“Il serpente mi ha ingannata” (Gen 3,13);

questa cosa rende impossibile l’esperienza del perdono e della riconciliazione di coppia. Se è grave colpevolizzare l’altro, non è meno grave la tendenza a minimizzare i propri errori. Questi due atteggiamenti impediscono l’esperienza evangelica del perdono e della riconciliazione. Terzo guasto: la paura di mostrare all’altro la propria intima verità:
“Intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Gen 3,7).

Questo atteggiamento, spesso dettato dalla paura delle reazioni dell’altro, blocca la disposizione a divenire confidente l’uno dell’altro, chiudendo alla coppia la strada verso la costruzione di una “fraternità” coniugale, di cui abbiamo già parlato. Si finisce così per nascondersi reciprocamente, tacendo all’altro la propria interiorità, fino ad annullare quella confidenza che si realizzerebbe nel dialogo sereno. Il rischio è, a questo punto, quello di costruire un rapporto superficiale. Quarto guasto: la nascita dei rapporti di forza che stabiliscono, nell’esperienza di coppia, un clima di dipendenza che uno dei due è costretto ad accettare, per evitare mali maggiori:
“Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gen 3,16).

Una coppia ha già fallito nella sua esperienza d’amore, nel momento in cui le decisioni più importanti non sono frutto di una riflessione comune, ma di una imposizione da parte di uno dei due. A questo livello si colloca anche una sessualità che strumentalizza l’altro. Anche nella legittimità del matrimonio può avvenire che l’altro sia ridotto e abbassato alla dimensione dell’uso, e perciò, nella sessualità, può accadere che il partner non sia incontrato o cercato come persona, bensì solo come corpo. Il v. 16 fa intendere che tra i due è quasi sempre la donna a soffrirne di più. Gesù riprenderà questo argomento a proposito dell’adulterio commesso nel cuore, quando cioè si guarda una persona per desiderarla solo fisicamente, e non per amarla integralmente nella sua verità personale (cfr. Mt 5,27-28).
Quarto nucleo:l’insegnamento del Nuovo TestamentoPer spiegare l’essenza del matrimonio, Gesù non si richiama alla legge di Mosè, ma “al principio” della creazione (cfr. Mt 19,4). Per questo anche noi abbiamo preso le mosse da Genesi. Un secondo elemento qualificante del matrimonio, dal punto di vista di Gesù, è il riferimento al “cuore”. Nel medesimo testo matteano, Gesù risponde a una domanda insidiosa dei farisei, che gli rimproverano velatamente la sua poca stima della legge mosaica (v. 7). Per Gesù, però, viene prima l’intenzione di Dio. E’ quella che va indagata prima di ogni legge umana, o legge divina promulgata dall’uomo, come nel caso del Decalogo. Mosé ha permesso il divorzio, ma l’intenzione di Dio non era questa. Il fallimento dell’amore umano non è dovuto a incompatibilità di vario genere, ma ha la sua radice in un cuore non risanato dalla grazia (cfr. v. 8). Un cuore non risanato, cioè malato di durezza, non è un cuore veramente umano e perciò non può vivere un amore di coppia sul modello dell’amore di Dio, perché sa donarsi solo fino a un certo punto. Solo finché c’è un ritorno, solo finché non c’è da fare troppi sacrifici. Qui Gesù, citando la Genesi, indica ai farisei una proprietà fondamentale del matrimonio pensato da Dio: l’indissolubilità. Questo elemento è assente nella legge di Mosè, ma è presente nella intenzione di Dio rivelata in Gen 2,24:
“i due saranno una carne sola”. Gesù può allora concludere: “dunque non sono più due ma uno... quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (v. 6).

Come a CanaI Vangeli fanno intendere che la nascita umana di Dio, ossia l’Incarnazione, va interpretata come un matrimonio: il Signore ha sposato l’umanità. E’ significativo che Gesù stesso si presenti come uno Sposo nella parabola di Mt 22,1ss:
“Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio...”.

Questo matrimonio del Figlio ha qualcosa a che vedere col matrimonio della coppia cristiana. Certo, nel senso che l’amore di Lui è il modello dell’amore dei due, ma soprattutto nel senso che i due hanno bisogno di ricevere l’amore di Lui per potersi amare come coppia cristiana. Questa verità è chiaramente espressa, sebbene in figura, nell’episodio delle nozze di Cana (Gv 2,1ss). Dopo che Gesù ha cambiato l’acqua in vino, il maestro di tavola chiama lo sposo per complimentarsi con lui. Ha intuito giusto, ma ha sbagliato persona. Lo Sposo a cui fare i complimenti per la qualità ottima del vino era un altro. Il vero Sposo. Lo Sposo che rende possibile l’amore vero nella coppia. Infatti, per l’AT, il vino è simbolo della gioia dell’intimità sponsale che somiglia all’ubriacatura del vino (cfr. Ct 4,10; 7,10); la coppia cristiana si sposa, ma l’Amore glielo procura lo Sposo. In questa prospettiva, Cristo intende essere il terzo tra i due, per mettere i due in grado di amarsi come ama Lui. Ossia: per sollevare l’amore umano alla dignità di sacramento. Il dettato di EfesiniIl modello dell’amore di Cristo e della Chiesa, che deve essere calato nell’amore umano, viene portato alla luce dall’Apostolo Paolo nella lettera agli Efesini, cap. 5:

“Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (v. 21)
“Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore” (v. 22)
“E voi, mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei per renderla santa” (v. 25)

Innanzitutto, non deve essere fraintesa l’esortazione rivolta alle mogli di stare “sottomesse” ai propri mariti: il v. 21 non lascia dubbi sul fatto che si tratta di una sottomissione reciproca accettata per riguardo a Cristo e non per riguardo all’uomo. Ne deriva che questa “sottomissione” non ha nulla a che vedere con le diverse forme di sottomissione che nascono dai rapporti di forza. Al contrario, si tratta di una sottomissione non alla persona del marito o della moglie, ma a Cristo, che garantisce l’unità della coppia chiedendo l’ubbidienza a Sé. Inoltre, se l’amore di coppia è come quello di Cristo verso la Chiesa, ne deriva in esso l’accoglienza della logica della croce: come Cristo ha santificato la Chiesa offrendo Se Stesso, così ciascuno dei due coniugi sostiene il cammino dell’altro mediante l’offerta di se stesso nel logorio della vita quotidiana. Ciascuno dei due è allora eucaristia per l’altro, è pane spezzato per la vita dell’altro. La logica della croce, come potenza di guarigione, subentra soprattutto in occasione delle grandi crisi della vita di coppia: incomprensioni laceranti, infedeltà, gravi sbagli di uno dei due, rovesci di fortuna, infelicità familiari. Il coniuge cristiano sa offrire il proprio dolore per la guarigione del proprio partner, in qualsiasi modo colpevole. Se la logica del mistero della croce è operante nelle grandi crisi della vita di coppia, crisi che possono essere superate attingendo al modello di Cristo che
“ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa” (v. 25),

tale mistero non è meno operante nelle piccole incomprensioni della vita quotidiana. Il coniuge che sa accettare, per amore di Cristo, quei fastidi emozionali e quei piccoli inconvenienti che il cattivo carattere (o l’immaturità spirituale) del partner gli procura, fino alla capacità di perdono delle massime offese, entra nel mistero della croce e offre a Dio una valida eucaristia per la guarigione del proprio partner. Se invece reagisce secondo l’impulso incontrollabile del momento, sciupa tutto. Un esempio concreto dell’accoglienza del mistero della croce nella vita di coppia è rappresentato da Maria e Giuseppe, che sperimentano, durante il loro fidanzamento, un momento di crisi per via dell’incomprensibile gravidanza di Maria, sebbene innocenti entrambi, e lo affrontano nella mansuetudine e nella misericordia.
La coppia nuova:Maria e GiuseppeAll’alba del NT, la coppia rappresentata da Giuseppe e dalla Vergine Madre di Cristo, ha inserito nella sua vita degli elementi di novità che meritano una certa attenzione. L’evangelista Matteo, nel raccontare gli eventi anteriori alla nascita di Cristo, si mette dal punto di vista di Giuseppe. Di lui ci fa conoscere perfino i pensieri che lo hanno assalito quando cominciò a manifestarsi la gravidanza di Maria:
“Giuseppe suo sposo, che era un giusto, decise di licenziarla in segreto” (Mt 1,19).

Queste poche parole dicono molto. Maria non ha svelato nulla a Giuseppe del suo dialogo con l’angelo e della sua elezione a essere Madre di Cristo. Non gli ha svelato nulla neppure quando al buon senso umano sarebbe sembrata opportuna una chiarificazione, ossia quando la mente di Giuseppe viene tempestata dal dubbio di essere stato tradito dalla sua promessa sposa. Il buon senso e la logica umana avrebbero suggerito: “Adesso basta con questo silenzio! Parla e chiarisci tutto a colui che fra non molto sarà tuo marito!”. Qualunque persona umanamente buona avrebbe pensato così. Eppure Maria agisce diversamente, perché la sua bontà è innalzata al di sopra del livello umano, nel quale sembra che tutto debba risolversi con le parole. Nel livello soprannaturale, in cui si muove la Vergine Maria, la parola umana è resa relativa dalla Parola di Dio: Maria rimane in silenzio per lasciare a Dio tutto lo spazio libero di intervenire. Lo Spirito di Dio che l’ha riempita le ha fatto capire che ci sono delle situazioni di estrema delicatezza e difficoltà, in cui solo l’intervento di Dio può essere risolutivo davvero. Del resto, era Dio ad averla posta in quelle difficili circostanze, e doveva essere Lui a tirarla fuori.

La grande statura di Maria si vede non solo nel fatto di aver capito che quella sua situazione così strana - ossia il dubbio di Giuseppe che non riesce a capacitarsi di questa gravidanza, e al tempo stesso il senso di umiliazione di Lei - non poteva risolversi con le parole umane; non è solo qui che emerge la statura di Maria. La sua forza morale e la sua fede duramente provata, vengono alla luce nel suo silenzio e nella sua attesa dell’intervento di Dio, che non si verificò in tempi brevi. Il ritardo di Dio, nel risolvere la situazione gravemente incresciosa della sua serva, deve essere stato notevole. Giuseppe deve avere riflettuto e pregato a lungo, prima di trovare la soluzione riportata dall’evangelista Matteo in 1,19, cioè di ripudiarla in segreto. In sostanza, Dio ha lasciato Giuseppe col suo tormento e Maria con la sua attesa umiliante per un tempo sufficiente a far emergere la statura di entrambi: Giuseppe, con la sua giustizia senza rigorismi e col suo tentativo di applicare la legge di Mosè senza schiacciare la persona di Maria; e Maria con la sua fede incrollabile e con la sua capacità di restare in silenzio e pagare di persona la sua accoglienza di un progetto di Dio che Lei stessa non sapeva ancora dove l’avrebbe condotto.

La storia successiva ha dimostrato che l’ha condotta sul Golgota insieme al Figlio. In questa prova notevole attraversata dalla coppia, a cui Dio affidava la custodia del suo Messia, si vede come nessuno dei due ritiene di poter gestire le problematiche della loro vita familiare a sistema chiuso, cioè in modo indipendente e senza consultare il Signore. Contemporaneamente, nessuno dei due colpevolizza l’altro, ma si dispone a risolvere ogni pendenza nel Signore: Giuseppe cerca la soluzione nella preghiera, salvando comunque la dignità di Maria, mentre Maria non colpevolizza Giuseppe per il fatto di non capire la sua maternità verginale. Entrambi, aperti al soffio dello Spirito, attendono da Dio la luce per imboccare la strada migliore.
La malattia del cuore: separare la persona dal suo corpo

Che il sacramento del matrimonio, amministrato nella Chiesa, possa risanare la vita di coppia e condurla in qualche modo al recupero delle armonie volute da Dio in principio per l’uomo e per la donna, si vede chiaramente da Ef 5,28:
“chi ama la propria moglie, ama se stesso”.

In forza del sacramento, la moglie diviene una parte del corpo del marito e vice versa. Ma non è proprio questa la condizione di base che garantisce alla prima coppia un amore intatto? L’esclamazione di Adamo va proprio in questa direzione:
“essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa” (Gen 2,23).

Riconoscere il proprio partner come una parte di sé è come risentire nel proprio cuore lo stupore di Adamo, il compiacimento nobile del corpo e del sesso. In questa appartenenza reciproca e personale si inquadra un altro elemento della creazione originaria che deve essere recuperato dalla coppia unita nel sacramento: il rispetto del corpo dell’altro, poiché il corpo partecipa della dignità della persona. Tutto il Cantico dei Cantici è improntato a questa prospettiva del corpo che è partecipe della dignità della persona. Nella visione cristiana non è possibile separare la persona dal suo corpo, e trattare il corpo come se fosse un’altra cosa rispetto alla persona. Cristo ne parla esplicitamente in Matteo 5, nel suo discorso programmatico sul discepolato, a proposito dell’adulterio commesso nel cuore.

La seconda opposizione del discorso della montagna riguarda il comandamento “non commettere adulterio”. A livello letterale il comandamento proibisce il rapporto sessuale con una donna che non è la propria moglie, ma è tutta qui l’intenzione di Dio? Il Maestro spiega che Dio non intendeva solo questo. Infatti è possibile essere adulteri già guardando una donna in un certo modo. I farisei pensavano che l’adulterio si possa commettere solo con il corpo, unendosi fisicamente a una donna che non è la propria moglie, Cristo svela che, dal punto di vista di Dio, esiste anche un adulterio commesso “nel cuore”. Sarà opportuno fermarci un po’ su questa interpretazione dell’adulterio, come atto commesso “nel cuore”, perché l’insegnamento di Cristo, su questo punto, implica anche una nuova visione del rapporto dell’uomo con la propria moglie.
Rileggiamo l’enunciato:

“Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma Io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (vv. 27-28).

Ci troviamo di fronte a un riferimento al cuore che si può accostare a quello della risposta ai farisei in Mt 19,8. Il fallimento dell’amore umano è causato da qualcosa che non funziona nelle profondità del cuore. Da questa malattia del cuore nascono sia l’adulterio che il divorzio, fenomeni non previsti nella creazione uscita dalle mani di Dio “all’inizio” (Mt 19,8-9). Il Creatore aveva pensato all’inizio l’amore umano come una unità di due esseri “simili” (cfr. Gen 2,18); questo significa che per formare una coppia, che possa realizzare davvero l’amore pensato da Dio, non basta che l’uomo e la donna si piacciano reciprocamente, nel corpo e nel carattere, ma è soprattutto necessario che abbiano lo stesso cuore.

Dal racconto di Genesi, come già dicevamo, si può desumere che l’amore umano può realizzarsi davvero solo quando l’uomo e la donna, oltre a piacersi reciprocamente sul piano umano, abbiano anche lo stesso cuore, cioè abbiano impostato la vita sulle stesse basi e sugli stessi valori. Al tempo del fidanzamento questa realtà non si comprende, ma la comprendono le coppie mature, quando, dinanzi a certe scelte importanti della vita, si accorgono che gli orientamenti delle loro coscienze si diversificano. Questo era ciò che Dio non voleva ed è uno degli aspetti della “malattia del cuore” che impedisce all’uomo e alla donna un’esperienza d’amore veramente piena e felice. E’ questa mancanza di intesa profonda degli animi ciò che, col tempo, porta uno dei due, o tutti e due, a cercare un altro uomo o un’altra donna, capace di capire il proprio animo in profondità. Da qui possono nascere l’adulterio o il divorzio. La diversità delle coscienze è anche la causa dell’incomprensione e della incomunicabilità.

Un secondo guasto del cuore, che impedisce un’esperienza piena d’amore, all’interno della coppia, è rappresentato dalla tendenza a scindere il corpo dalla persona, con la conseguenza di una sessualità nella quale si incontra il corpo del proprio partner, ma non la sua persona. L’adulterio commesso “nel cuore” ha a che vedere con questa forma di malattia spirituale, il cui sintomo è la separazione della persona dal suo corpo. Cristo parla di un certo modo di guardare “una donna”, lasciando nel vago l’identità di lei. Con il termine “una donna”, Cristo si riferisce genericamente a ogni donna possibile che cade sotto lo sguardo di un uomo. Ne risulta che la donna, a cui si rivolge il desiderio dell’uomo che la guarda in quel modo, può essere senz’altro una sconosciuta. Il che sottolinea un desiderio che non può rivolgersi alla persona (che è appunto sconosciuta), ma, per forza di cose, si rivolge solo al suo corpo.

Il fatto di guardare la donna (o l’uomo) per desiderare solo il suo corpo implica perciò una riduzione dell’universo femminile da soggetto personale a oggetto di fruizione. Ecco che a questo punto la donna ha cessato di essere per l’uomo il secondo termine di un’alleanza personale, ossia: nel cuore dell’uomo il corpo della donna si è separato dalla sua persona, ed è diventato un oggetto indipendente. L’espressione generica “una donna” ha anche un altro risvolto. “Chiunque guarda una donna…”, è una frase che può avere come personaggi ogni uomo e ogni donna. Il che significa che la donna guardata in quel modo può essere una sconosciuta, ma può essere anche la propria moglie. Il Maestro, infatti, non specifica

“Chiunque guarda una donna che non è sua moglie…”, ma semplicemente “Chiunque guarda una donna…”.

All’uomo può dunque succedere di guardare con quello stesso sguardo, che riduce la donna da soggetto a oggetto, anche la propria moglie. Accade così che, pur nella legittimità del sacramento validamente celebrato, l’uomo e la donna possono allontanarsi notevolmente dalle intenzioni del Creatore, commettendo “adulterio” nel cuore. Relativamente al loro corpo, essi non sono adulteri, perché legittimati da una reciproca appartenenza; relativamente al loro cuore, invece, essi sono adulteri, perché, amandosi in modo diverso a quello previsto da Dio, hanno lasciato fuori dal loro amore e dalla loro sessualità il Cristo Sposo. Come abbiamo già precisato nel capitolo primo, la coppia – in quanto piccola chiesa - è la sposa di Cristo. Essa diventa necessariamente adultera, quando vive l’amore senza di Lui. Ecco perché, nel discepolato, la giustizia dei farisei, cioè l’osservanza puramente materiale dei comandamenti, non basta più; occorre, infatti, una profonda guarigione del cuore per osservare, al di là dei precetti, le vere esigenze delle intenzioni di Dio, ossia una giustizia superiore (cfr. Mt 5,20).
Il dettato di 1Corinzi - cap. 7
Una analisi dettagliata va condotta sulle parti della prima lettera ai Corinzi dedicate al matrimonio cristiano. Riguardo al matrimonio, Paolo è convinto che si tratti di una via verso la perfezione cristiana, accanto a quella della verginità per il Regno. Nel matrimonio c’è qualcosa di più che non un semplice accordo tra i due sposi; c’è uno specifico e particolare dono di grazia:
“ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (v. 7).

L’espressione “chi in un modo, chi in un altro” allude, come risulta chiaro dal contesto prossimo, alle due fondamentali vocazioni cristiane, il matrimonio e la verginità, entrambe frutto di un dono di grazia, per gli uni in un modo e per gli altri in un altro. In nessun modo, quindi, il matrimonio cristiano è assimilabile a un contratto sociale. Il superamento qualitativo, dovuto al dono di grazia contenuto nella vocazione matrimoniale, si realizza in determinati aspetti dello stile della coppia, che in tal modo si differenzia nettamente da chi vive una vita impostata unicamente sull’amore umano, senza avere inserito nulla di soprannaturale nel proprio matrimonio. Il discorso dell’Apostolo è però condizionato da una idea personale, che in fondo era largamente condivisa dai cristiani della prima generazione, secondo la quale Cristo sarebbe ritornato nella gloria entro pochi anni. Questo ritorno del Risorto, in capo a un breve lasso di tempo, relativizzava inesorabilmente tutte le iniziative di questo mondo, tranne quella dell’annuncio del vangelo. Ecco le parole precise dell’Apostolo:

“il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero… quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno, perché passa la scena di questo mondo” (1 Cor 7,29.30-32).

Quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero… perché passa la scena di questo mondo. In questa prospettiva deve essere compreso l’insegnamento paolino sul matrimonio, il quale non intende stabilire una scala di valori, in cui il matrimonio debba essere giudicato a confronto con la vita consacrata, come se quest’ultima fosse migliore. Paolo è lontano dall’atteggiamento di coloro che dinanzi alle vocazioni cristiane si chiedono quale sia la migliore. Sarebbe indegno dei doni di Dio, ragionare così, e si replicherebbe l’episodio degli Apostoli che discutevano tra loro su chi fosse il più grande in seno al gruppo dei Dodici (cfr. Mc 9,33-37). Le parole dell’Apostolo Paolo vanno intese certamente in altro senso: se egli preferisce la condizione verginale, ciò è solo perché è convinto che “il tempo si è fatto breve” e Cristo tornerà tra pochi anni; non è il caso quindi di mettere su famiglia. Conviene piuttosto dedicarsi all’evangelizzazione a tempo pieno, per preparare le coscienze all’incontro col Cristo che torna nella gloria. La storia della Chiesa ha dimostrato che la prima generazione si era sbagliata su questo punto, e Paolo di Tarso con essa. Per questa ragione egli dice:
“Vorrei che tutti fossero come me” (v. 7).

Non perché la verginità sia in grado di offrire una santità qualitativamente più alta, ma perché tra pochi anni Cristo tornerà e avremo cieli nuovi e terra nuova. Quanto al valore soprannaturale delle due vocazioni, cioè matrimonio e verginità, esso dipende da un dono di grazia: “ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (v. 7), e ciò significa che la santità non solo è possibile ma è anche comandata in entrambi gli stati di vita. In riferimento a coloro che, nonostante l’imminenza della venuta di Cristo, decidono di sposarsi, Paolo dice che fanno bene. Aggiunge, però, che avranno “tribolazioni nella carne” (v. 28).

Queste “tribolazioni nella carne” non riguardano i dolori del parto, perché in tal caso l’avvertimento riguarderebbe solo la donna, mentre egli parla anche all’uomo; e poi sarebbe un avvertimento superfluo, perché lo sanno tutti che i figli nascono così. L’esortazione ci sembra vada intesa in altra linea: in sostanza, Paolo vuole dire ai fidanzati che non devono pensare che la vita di coppia sia sempre un idillio; essi devono sapere che vi è un peso quotidiano da portare e che talvolta la convivenza coniugale può diventare difficile e appesantita da molte prove. Le “tribolazioni nella carne” non sono altro che i pesi e le preoccupazioni della vita quotidiana, che non devono rappresentare, dopo il matrimonio, una delusione per i fidanzati ingenui. All’inizio di questo capitolo 7 della prima ai Corinzi, ritroviamo il tema della preghiera nella vita di coppia, accanto a una certa disciplina ascetica:

“Non astenetevi tra voi se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera” (v. 5).

La preghiera è messa in relazione dall’Apostolo con la vita sessuale della coppia cristiana; la preghiera della coppia conferisce infatti alla sessualità un carattere veramente umano e cristiano, e al tempo stesso consacra l’atto sessuale come un’espressione dell’amore vissuto nel sacramento. Questa prospettiva non può fare a meno di un certo esercizio del dominio di sé, che può prevedere una temporanea astensione dai rapporti coniugali, purché di comune accordo, infatti

“la moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo ma lo è la moglie” (v. 4).

La teologia che sta dietro questo consiglio di Paolo è che la sessualità va vissuta nella luce di Dio: la sessualità non è tanto migliore quanto Dio ne resta fuori, e neppure deve fare da padrona nella vita della coppia cristiana, ma al contrario è la coppia che deve padroneggiare e gestire con intelligenza la propria sessualità. In termini moderni, è quello che il Magistero della Chiesa definisce con l’espressione “paternità e maternità responsabile”, il cui significato che chiariremo più avanti, in appendice. Quali sono le ragioni dell’astensione dal rapporto sessuale, a cui l’Apostolo si riferisce? Egli lo collega innanzitutto alla preghiera:

“Non astenetevi tra voi se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera” (v. 5).

La preghiera e la sessualità sono due elementi in reciproca relazione nella vita di coppia. Si tratta però di una prospettiva diversa e complementare a quella suggerita dal libro di Tobia: l’Apostolo considera una sessualità a cui si rinuncia momentaneamente, come un sacrificio offerto a Dio, mentre Tobia descrive una sessualità vissuta nella preghiera. Entrambe le cose vanno integrate nel discepolato della coppia. Da un lato, la sessualità va ricondotta nella luce di Dio, e ciò avviene solo nella preghiera; dall’altro, la sessualità è, per la coppia, materia del suo culto spirituale, così come lo è per chi è chiamato da Dio alla verginità. Il culto spirituale si realizza infatti nell’offerta a Dio di se stessi (cfr. Rm 12,1).

Analogamente al mistero della croce, dove Cristo ripara il peccato del mondo, offrendo al Padre la propria innocenza, così, tanto gli sposati che i vergini, offrono a Dio il loro corpo e sacrificano la loro sessualità innocente per riparare all’impurità del mondo. I vergini compiono il loro culto spirituale di riparazione, offrendo a Dio la loro sessualità in senso totale, gli sposati, invece, compiono il loro culto di riparazione sia offrendo a Dio una sessualità vissuta in Lui, sia astenendosi dalla sessualità per dei tempi dalla durata limitata (che potrebbero coincidere coi tempi penitenziali dell’anno liturgico).
Comprendiamo adesso molto meglio l’enunciato paolino:

“Non astenetevi tra voi se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera” (v. 5).

L’espressione finale: “per dedicarvi alla preghiera”, non vuole dire che per pregare sia necessario astenersi dalla sessualità (il libro di Tobia non ci permette questa interpretazione), ma vuole piuttosto dire che, in determinati periodi, la coppia si astiene dalla sessualità, non per una ascesi fine a se stessa, ma per offrire a Dio un culto spirituale di riparazione. Si potrebbe infine aggiungere – uscendo dalla prospettiva paolina, che ignorava i metodi naturali - che, nel quadro della paternità e maternità responsabile, la sessualità della coppia cristiana esige un continuo esercizio di autocontrollo, per rispettare i ritmi della fertilità femminile, e questo è certamente un aspetto particolare della castità matrimoniale. C’è poi una reciproca comunicazione della grazia, determinata dall’intima convivenza, tanto che il marito o la moglie non credente partecipano in qualche modo, nella misura della loro apertura a Dio, alla santità del coniuge credente (cfr. v. 14). Su questo punto, però, Paolo pone un interrogativo che si fonda sull’imprevedibilità delle scelte umane:
“Che sai tu, donna, se salverai il marito? O che ne sai tu, uomo, se salverai la moglie?” (v. 16).

Riguardo quindi al coniuge non credente, c’è la possibilità di una comunicazione della grazia della conversione, ma c’è sempre anche un margine di incertezza, determinato dall’esercizio del libero arbitrio. Una persona, pur amando il proprio marito o la propria moglie, non per questo accetterà necessariamente il cristianesimo. Non si diventa cristiani, finché non si vuole. E si può tuttavia continuare ad amare il proprio partner cristiano. La validità del sacramento del matrimonio dura fino alla morte di uno dei due coniugi:
“La moglie è vincolata per tutto il tempo che vive il marito” (v. 39).

Nella vita futura, infatti, non esiste la vita di coppia, come il Maestro spiega chiaramente ai sadducei (cfr. Mc 12,18-27). I coniugi sono tali solo in questa vita. Un’ultima questione va posta sul senso da attribuire a una particolare sezione del medesimo capitolo, una sezione, a nostro avviso, tutt’altro che chiara. La riportiamo per intero:

Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni (vv. 32-35).

Una lettura superficiale del testo, potrebbe indurci a concludere che il matrimonio divide il cuore dell’uomo, creando due amori in difficile equilibrio: Cristo da un lato e il proprio partner dall’altro. Così ci si trova a oscillare continuamente tra questi due termini, e per piacere al proprio marito (o moglie) si finisce per spiacere a Cristo, perdendo l’integrità del cuore indiviso. Questa interpretazione, però, non regge più al confronto con il messaggio globale e l’unità della Scrittura. Se il matrimonio dividesse il cuore dell’uomo, invece di potenziare il suo cammino di santità, non solo cesserebbe di essere un sacramento, ma bisognerebbe negare anche la sua divina istituzione. Sentiamo perciò il bisogno di analizzare meglio la questione. La domanda che noi ci poniamo è la seguente: a cosa si sta effettivamente riferendo l’Apostolo, al matrimonio come sacramento, oppure alla sua possibile degenerazione? Se il matrimonio dovesse produrre nell’uomo e nella donna un “cuore diviso”, potrebbe ancora il matrimonio essere considerato un sacramento?

Andiamo con ordine. L’AT ci mostra un Dio geloso, che non è disposto a dividere il cuore dell’uomo con altri amori. Il testo più fondamentale è quello del Decalogo:

“Non ti farai idolo… non ti prostrerai e non li servirai, perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso” (Es 20,4-5).
Questo tema ritorna nella letteratura profetica:

“Un Dio geloso è il Signore” (Na 1,2); “Sono ingelosito per Sion di gelosia grande” (Zc 1,14).

E’ naturale che la Scrittura con questa immagine della gelosia divina intende condannare i culti idolatrici, ma è altrettanto chiaro che nel medesimo tempo si condanna anche qualunque amore verso una creatura che possa soverchiare l’amore dovuto a Dio, dividendo così il cuore del credente. Se la conseguenza della vita di coppia dovesse essere la divisione del cuore dell’uomo, allora non sarebbe eccessivamente diversa dall’idolatria. Per questo poniamo la domanda: a queste condizioni potrebbe il sacramento esistere?

Non possiamo sfuggire a questo dilemma; delle due cose se ne può ammettere solo una: o il matrimonio è un sacramento, e come tale esige che il partner sia amato in Dio senza alcuna divisione del cuore, oppure sposarsi è lo stesso che entrare in conflitto con Dio, perché si tende a piacere al partner e ci si trova divisi. L’unica spiegazione plausibile a nostro modo di vedere è che ai vv. 32-35 l’Apostolo Paolo non parla affatto della realtà del matrimonio cristiano, ma della sua possibile degenerazione. Egli parla infatti del matrimonio come sacramento quando dice che “chi ama la propria moglie ama se stesso” (Ef 5,28).

Ma se uno che ama la propria moglie, ama se stesso, come può essere diviso? Se il sacramento del matrimonio implica un’esperienza di unità e di comunione interpersonale, allora la divisione del cuore è una grave malattia e non la condizione normale. Semmai Paolo sta mettendo in guardia le coppie cristiane a non cadere in questa forma degenerativa per la quale, amando il proprio partner più di Dio (ossia dividendo il cuore), si scivola nell’idolatria. Nessun uomo sano di mente penserebbe che il matrimonio come sacramento possa sussistere ancora in una tale interiore divisione. Né si può pensare che il fatto di piacere a Dio possa spiacere al proprio partner. E’ ovvio che se qualcuno ponesse al proprio partner una sorta di ultimatum come questo: “o me o Dio”, per ciò stesso tradirebbe gravemente l’essenza del matrimonio come sacramento, che presuppone un amore verso il proprio partner che non sia in antagonismo con l’amore che è dovuto a Dio.

In sostanza, il sacramento del matrimonio presuppone - e potremmo dire: abilita all’amore indiviso col suo dono di grazia - la capacità di un amore indiviso, così che i due amino Dio come un solo essere, altrimenti si dovrà parlare di amore umano e non di sacramento. Inoltre, abbiamo buone ragioni per ritenere che Paolo stesso non pensava al matrimonio come una condizione di divisione del cuore. Non solo sulla base di Ef 5,28, testo già citato, ma anche nella sequenza interna al discorso della prima ai Corinzi: la fine del capitolo sesto è infatti dedicata al tema della castità con riferimenti diretti alla vita di coppia. L’enunciato di base che motiva teologicamente la castità è che
“il corpo non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo” (6,13).

In modo particolare, nella vita di coppia “i due saranno,è detto, un solo corpo” (v. 16).

Questo corpo unico e indivisibile, che sono i coniugi cristiani, è chiamato a unirsi al Signore per formare con Lui un solo spirito (cfr. v. 17). In tal modo, i due sono la sposa e il Signore è lo Sposo. Nel momento in cui i due si uniscono a Lui, diventano un solo spirito con Lui, e quindi, per conseguenza logica, diventano anche un solo spirito l’uno rispetto all’altra. L’Apostolo, in sostanza, intende affermare che gli sposi cristiani non formano soltanto un solo corpo, come i coniugi di un matrimonio naturale, ma diventano perfino un solo spirito, realizzando in pieno, cioè, la similitudine interiore dell’origine (cfr. Gen 2,18), nel momento in cui sono capaci di unirsi al Signore come un solo essere, come la sposa di Cristo, che si unisce a Lui per formare un solo spirito. Dobbiamo allora concludere che, se il matrimonio può produrre nel cuore umano una qualche esperienza di divisione, ciò è dovuto al peccato dell’uomo e non alla natura della vita di coppia, meno che mai alla natura del sacramento nuziale.
APPENDICE: LA PATERNITÀ E LA MATERNITÀ RESPONSABILE

Nel documento Humane vitae di Paolo VI, pubblicato nel 1968, il Papa assume alcune prospettive teologiche che stanno alla base di tutti i pronunciamenti del magistero sulla famiglia; si potrebbe sintetizzare così: dal punto di vista teologico, l’amore coniugale non è un’invenzione umana, non è frutto di un contratto tra due persone che si mettono d’accordo, non è un affare privato; è invece un progetto che li trascende e che preesiste a loro. Quindi i coniugi devono scoprire questo progetto che preesiste, dal momento che non possono assumerlo come se ne fossero i padroni o gli inventori. C’è una legge radicata nella natura, nel senso che Dio, creando l’uomo così com’è, lo ha creato con una legge immanente sia a livello psichico che fisico. L’enciclica definisce gli sposi come collaboratori di Dio nella generazione e nella educazione di nuove vite e poi aggiunge che questa generazione e questa collaborazione nel generare una nuova vita deve avvenire nel contesto della paternità e della maternità responsabile. Che cosa sia questa paternità responsabile, Paolo VI lo descrive in tre punti:

In rapporto ai processi biologici: gli sposi devono conoscere e rispettare le leggi biologiche che presiedono alla generazione, perché ne sono i ministri; dal momento che la coppia esprime un servizio alla vita, e questo servizio alla vita parte dalle leggi biologiche che regolano il proprio corpo, la scarsa conoscenza di tali processi biologici che presiedono alla vita, diminuisce la possibilità di una paternità e maternità responsabile. Questa non conoscenza porterebbe la coppia a vivere la sua sessualità così come viene intuitivamente o istintivamente. In rapporto alle energie della propria sessualità: paternità e maternità responsabile significa il necessario dominio che la ragione e la volontà devono esercitare sull’istinto. Quindi anche l’esperienza sessuale della coppia va pensata come un linguaggio: la sessualità, dal punto di vista cristiano, è un linguaggio in cui si esprime l’amore. Come ogni linguaggio deve avere una sua grammatica, una sua razionalità. Il Papa a questo proposito intende dire: paternità e maternità responsabile significa aver capito che la sessualità con le sue forze istintive non può dettare leggi alla ragione ma è piuttosto la ragione che deve stabilire la grammatica di questa sessualità, perché sia un linguaggio comprensibile, una vera comunicazione dell’amore di coppia.

In rapporto alle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali della coppia, la paternità e maternità responsabile si esercita decidendo quale debba essere la realtà della propria famiglia e il numero dei propri figli e perfino, quando le motivazioni sono valide, evitare temporaneamente o a tempo indeterminato, una nuova nascita. In ordine alla trasmissione della vita, poi, la paternità e la maternità responsabile è inscindibile dalla conoscenza dei processi biologici, dal momento che Dio ha sapientemente disposto leggi e ritmi naturali di fecondità per la donna. In questo senso, la conoscenza dei processi biologici consente di vivere una sessualità veramente umana, perché illuminata da una capacità di riflessione e di progettazione. L’atto coniugale, per un cristiano, non può contraddire l’ordine della natura. Il papa Paolo V I infatti prende le mosse dal principio che enuncia nell’enciclica: esiste una legge naturale impressa nelle creature. L’amore umano non è un’invenzione umana e quindi esprime un ordine naturale che a sua volta riflette l’intenzione di Dio. Del resto è lo stesso presupposto che Cristo esprime ai farisei
“Non avete letto che da principio Dio li creò maschio e femmina?”.

Cristo si riferisce al principio anche per dire che l’atto creativo di Dio possiede dentro di sé una grammatica e che la natura ha un ordine immanente, una legge non scritta che non può essere contraddetta dai gesti e dall’intenzione umana. L’atto coniugale, secondo l’ordine naturale, possiede due significati fondamentali e sono: il significato unitivo ed il significato procreativo; il Magistero della Chiesa afferma che questi due significati non sono mai separabili e che devono essere sempre compresenti in ogni atto coniugale.

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