mercoledì 9 febbraio 2011

Lettera di chiarimento al nostro Caro Don Filippo

 
Carssimo Don Filippo.
È da un po’ di tempo che io e lei non parliamo più, non ci si vede, non si stà più insieme. È da ipocriti non ammettere che qualcosa, da entrambi le parti, sia accaduto.
In questi mesi di silenzio, personalmente, li ho deticati alla meditazione, soprattutto su quel che mi propose quella sera che venni da lei per un chiarimento: mi disse che dovevo cercare dentro di me la Verità che mi avrebbe reso libero.
Vorrei condividere con lei ciò che ho tratto da questo invito:

“La questione della necessità di realizzare un annuncio esplicito, forte e coraggioso è una di quelle cose che tanto a cuore avevamo preso in questi anni.
Abbiamo trovato ragioni di qualsiasi tipo per giustificare le differenti posizioni, come se la questione fosse solo di coraggio e di fedeltà e fosse possibile immaginare un conflitto insanabile tra la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo concreto con cui facciamo quotidianamente strada.
Certamente, non sono state questioni di poca importanza né, tanto meno, è corretto dividere le posizioni tra annunciatori coraggiosi e gente disimpegnata e rassegnata.
Ripensando il cammino percorso, è facile constatare quanto, nella nostra comunità parrocchiale e non, abbiamo guadagnato da queste tensioni. Siamo diventati più maturi e consapevoli. Ci siamo resi conto che l'annuncio del Vangelo deve sempre risuonare come “una bella notizia” per la vita concreta delle persone. Non può essere quindi immaginato come qualcosa che va riversato a tutti i costi sulla libertà e sulla responsabilità delle persone. Però il tempo perduto è stato pagato a caro prezzo: il nostro silenzio ha permesso a tante persone di suggerire progetti e ragioni di senso, che non nascevano dall'amore concreto e gratuito verso i nostri fratelli. E, in tutti i casi, la disperazione si è consolidata sul nostro silenzio. Anche il gioco, troppo facile, di nuovi aggettivi con cui riqualificare il tema dell'evangelizzazione, non è servito a restituire coraggio e fantasia ai discepoli di Gesù e, di conseguenza, non ha arrestato l'onda travolgente della crisi e della morte per mancanza di speranza.
Oggi dovremmo essere tutti consapevoli che non possiamo più continuare a dividerci su questa questione teorica. Siamo sollecitati a riaffermare l’urgenza di essere testimoni coraggiosi del nome di Gesù, per permettere a tutti di essere pieni di vita e di speranza.
Davvero, va considerato come dono prezioso l’invito a riscoprire l’urgenza di evangelizzare.
Possiamo guardare in avanti e progettare una responsabilità nuova solo realizzando un deciso cambio di prospettiva.
Alla radice delle tensioni sulla urgenza e sulla qualità della evangelizzazione c’era una tentazione di autoreferenzialità: lo dico senza mezzi termini, anche per una personale verifica.
In fondo, la nostra attenzione era eccessivamente concentrata su noi stessi: sulle responsabilità che dovevamo assolvere o sul presunto rispetto verso gli altri che dovevamo conquistare o conservare. Ci sentivamo depositari di un bella notizia e avvertivamo di andare in crisi se non riuscivamo a coinvolgere altri nella stessa esperienza. Lo facevamo “opportunamente e inopportunamente” (come ci raccomanda Paolo) per far esplodere quello che ci portavamo dentro, in una intensa passione missionaria, o per sentirci ripagati nell’adempimento della nostra missione. Anche il silenzio o la rassegnazione nell’annuncio trovava una sua sufficiente giustificazione nel dovere di rispettare il cammino di tutti o nel non voler diventare responsabili dei rifiuti di una proposta alta e impegnativa.
Il cammino percorso, l’entusiasmo e la buona volontà con cui l’abbiamo vissuto, i risultati scarsi che quotidianamente constatiamo… mi sollecitano ad immaginare un deciso cambio di prospettiva. In che direzione?
Ecco la proposta, tutta da verificare e approfondire: affrontare la questione della evangelizzazione passando dall’autoreferenzialità ad un amore che si fa servizio verso gli altri e che sollecita a trovare gesti e parole nuove proprio per dare concretezza e visibilità a questo amore.
Era la preoccupazione che stava alla radice delle discussioni sul come e quando evangelizzare. Può diventare oggi la ragione del ritrovato coraggio di annunciare il nome di Gesù. 
L’annuncio del Vangelo è un gesto di amore, totalmente gratuito e radicalmente decentrato verso gli altri. Non può mai diventare un processo di proselitismo e nemmeno qualcosa che assomigli al bisogno di esternare i pregi della squadra per cui faccio tifo.
Mi piace pensare all’apertura della Prima Lettera di Giovanni, tante volte citata: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” .
Voler bene ad una persona significa volere profondamente il suo bene, permettere ad una persona di scoprire che la profonda attesa di speranza e di senso che percorre la sua esistenza, ha bisogno di trovare risposte. Non posso continuare a spostare il tempo dell'incontro con queste risposte e non posso, per nessuna ragione, mandare deluse queste attese. Per questo, proprio a partire dall'amore che ognuno di noi porta ai fratelli che ha la gioia di incontrare, scopriamo che non possiamo rassegnarci a non parlare di Gesù. Il silenzio, in questo caso, diventerebbe una scelta che tradisce l'amore.
L'amore chiede di aiutare ogni persona a diventare sempre di più signore della propria vita. Ma siamo signori della nostra vita, solo quando riusciamo a sperimentarne il suo senso anche nel momento in cui eventi tragici sembrano consegnarci al nonsenso. Siamo signori della nostra vita se siamo capaci di collocarla dentro un progetto più grande che riguarda anche il futuro della nostra esistenza: riusciamo a ritrovare una ragione gioiosa anche di fronte al dolore e alla morte, scopriamo che siamo pienamente noi stessi solo quando riusciamo a morire, come il chicco di grano, perché tutti abbiano la gioia di raccogliere il pane cresciuto nel terreno del mio piccolo servizio.
Per questo l'annuncio di Gesù è sempre e comunque un gesto di amore concreto nei confronti delle persone che ho la fortuna di incontrare.
Parlo di Gesù non solo perché lo considero un amico importante di cui sento la gioia di regalare a tutti la stessa amicizia... parlo di Gesù e vorrei che tutti lo potessero incontrare nel cuore della loro esistenza, perché solo in lui possiamo scoprire che, nonostante tutto, siamo e restiamo signori della nostra vita. Davvero il nome di Gesù è il regalo più grande che posso fare a tutti, per restituire a tutti la gioia di vivere e la libertà di sperare.
L'annuncio di Gesù diventa così il più grande gesto d'amore che posso fare a coloro che incontro sul mio cammino. Non mi rassegno se ad essi il suo nome non interessa. Non mi rassegno se davanti all'annuncio essi restano indifferenti, preoccupati di molte altre cose. Sto ad essi vicino, l'inquieto e li interpello, perché solo quando essi hanno incontrato Gesù, possono veramente restare in quella gioia e in quella speranza che vanno cercando, purtroppo tante volte come l'assetato che cerca un sorso d'acqua tra le pietre e il fango dei pozzi aridi.
Proprio la qualità costitutiva dell’annuncio cristiano – un servizio di amore per la vita e la speranza – ridisegna quella tensione che ha attraversato in questi anni la comunità parrocchiale: annuncio o silenzio?
Il confine tra annuncio e silenzio, secondo un mio modesto parere, non è il coraggio o la paura, non è il dovere o il rispetto della libertà, non è l’intruzione forzata o la condivisione amicale. L’amore pone altri confini.
Chi esamina la questione dal punto di vista del servizio di amore che intende fare, infatti, è continuamente diviso tra la necessità di dire qualcosa, di dirlo con coraggio e con fermezza, e la contemporanea necessità di tacere qualcosa.
Ho davanti al mio sguardo un esempio concreto. Una mamma si trova quotidianamente divisa tra l’urgenza di alzare la voce con il figlio che ama o di preferire il silenzio. In teoria è facile dire quale delle due scelte è la migliore. Dopo il gesto, dopo la parola forte o dopo il silenzio, è abbastanza facile concludere che la prima scelta sarebbe stata migliore della seconda, o viceversa. La difficoltà invece affiora prepotente nel momento in cui siamo chiamati a scegliere. Lo stesso amore può spingere ad una parola di rimprovero o a un silenzio che diventa espressione di una accoglienza sulla cui forza trasformatrice l'amore è disposto a scommettere.
Anche l'annuncio esplicito e diretto di Gesù viene quotidianamente giocato dentro questa alternativa. Quando voglio bene ad una persona posso inondarla della mia esperienza, parlandogli con entusiasmo delle mie scelte di vita. Ma posso anche rispettare il livello di maturazione che questa persona ha raggiunto, il bisogno che essa ha di costruirsi dentro quella attesa profonda che la costringa ad alzare le mani, invocando una parola che venga dal mistero dell'esistenza. Non posso sapere in anticipo quale delle due scelte manifesta più intensamente l'amore concreto che porto a questa persona.
Sono convinto che l'evangelizzatore vive quotidianamente questa esperienza. In teoria riconosce tutto quello che molte raccomandazioni ci consegnano. Condivide le urgenze che in queste raccomandazioni sono contenute. Ma è costretto, dal concreto delle scelte, a scegliere tra la parola e il silenzio, tra l'annuncio esplicito e una vicinanza quotidiana di vita che faccia sorgere quelle domande a cui l'annuncio diventa preziosa e gradita risposta.
Per sottolineare come l’annuncio, esplicito e coraggioso, di Gesù sia un gesto doveroso di amore, ho citato la Prima Lettera di Giovanni.
In questo documento della nostra fede viene ricordata la condizione che consegna autorevolezza all’annunciatore: “quello che ho sperimentato, questo ti racconto”. L’esperienza diretta del Signore Gesù assicura l’autorevolezza irrinunciabile per la credibilità dell’annuncio.
Chi deve insegnare qualsiasi disciplina, trova l’autorità e la credibilità nella competenza acquisita. Può sempre dire: ho studiato, sono informato, dunque parlo. Questo non vale – in modo assoluto – per l’annuncio di Gesù. E’ fuori discussione quel minimo di competenza che autorizzi a parlare di determinati argomenti. Ma questo non dà l’autorevolezza indispensabile. Non basta neppure il mandato ufficiale o altro titolo giuridico. L’unico grande titolo di autorevolezza è l’esperienza personale: il poter dire, con Giovanni, quello che ho toccato, visto, compartecipato… di questo ti parlo.
Ho paura – pensando a me e guardandomi d’attorno – che il silenzio di questi anni o il corrispettivo parlare a vanvera, sia dovuto ad un eccesso di scienza, di studio, di apprendimento che copriva una terribile crisi di esperienza.
Mi piace dirlo forte: il coraggio dell’annuncio – che ci stiamo riconsegnando - diventa un fondamentale invito ad una autentica conversione personale verso un incontro con Gesù, nella decisione, rischiosa e fedele, di affidare a lui tutta la nostra vita.
Solo chi ha incontrato pienamente Gesù il Signore riesce a parlare di lui, con convincente autorevolezza.
L’affermazione non è uno slogan teorico. L’abbiamo sperimentato tutti: quando cercavamo di parlare di lui e quando ascoltavamo amici che parlavano di lui (Vedi Scuola di Evangelizzazione).
La questione si riapre subito: dove incontrare Gesù?
La domanda è seria: l’interlocutore dell’incontro “abita” nelle trame impenetrabili del mistero di Dio. E siamo diventati sospettosi nei confronti di chi tenta di suggerirci recapiti sicuri e indirizzi verificabili.
Conosciamo e condividiamo i luoghi dell’incontro. L’elenco è facile e in questi anni siamo diventati esperti: la vita quotidiana, compresa nel mistero che si porta dentro, la comunità dei discepoli di Gesù, la Parola di Dio che la Chiesa ci consegna, la celebrazione sacramentale della nostra fede, alcuni eventi speciali (l’amore, il dolore, l’incontro con una persona…), il servizio coraggioso e gratuito, quei fratelli a cui lo Spirito ha affidato il compito di condurci in unità e verso la verità.
Questi sono i luoghi dell’incontro.
Sappiamo però tutti benissimo che anche questi luoghi “istituzionali” possono facilmente diventare “non luoghi”, per persone distratte e dissipate come siamo noi, afferrati da mille preoccupazioni funzionali. O possono diventare tristemente muti, perché riletti impietosamente da quella prospettiva saccente e critica che sembra diventata oggi una condizione irrinunciabile di maturazione.
Non capita solo a noi. Gli Apostoli hanno frequentato il luogo più fortunato per incontrare Gesù: lui stesso… Ma hanno faticato davvero non poco per incontrarlo in modo autentico. C’è voluto lo Spirito per operare la trasformazione radicale.
La constatazione ci consola e ci impegna.
La percezione che colui che camminava sulle acque fosse solo una fantasma, attraversa continuamente la nostra vita. Anche noi gridiamo spaventati come loro o lo chiamiamo a gran voce, anche quando l’abbiamo vicino, compagno di viaggio. Serve poco rammaricarci “dopo”, chiedendoci come mai non ci ardeva il cuore mentre camminava con noi.
Il cammino vissuto in questi anni, nella grande esperienza che lo Spirito ci ha donato attraverso la “spiritualità carismatica” “La Scuola di Evangelizzazione S.Andrea” “Le Cellule di Evangelizzazione”, ci consegna una indicazione operativa preziosa, come condizione per scoprire la presenza di Gesù nei luoghi in cui cammina con noi: diventare persone capaci di contemplazione.
Abbiamo bisogno di diventare “contemplativi del nostro quotidiano” per incontrare veramente Gesù, il Crocifisso risorto.
Contemplare dice esigenze davvero difficili oggi, ma, proprio per questo, veramente irrinunciabili: interiorità e silenzio. Ci vogliono occhi profondi e capacità d'ascolto e di meditazione, per scorgere il significato della realtà oltre le apparenze. Abbiamo bisogno di silenzio per penetrare in noi stessi, attraversare impressioni, sensibilità, risonanze e giungere al mistero di Dio e di noi stessi.
Il silenzio è la condizione vitale per ascoltare Dio che si fa Parola sussurrata, come la brezza di una calda sera d'esta­te (Gen. 3, 8), sconvolgente e imprevedibile perché mai possedu­ta. Per leggere il visibile dalla prospettiva del mistero di Dio che si porta dentro, abbiamo bisogno del silenzio, come dell'aria che respiriamo; altrimenti il mistero resta muto, la voce di Dio vie­ne soffocata. E l'interiorità si dissolve come neve al sole, nel­la trama seducente del vissuto.
L'interiorità è il luogo dello Spirito di Gesù che parla dal silenzio e chiama verso il silenzio. Essa è spazio intimissimo e personale, dove tutte le voci possono risuonare, ma dove ciascuno si trova a dover decidere, solo e povero, privo di tutte le sicurezze che danno conforto nella sofferenza che ogni decisione esige.
Circondati di silenzio, conquistato a fatica nel ritmo ossessivo della giornata, viviamo, finalmente, in compagnia di noi stessi.
Ho l'impressione che sia una delle esperienze più difficili oggi. Abbiamo tutti una grande paura di restare soli e cerchiamo affanno­samente gli altri. Ci sostengono, ci servono di prezioso punto d'appoggio. Diventano persino il grembo materno a cui affidiamo la fragile nostra esistenza.
Spesso è una compagnia strana: rumorosa e distraente, come un po­meriggio domenicale che dura tutta la vita, passato in un bar,ristorante, vicini e tanto isolati, costretti ad urlare per farsi ascoltare, sempre male interpretati, nel sottofondo musicale che distorce ogni voce. Ma ci va bene. Ci aiuta a non pensare: a non avere paura e a non essere costretti ad alzare le mani invocanti.
Qui è il punto.
Quando siamo soli, faccia a faccia con la nostra finitudine, ci sentiamo costretti a cercare due polsi robusti a cui ancorare le nostre braccia alzate nell'invocazione. Ma questo ci fa soffrire, troppo per risultare praticabile.
Scopriamo di non bastare a noi stessi, noi che sappiamo tante co­se e usciamo indenni da tutti gli inghippi. E ci accorgiamo che, in fondo, nessuno dei nostri amici ci basta per sopravvivere sull'onda del limite invalicabile della nostra fame di vita e di felicità.
Abbiamo paura di sprofondarci nell'abisso dell'oltre, dove i conti non tornano più.
E così scappiamo dalla difficile e inquietante compagnia di noi stessi.
Personalmente in questi mesi ho capito che la solitudine va invece riconquistata, come condizione e spazio per l'interiorità. L'uomo e la donna che possiedono questa capa­cità di solitudine non sono più fatti a pezzi dalle mille impres­sioni che ci circondano e ci affascinano. Sono invece capaci di percepire e capire tutto da un centro interiore in cui regna la pace.
Contemplazione e silenzio sono solo condizione, strumento indispensabile… che prepara e facilita l’incontro. Non sono ancora esperienza d’incontro.
L’evento dell’incontro è la celebrazione eucaristica,. Va ricordato con forza, anche per restituire alla Eucaristia la sua dimensione di evento del Crocifisso risorto nella comunità dei suoi discepoli, liberandola dalle sovrastrutture che l’hanno ridotta a semplice momento di compagnia e di progettazione.
La celebrazione eucaristica ci immerge nel tempo e ce ne restituisce la scansione autentica, l’unica che si fa davvero salvifica. Essa è la grande festa cristiana del presente tra pas­sato e futuro, tra memoria e profezia.
Il passato è rievocato come sorgente e ragione della festa nel presente. Non è il greve condizionamento che pesa sul presente; ma l'avvenimento che gli dà senso e lo riempie di ragioni.
Viene anche anticipato il futuro. La celebrazione eucaristica è scoperta gratuita ed entusiasta dei segni della novità anche tra le pieghe tristi del­la necessità del presente. Per questo, possiamo vestire nel pre­sente i panni fantasiosi del futuro, senza passare per uomini che fuggono quelle responsabilità cui chiama ogni presente. Essa è quindi una grande esperienza trasformatrice. Aiuta a spezzare le catene del presente, senza fuggirlo. E' un piccolo gesto di li­bertà, che sa giocare con il tempo della necessità e sa anticipa­re il nuovo sognato: il regno della convivialità, della libertà, della collaborazione, della speranza, della condivisione.
E’ importante che ricordi che tutto questo non si realizza in un gioco d'intese, di realizzazioni o di compromessi. La sua radice è invece il mistero di Dio, reso presente nella pasqua del Crocefisso risorto.
Questa constatazione se vogliamo chiamarla teologica giustifica e rilancia l’affermazione : la celebrazione eucaristica è l’evento dell’incontro personale, affidabile e autentico, con Gesù, nel grembo materno della comunità ecclesiale. Per questo, l’impegno di diventare annunciatori e testimoni del Risorto richiede,secondo me, la decisione di mettere l’Eucaristia al centro del processo.
In questo, ci sentiamo nella dolce compagnia dei due discepoli di Emmaus.
Come loro, ci misuriamo con nostalgie e scoraggiamenti. La voglia di tirare i remi in barca attraversa ogni nostra giornata e ci spinge a chiudere definitivamente con la responsabilità di evangelizzare. Mille altre cose ci riescono meglio e sembra sciocco affannarsi a voler bene alle persone che incontriamo percorrendo una strada deserta e sassosa.
Non basta approfondire e qualificare.
Grazie alle riflessioni dell’ospite che ha fatto strada con essi, i due discepoli incominciano a capire e a rileggere la loro avventura. E’ tutto chiaro… sul piano delle idee e delle motivazioni. Ma le gambe sono frenate e il cuore è ancora stanco. Ragionano in modo saggio: “D’accordo… conviene tornare a Gerusalemme. Domani, però, alle prime luci del giorno. Oggi è tardi. Non possiamo rifare il cammino di notte. E' troppo pericoloso. Domani”. Poi, ormai, ecco le prime case di Emmaus. Sono arrivati a destinazione: domani mattina si torna a Gerusalemme. E’ una sapienza povera ed egoista. L’amore ragiona in un altro modo.
Solo quando Gesù ha spezzato il pane con essi, nella celebrazione eucaristica, gli occhi si spalancano sul mistero dell’esistenza e l’entusiasmo ritorna, intenso come una volta. La speranza e la passione rientra prepotente nei loro cuori intorpiditi. La preghiera e la celebrazione si spalancano verso la vita. Adesso non è più tardi per tornare a Gerusalemme. Non ci sono più i pericoli del viaggio notturno. Partono, di corsa: l'esperienza vissuta va comunicata agli altri.
Ritornano a Gerusalemme, per gridare a tutti: Gesù è risorto, la sua avventura per la vita e la speranza di tutti... continua. Anzi: ricomincia.
Concludo con l’invito ad un’ultima riflessione. Riprende e rilancia tutta la questione.
In questi anni abbiamo rinunciato a formule ad effetto e a prassi che sembravano consolidate – resistendo verso alcune nostalgie – per la necessità di definire modalità verificabili anche circa l’incontro con Gesù e il nostro affidamento totale alla sua persona.
Si tratta di un incontro diverso da tutti gli altri. Tanto decisivo però da afferrare tutta la vita e da coinvolgere la nostra passione evangelizzatrice. Avevamo paura di vendere prodotti discutibili o eccessivamente segnati dai limiti della nostra personale esperienza.
Oggi vogliamo ritrovare il coraggio di un annuncio forte e deciso, per aiutare a vivere e donare speranza. Vogliamo anche far diventare ricchezza e qualità di vita quello che abbiamo vissuto e sperimentato, per non spalancare le porte a fanatismi pericolosi e seducenti.
Vogliamo affidare tutta la nostra vita a Gesù il Signore. Come possiamo verificare se questo è vero e autentico o se, purtroppo, è solo un gioco di parole, affascinante e vuoto?
Il vissuto dei discepoli di Gesù, nei documenti della nostra fede, ci consegna un criterio di verifica autorevole e molto concreto.
L'incontro con Gesù non è prima di tutto un rapporto affettivo; e neppure è solo la consegna totale di sé a lui. E' soprattutto la condivisione di una causa. La fede si fa obbedienza al progetto di Dio, manifestato nella vita di Gesù.
Del suo progetto Gesù ha parlato spesso con toni diversi. Quando voleva esprimerlo in modo concreto e lapidario, utilizzava la formula originale di “Regno di Dio” . Il Regno di Dio è la causa di Gesù. L'incontro con Gesù è misurato quindi sulla condivisione appassionata del Regno di Dio.
Regno di Dio è riconoscimento della sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possi­bile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui procla­miamo la signoria assoluta, è tutto per l'uomo. Egli vuole un fu­turo significativo per l'uomo. Fa della vita e della felicità dell'uomo la sua “gloria”. L'uomo lo riconosce Signore quando si impegna a promuovere la vi­ta e la speranza.
Su questi parametri – certamente espressi in una prospettiva ben diversa da quella che utilizziamo per analizzare gli eventi misurabili… perché siamo nella logica dell’amore e della gratuità – possiamo verificare l’autenticità del nostro affidamento al Dio di Gesù.
Carissimo amico e Padre Don Filippo, con questa, voglio anche precisare che Lei è sempre stato e sarà nelle nostre preghiere. Aggiungo che l’avventura per una nuova evangelizzazione è appena iniziata…………

Umberto

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