La Speranza
La fede come fondamento della speranza
Le tre virtù teologali sono strettamente congiunte e inseparabili. Ciascuna ha però una sua specificità. Il rapporto tra la fede e la speranza va inteso nei termini della base rispetto a un edificio. Lo si vede chiaramente in Eb 11,1: “La fede è fondamento delle cose che si sperano”. Ne consegue che nessuno può sperare niente se sconosce i contenuti veri della fede. Se la vita interiore del credente è vuota di contenuti, la sua fede è molto fragile; e se la fede è fragile, la speranza manca di una base sicura su cui edificarsi. In questa condizione è impossibile qualunque cammino di fede. La speranza è infatti la virtù che muove il battezzato verso il futuro; è insomma la virtù della speranza che produce quel movimento che siamo soliti chiamare “cammino di fede”.
Gli obiettivi della speranza secondo le Scritture
Abbiamo detto che la speranza teologale è la virtù che mette in moto la persona credente. Perciò va affermato che la presenza e l’opera della speranza nella singola persona si distinguono dal fatto che la persona è in continuo movimento; ovviamente non ci riferiamo al moto locale o alle agitazioni quotidiane. Ci riferiamo al fatto che la persona messa in moto dalla virtù della speranza, sente cambiare in sé qualcosa, ogni giorno. In questi casi la confessione sacramentale diventa una tappa del cammino e non l’occasione per confessare “i soliti” peccati.
La speranza nell’AT
La rivelazione biblica si arricchisce gradualmente di tutti gli elementi che costituiscono la speranza teologale. Il primo barlume della speranza biblica si ha in epoca patriarcale (secc. XIX-XV a. C.), quando le aspettative di Abramo e della sua stirpe si concentrano sulla Terra Promessa. Poi, al tempo della monarchia (secc. X-VI a. C.), si coagulano intorno all’attesa del Messia, percepito come un re saggio di stirpe davidica. Dopo l’esilio (secc. VI-I a. C.), la speranza biblica comincia a definire la destinazione dell’uomo nell’aldilà, mentre l’attesa del Messia viene interpretata dagli apocalittici nei termini di un personaggio celeste, mediatore della nuova creazione.
La speranza nel NT
Il NT opera sulla speranza dell’AT un trasferimento: la Terra Promessa diventa una meta esterna alla natura e al mondo; Eb 13,14: “Non abbiamo quaggiù una dimora definitiva, ma siamo in cerca di quella futura”. L’Apostolo Paolo è poi esplicito nel dire che se Cristo è un punto di riferimento solo per le cose di questa vita, allora siamo da compiangere (cfr 2 Cor 15,19). Piuttosto, oggetto della nostra speranza di cristiani è l’opera della nuova creazione che Dio ha iniziato in noi, nel momento in cui ci ha dato il suo Spirito. Lo Spirito Santo ci trasfigura lentamente, comunicandoci la gloria del Signore (cfr 2 Cor 3,18). La vita cristiana è infatti una vita trasfigurata, ossia una vita “nello Spirito”. E questo è solo l’inizio. Tutto il resto lo attendiamo con fiducia, perché “chi ha promesso è fedele” (Eb 10,23).
Il fraintendimento della speranza
Fin dal tempo di Paolo, la speranza cristiana è stata spesso soggetta a fraintendimenti. Si vede chiaramente da 2 Ts 3,11ss, dove l’Apostolo deve richiamare all’impegno quotidiano quei cristiani che pensavano all’attesa del ritorno del Signore come a un pretesto per scaricarsi di dosso la responsabilità dell’aldiqua. Al contrario, la speranza teologale rende più seria l’attività umana sulla terra. Infatti, la dignità umana diventa altissima solo se letta nella chiave della speranza teologale. Perciò non diminuisce l’importanza degli impegni terreni, ma li rafforza su nuove motivazioni.
Preludio
Ci sembra opportuno trattare l’argomento entrando direttamente nel NT. Infatti, sotto un certo aspetto, tutto l’AT potrebbe essere riletto sotto la chiave della “speranza”, nel senso che esso rappresenta per definizione il tempo dell’attesa. Si tratta però di un’attesa orientata verso la venuta storica del Messia, che ovviamente è cessata con l’Incarnazione. La nascita umana di Cristo, considerata in se stessa, non ha compiuto tutte le promesse antiche, o meglio: con la nascita di Gesù inizia il tempo del compimento, che si prolungherà fino al giorno della risurrezione dei morti e alla costituzione di cieli nuovi e terra nuova. La nascita di Gesù è dunque la premessa storica perché quel futuro di felicità promesso da Dio possa diventare una certezza per ogni singolo uomo e per l’umanità. Da questo punto di vista, la virtù teologale della speranza è quella virtù infusa che ci dispone ad attendere, con certezza assoluta, al di là delle sofferenze che funestano la storia, un’esistenza radiosa e libera da qualunque ombra di morte. Quali siano i contenuti esatti di questa speranza sarà appunto oggetto delle nostre presenti riflessioni.
La speranza nell’insegnamento di Gesù
Nei vangeli Sinottici, l’insegnamento di Gesù in merito alle ultime cose si colloca in prossimità del racconto della Passione, dopo il suo ingresso messianico in Gerusalemme. L’occasione di impartire un insegnamento completo sul futuro ultimo, gli viene data da una domanda esplicita dei discepoli, radunati attorno a Lui sul monte degli Ulivi (cfr. Mc 13,3). Poco prima, però, il Maestro era già stato interrogato, nel tentativo di metterlo alla prova, da un gruppo di sadducei sulla questione della risurrezione della carne. Nelle risposte di Gesù ai sadducei sulla risurrezione, e ai discepoli sul ritorno del Figlio dell’uomo, si condensa tutto ciò che è essenziale a illustrare le attese della speranza cristiana.
Iniziamo quindi dal discorso con i sadducei. Questa controversia è riportata dai tre sinottici, con piccole varianti: Mt 22,23-33; Mc 12,18-27; Lc 20,27-40.
Il discorso prende le mosse ancora una volta dal tema del matrimonio, analogamente alla controversia con i farisei, per poi approdare all’insegnamento cristiano sulla condizione dei risorti. I sadducei, i quali negavano la possibilità della risurrezione corporea, pongono a Cristo una domanda insidiosa e non esente da una certa ironia: di chi sarà moglie, nel giorno della risurrezione, una donna che, essendosi sposata più volte per vedovanza, ha avuto più mariti legittimi? Dopo la risurrezione il problema si pone, visto che la risurrezione ripristina l’integrità psicofisica e che l’essere umano risorge nella propria realtà sessuata di mascolinità o femminilità. Coloro che erano marito e moglie in questa vita, torneranno a esserlo? E se uno si è sposato più volte? Come si mettono allora le cose? Cristo risponde dicendo che, se anche si risorge nella propria realtà corporea maschile o femminile, la risurrezione esclude la vita di coppia, essendo il matrimonio una istituzione valida solo per questa vita.
I testi di Matteo e di Marco riportano una risposta di Gesù piuttosto dura ai sadducei, rimproverati di ignoranza biblica e di non conoscenza di Dio. I sadducei negano la risurrezione semplicemente per ignoranza delle Scritture, quando già nell’Esodo, Dio si rivela a Mosè come Dio “di Abramo di Isacco e di Giacobbe”. Questi personaggi, al tempo di Mosè, sono già morti e sepolti da un pezzo. Non avrebbe senso, perciò, da parte di Dio, definirsi così, se Abramo, Isacco e Giacobbe, pur scomparsi dalla scena della storia, non esistessero ancora in un’altra dimensione. Dio, infatti, “non è Dio dei morti ma dei viventi, perché tutti vivono per Lui” (Lc 20,38).
Dei risorti Cristo dice che non prendono moglie né marito. Ciò implica che lo stato finale dell’umanità sia quello verginale, nel senso che il rapporto esclusivo tra un uomo e una donna, con i suoi significati di unità e di fecondità, non ha più ragione di esistere in una fase conclusiva della storia, in cui il numero degli eletti si è completato. Inoltre, il rapporto esclusivo tra due persone sarebbe in netta contraddizione con una realtà umana interamente assorbita in Dio, dove l’amore trinitario riempie interamente tutti i rapporti interpersonali dei risorti. Il rapporto esclusivo tra due persone impoverirebbe piuttosto che perfezionare la comunione dell’amore trinitario. In Dio, infatti, il rapporto personale che unisce il Padre al Figlio non può essere diverso, né più intenso né meno intenso, di quello che unisce il Padre allo Spirito o il Figlio allo Spirito. Nell’umanità, l’amore potrà essere perfetto, quando unirà tutti e ciascuno nel medesimo grado d’intensità. Nell’umanità storica esistono diversi gradi d’amore, da quello di consanguineità a quello dell’amicizia, da quello dell’amore a quello della semplice conoscenza; ed esistono anche gli estranei e gli sconosciuti. Tutte queste gradazioni differenziate sono possibili solo perché Dio non riempie ancora interamente le nostre relazioni umane. Ma quando “Dio sarà tutto in tutti” (cfr. 1 Cor 15,28) allora ci sarà un solo amore e sarà quello trinitario. Cessato però il rapporto esclusivo tra un uomo e una donna, questo amore trinitario che sperimenteranno i risorti sarà di tipo verginale.
Molto più completo circa la speranza del futuro è il discorso del monte uliveto, riportato dai Sinottici; esso prende le mosse da una domanda dei discepoli, stimolata da un annuncio enigmatico sulla distruzione del Tempio: “Vedete tutte queste cose? In verità vi dico, non resterà qui pietra su pietra che non venga diroccata” (Mt 24,2). Dinanzi a questa predizione è spontanea la domanda dei discepoli sul “quando” di tutto ciò. La risposta di Gesù si compone di un lungo insegnamento, nel quale non viene svelato ai discepoli il tempo della fine, se lo si intende in termini di calendario, ma neppure viene totalmente occultato. Al popolo cristiano, insomma, è nascosta solo la “data” della fine, ma non la possibilità di intuire la sua vicinanza. L’obiettivo di Gesù sembra infatti quello di voler fornire ai suoi discepoli, e attraverso di essi alla Chiesa, gli elementi per comprendere, mediante una corretta scrutazione dei segni dei tempi, le diverse fasi dello sviluppo del disegno di Dio sulla Chiesa e sul mondo. La lettura dei segni dei tempi è infatti un compito che Cristo ha affidato esplicitamente alla sua Chiesa: “Dal fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che Egli è proprio alle porte” (Mt 24,32-33). Tuttavia aggiunge subito: “Quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa, neanche gli angeli e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mt 24,36). Il segreto del tempo della fine riguarda quindi specificamente il giorno e l’ora, ma non la sua vicinanza approssimativa. Su quest’ultima, invece, il popolo cristiano deve tenere gli occhi bene aperti, perché il giorno del Signore, che verrà come un ladro (cfr. Mt 24,43-44), non piombi di sorpresa, trovando le comunità cristiane impreparate all’evento più importante e più cruciale di tutta la storia dalla fondazione del mondo.
Seguendo il testo di Matteo, possiamo cogliere intanto diverse verità sulla dottrina escatologica, che poi saranno integrate dall’insieme del NT. Quanto ai segni premonitori, Matteo concorda in pieno con Marco e Luca nell’indicare tre serie di segni premonitori che annunciano la vicinanza del ritorno di Cristo: l’inizio dei dolori, la comparsa dell’abominio della desolazione nel luogo santo e il segno del Figlio dell’uomo. E’ opportuno esaminarli separatamente.
L’inizio dei dolori
Questa espressione, usata da Gesù in Mt 24,8, allude ai dolori del parto. Nei testi biblici che si riferiscono agli eventi degli ultimi tempi, l’immagine del parto è utilizzata ordinariamente per indicare il travaglio che precede il rinnovamento del cosmo. Ricordiamo un solo testo: “Spasima e gemi, figlia di Sion, come una partoriente, presto uscirai dalla città… là il Signore ti riscatterà” (Mi 4,10). In sostanza, la vittoria definitiva sul male, passa attraverso una tribolazione come quella del parto, approdando alla nascita di una creatura nuova. In prossimità del ritorno di Cristo, la terra comincerà a sussultare come se avesse le doglie, e questi sussulti, che i discepoli dovranno essere in grado di leggere come segnali, vengono descritti da Gesù a tre livelli: il livello cosmico, carestie e terremoti, a cui Luca aggiunge le pestilenze (cfr. 21,11); il livello internazionale, guerre, popolo contro popolo e regno contro regno; il livello ecclesiale, persecuzioni contro i cristiani e la diffusione della falsa profezia. Questi tre ordini di fenomeni, però, possono essere ravvisati, sebbene in misure e forme diverse, in ogni secolo; infatti, essi non sono significativi per se stessi, ma lo diventano in presenza della condizione prevista dal v. 14: “Frattanto questo vangelo del regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti”. Vale a dire: quando tutte le nazioni della terra saranno raggiunte dalla predicazione del vangelo e al tempo stesso si verificheranno i tre livelli dei fenomeni descritti da Gesù, allora i cristiani dovranno cominciare a prepararsi, perché la parusia non potrà essere lontana. Naturalmente, questa vicinanza non potrà essere calcolata secondo la misura del tempo umano, e potrà anche implicare il trascorrere di diversi secoli. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ha assunto proprio questa prospettiva dell’insegnamento di Cristo circa la rinascita del cosmo e della Chiesa come il travaglio di un parto: “La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno se non attraverso quest’ultima Pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e nella sua Resurrezione. Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo storico della Chiesa, secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male, che farà discendere dal Cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell’ultimo giudizio, dopo l’ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa” (CCC n. 677).
La comparsa dell’abominio della desolazione nel luogo santo
Una riflessione approfondita merita certamente la menzione dell’abominio posto nel luogo santo, che si presenta agli occhi del lettore come una indicazione dal carattere piuttosto ermetico. Non è comunque difficile risalire alla natura di questa realtà preannunciata da Gesù, anche se è difficile poter dire a che cosa storicamente potrà corrispondere. L’espressione utilizzata da Cristo è inserita nel suo discorso escatologico come una citazione del libro di Daniele, e proprio da questo bisogna partire per cercare il senso di questa immagine profetica. Il punto di riferimento è costituito esattamente da Dn 9,27: “Egli stringerà una forte alleanza con molti… farà cessare il sacrificio e l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio della desolazione e ciò sarà fino alla fine”. Il concilio di Trento dà una precisa interpretazione di questo versetto: riprendendo il tema dell’Anticristo per due volte, nella sessione del 6 Agosto 1547 e in quella del 10 Dicembre 1551. I due testi non differiscono sostanzialmente nel contenuto: punto di partenza di entrambi è il mistero dell’Eucaristia. Facendo leva sulla pericope di Daniele relativa alla introduzione nel Tempio dell’abominio della desolazione, il Concilio afferma che vi si annuncia la presenza nella Chiesa dell’Anticristo, un uomo sinistro che sorgerà nella fase finale della storia dell’umanità e che, analogamente alla durata del ministero pubblico di Gesù, godrà di un potere tirannico per un periodo di circa tre anni e mezzo (ossia lo spazio di metà settimana citato dal v. 27, dove un giorno corrisponde a un anno). Trento si preoccupa di sottolineare, in entrambi i testi in questione, un particolare relativo al sacramento dell’Eucaristia: l’Anticristo metterà in atto una persecuzione contro i cristiani che culminerà nella proibizione di celebrare pubblicamente il sacrificio cristiano. Nella prospettiva conciliare l’abominio della desolazione profetizzato da Daniele altro non sarebbe che il regno stesso dell’antagonista di Cristo che, in una parodia dell’Incarnazione, presenterà se stesso come l’autentica divinità a cui si deve il culto, negando di conseguenza ogni valore alle istituzioni cristiane e, in particolare, al sacramento dell’Eucaristia.
Il significato basilare del testo di Daniele ha un preciso riferimento storico, che risale all’epoca della dominazione ellenistica sulla Palestina. Antioco IV Epifane voleva trasformare Gerusalemme in un centro culturale come Atene e Alessandria, cancellando le usanze ebraiche e il culto giudaico. Egli giunse persino a introdurre nel Tempio di Gerusalemme una statua di Giove capitolino, una profanazione spudorata che non era mai avvenuta in questi termini nella storia di Israele e che parve intollerabile alle frange più osservanti del giudaismo. Il senso letterale dell’abominio della desolazione va perciò ricercato in quell’idolo introdotto nel Tempio. Nelle parole di Gesù, tuttavia, l’abominio della desolazione ha pure un significato profetico, capace di riferirsi a un fatto non ancora accaduto e che avrà luogo alla fine dei tempi. In questo secondo livello, a cui Cristo conduce intenzionalmente l’attività interpretante dei suoi discepoli, il “luogo santo” non è più il Tempio di Gerusalemme, che peraltro non riveste oramai alcun ruolo religioso per la comunità cristiana. Il luogo santo adesso è la Chiesa. Cristo intende dire che, alla fine dei tempi, prima del suo ritorno glorioso, nella Chiesa avverrà qualcosa di simile all’introduzione di un idolo, come quell’antico “abominio della desolazione”. In cosa poi esso esattamente consista, non è facile dirlo. Si può solo ipotizzare. Se il concilio di Trento identifica questo idolo con lo spirito falsificatore dell’anticristo, e se il Catechismo della Chiesa Cattolica, come vedremo, parla di una impostura religiosa degli ultimi tempi, allora, probabilmente, questo idolo innalzato nel luogo sacro (la Chiesa) sarà Cristo stesso ma annunciato in modo alterato; sarà un vangelo svuotato del suo contenuto soprannaturale; sarà un’esperienza cristiana completa nei suoi comportamenti e ritualismi esterni, ma priva della sua forza interiore di rinascita; in una parola: sarà la grande apostasia degli ultimi tempi, in cui il cristianesimo non sarà né negato né contraddetto, ma sarà vissuto meccanicamente come un ingranaggio privo di vita: “con la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegato la forza interiore” (2 Tm 3,5). Esso costituirà uno dei segnali della vicinanza del ritorno di Cristo. Riteniamo che al di là di questo per ora non si possa andare; ad ogni modo, i passi biblici relativi agli eventi finali saranno molto più chiari solo alla luce dei fatti che si svolgeranno, e che i cristiani allora viventi saranno chiamati a leggere e interpretare correttamente.
Cediamo ancora una volta la parola al Catechismo della Chiesa Cattolica, che descrive così gli eventi finali della nostra storia: “Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti… il mistero dell’iniquità si svelerà sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell’anticristo” (CCC n. 676).
Il testo è così chiaro che quasi non necessita di commento, e in certo senso contiene gli elementi più essenziali per l’individuazione dell’abominio della desolazione innalzato nel luogo sacro, come segno dei tempi finali. Il cammino storico della Chiesa non va considerato come un movimento trionfale verso la definitiva vittoria, ma va visto piuttosto come una replica della vita del Gesù storico, il quale va verso la vita definitiva passando attraverso la solitudine e il dolore del Venerdì Santo; la Chiesa, suo Corpo terrestre, dovrà anch’essa patire il suo Getsemani e la sua crocifissione, prima di entrare nella gloria definitiva della celeste Gerusalemme. Il Giuda che consegnerà la Chiesa ai suoi aguzzini sarà lo spirito dell’anticristo, che provocherà una generalizzata apostasia, a causa della quale il cristianesimo resterà in piedi solo nelle sue forme esterne, rimanendo svuotato della sua forza rinnovatrice, e sarà proprio questa quell’impostura religiosa di cui si fa cenno al n. 676 del CCC e quell’abominio della desolazione annunciato direttamente da Gesù. Il medesimo numero del Catechismo sembra prevedere, prima del ritorno di Cristo, oltre a una generale apostasia, anche una persecuzione cruenta contro i cristiani, come si percepisce dietro l’espressione di apertura: “Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti…”; lo scuotimento della fede potrà essere probabilmente una prova dolorosa (una persecuzione?), giacché l’apostasia non scuote la fede, ma la uccide come in una eutanasia. Nel discorso escatologico di Gesù, le persecuzioni cruente sono comunque previste nel quadro degli eventi finali, e forse il CCC allude proprio a questo.
Il segno del Figlio dell’uomo
Il terzo e ultimo segno della fine è costituito da Cristo stesso, nel suo apparire nella gloria e nella potenza della sua risurrezione. I caratteri e le circostanze di questa apparizione escatologica sono anticipati dal vangelo di Luca nella sezione finale del cap. 16 (vv. 22-37), prima del discorso sul monte uliveto. Cristo sembra descrive l’evoluzione dell’approccio dell’umanità con la vita, servendosi di un paragone desunto dai racconti biblici del diluvio e della distruzione della città di Sodoma; l’umanità che si troverà alle porte dell’ultima epifania di Cristo, avrà qualcosa in comune con l’umanità contemporanea a Noè e a Lot: “Come avvenne al Tempo di Noè così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, si ammogliavano e si maritavano, fino al giorno in cui il diluvio li fece perire tutti” (v. 27); anche al tempo di Lot, gli uomini “mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano” (v. 28). In queste due immagini bibliche, Cristo dipinge un’umanità ripiegata su se stessa, prigioniera dell’aldiqua, incapace di cogliere il messaggio spirituale proveniente da persone vicine a Dio come lo erano Noè e Lot. Significativamente il testo lucano dice “Nei giorni del Figlio dell’uomo” al v. 26 e “Nel giorno” al v. 30, per sottolineare che si descrivono i tempi della sua vicinanza, oltre che il momento del suo arrivo. L’umanità degli ultimi tempi sarà quindi particolarmente sorda ai richiami del soprannaturale, e si muoverà verso la superficie dell’esistenza, venendo così colta di sorpresa dalla venuta del Cristo glorioso. Va certamente letta in questo senso la domanda posta da Gesù alla fine della parabola del giudice iniquo: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? (Lc 18,8). I discepoli vengono perciò accoratamente avvertiti di non appesantirsi, ubriacandosi di cose effimere (cfr. Lc 21,34-36). La prima lettera a Timoteo ritornerà su questo tema dell’umanità degli ultimi tempi, segnata da una particolare superficializzazione di tutti i suoi rapporti (cfr. 1 Tm 4,1ss).
La sezione finale di Luca 17 contiene anche un paio di versetti un po’ oscuri, che riprenderemo in forma interrogativa a proposito della 1 Tessalonicesi: “in quella notte due si troveranno in un letto: l’uno verrà preso e l’altro lasciato; due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà presa e l’altra lasciata” (vv. 34-35). L’inizio del v. 34 sembra voler dire che il ritorno di Cristo avverrà durante la notte: “In quella notte…”. Del resto, anche la parabola delle dieci vergini in attesa dello sposo, odono il grido che annuncia il suo arrivo durante la notte (cfr. Mt 25,1-13) e ripetutamente si parla della venuta di Cristo nella gloria come quella di un ladro nella notte. Nei primi secoli della Chiesa, nella veglia di Pasqua, l’assemblea si scioglieva solo dopo la mezzanotte, appunto sulla base di questa attesa del Cristo nella notte. Questo particolare, però, non ci sembra cruciale quanto lo è quello descritto ai vv. 23-24: “Vi diranno: Eccolo là, o eccolo qua; non andateci, non seguiteli. Perché come il lampo, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno”. Il momento del ritorno di Gesù non avrà insomma bisogno di profeti o di precursori: la sua apparizione sarà immediatamente evidente su tutte le latitudini della terra abitata, come la luce del lampo che percorre d’improvviso il cielo notturno. Sarà perciò del tutto impossibile qualunque previsione del momento esatto dell’ultima epifania di Cristo, e chiunque voglia tentarne un’ipotesi di calendario, va giudicato per ciò stesso un impostore. Infatti, il passo parallelo di Matteo all’esortazione “Se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o E’ là, non ci credete” aggiunge: “Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti” (Mt 24,23-24). La falsificazione religiosa operata dallo spirito dell’anticristo raggiungerà quindi negli ultimi tempi una potenza mai conosciuta prima nella storia della Chiesa. Il libro dell’Apocalisse descrive questa impostura religiosa mediante il simbolo del falso profeta, ossia la Bestia che sale dalla terra: somiglia a un agnello, ma parla secondo lo spirito del drago (13,11). In sostanza, il maligno colpisce la Chiesa nei due modi descritti da Ap 13, o con la persecuzione aperta e violenta (la Bestia simile alla pantera, v. 2), o con una persecuzione occulta, ossia la falsificazione della santità (la Bestia simile all’agnello, v. 13).
In concomitanza con la venuta del Figlio dell’uomo, vengono descritti dei fenomeni cosmici di grande portata: dopo le tribolazioni concomitanti al secondo segno, vale a dire, dopo l’ultima manifestazione dell’anticristo, la natura perderà i suoi equilibri consueti: “il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, gli astri cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte” (Mt 24,29). I medesimi termini ricorrono anche nel vangelo di Marco, mentre Luca varia leggermente, pur mantenendo lo stesso tenore: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia… per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte” (21,25). A questo punto comparirà il segno del Figlio dell’uomo e tutte le nazioni lo vedranno nella sua maestà (cfr. Mt 24,30). L’idea di fondo è che la venuta di Cristo nella gloria, dà inizio a un nuovo ordine di cose, migliore e definitivo, che annulla quello della creazione precedente. L’Apocalisse parla infatti del sorgere di cieli nuovi e terra nuova (cfr. Ap 22,1, come pure 2 Pt 3,13). Lo sconvolgimento della creazione in Adamo indica che il suo tempo è scaduto e che Dio ripristina in Cristo gli ordinamenti della creazione. Non si tratta perciò di una “fine”, ma di un nuovo inizio. Accanto al ripristino degli ordinamenti del creato, la venuta di Cristo nella gloria comporterà anche il raduno degli eletti: “Egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti” (Mc 13,27 e Mt 24,31). Il tema del raduno degli eletti viene ripreso dalla letteratura profetica postesilica, dove viene promesso a Israele il ritorno dalla dispersione (cfr. Ez 20,41). Alla luce delle parole di Cristo, si comprende bene come il vero raduno di Israele dalla sua dispersione tra le nazioni, annunciato dai profeti, sarà questo che avrà luogo in concomitanza col suo ritorno. Tra i Sinottici solo Matteo lascia intendere che il raduno degli eletti segna l’inizio del giudizio universale, e quindi suppone che la risurrezione si verifichi contemporaneamente alla parusia.
Il capitolo 25 di Matteo parla esplicitamente di “raduno” in vista del giudizio: “Quando il Figlio dell’uomo verrà… saranno riunite davanti a Lui tutte le genti” (vv. 31-22). Le tre parabole introduttive del maggiordomo (24,45-51), delle dieci vergini (25,1-13) e dei talenti (24,14-30) – che noi non analizzeremo nei loro particolari in questa sede – si riferiscono certamente alla fine dei tempi, ma si riferiscono anche alla fine della vita terrena del singolo uomo. Ci basta prendere coscienza, in questa sede, del fatto che la virtù teologale della speranza dispone il cristiano in un certo modo non solo riguardo agli ultimi eventi del mondo, ma anche riguardo agli eventi ultimi della propria stessa vita. La virtù della speranza dona al cristiano la vittoria esistenziale sulla morte, il cui ricordo ha cessato di vanificare i significati più belli della vita. Tanto il pensiero della morte, quanto quello dell’invecchiamento e della malattia acquistano, nella virtù della speranza, nuovi valori e svelano di essere, al di là delle loro apparenze, delle realtà al servizio della Vita nel suo significato più ampio e più totale. Per chi è privo della virtù teologale della speranza, la malattia, la vecchiaia e la morte, come ogni altra esperienza di diminuzione psicofisica, sono realtà al servizio della morte; al loro sopraggiungere sono perciò possibili due reazioni: o l’accettazione passiva o la disperazione. Ma per il cristiano non è così. La speranza teologale dispone il cristiano ad accogliere ogni esperienza di diminuzione, vuoi a livello fisico, vuoi a livello interiore, come una morte parziale del vecchio uomo. Infine, con la morte fisica, il vecchio uomo scompare definitivamente dalla scena della storia, e rimane solo l’attesa beatificante della risurrezione per la Vita. Le tre parabole introduttive, cui abbiamo già accennato, intendono riferirsi ai nuovi significati che la morte assume nella luce teologale della speranza. La parabola del maggiordomo, e quella dei talenti, descrivono la vita terrena come una forma di affidamento di beni non propri; ciò significa che la virtù della speranza favorisce la scelta, e soprattutto la comprensione, della povertà evangelica, a partire dalla consapevolezza che il vero Padrone di tutto quello che possiedo è Dio; io soltanto amministro dei beni non miei (1 Cor 4,7). La mia morte sarà dunque il ritorno del Padrone che mi chiederà conto della mia amministrazione. Ma non è tutto qui: la speranza mi dispone a vedere la mia morte con gli stessi occhi con cui una ragazza guarda il giorno del suo matrimonio, ed è proprio questo il messaggio fondamentale della parabola delle dieci vergini. Attendere la morte, per il cristiano, è come attendere lo Sposo, per restare sempre con Lui.
Il giudizio finale, narrato da Matteo, ci riporta quindi al tema del raduno che nel discorso escatologico del monte uliveto è associato alla comparsa del segno del Figlio dell’uomo. L’umanità viene radunata davanti a Lui, ma, al tempo stesso, viene divisa. Nulla di nuovo in verità. Anche durante la nostra vita terrena avviene lo stesso: la fede in Cristo unisce e divide. Ed entrambe le cose hanno una tele profondità e una validità tale, da essere riconfermate nel giorno del giudizio. La divisione che in quel giorno diverrà palese a tutto l’universo, era già in atto da molti secoli, anche se non per tutti era evidente. Il giudizio finale non farà altro che portare alla luce e confermare definitivamente, con l’irreversibilità di ciò che è eterno, quel che già era stato deciso dalle libere scelte, compiute di singoli uomini, finché ne avevano il tempo. Dal punto di vista teologico ci sembra anche particolarmente importante l’espressione duplice pronunciata dal giudice come motivazione della sua sentenza: “l’avete fatto a Me”, “non l’avete fatto a Me” (vv. 40.45). L’ultima discriminante del giudizio di Dio non è il bene inteso come “atto buono”, ma il bene inteso come una convalida o una smentita da parte di Cristo del valore delle nostre opere. Vale a dire: ci possono essere tanti motivi che spingono la persona a compiere un “atto buono”; ebbene, dobbiamo sapere che non tutte le nostre motivazioni per fare il bene, sono convalidate dal giudice divino. Il Cristo storico ha anticipato questa verità nel suo insegnamento. Non c’è dubbio che i farisei compivano con fedeltà molti atti buoni: la preghiera, l’elemosina, il digiuno, eppure Cristo non ha convalidato queste opere (cfr. Mt 6,1.5.16), così come il fariseo che va al Tempio a pregare col pubblicano, ha compiuto davvero quelle opere buone menzionate nella sua preghiera, ma Cristo non le convalida davanti al Padre (cfr. Lc 18,11-12.14). Anche nel libro dell’Apocalisse viene enunciato lo stesso principio: “Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio… non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio” (3,1-2). Il Risorto qui non dice: “Non ho trovato le tue opere perfette in se stesse”, bensì “non ho trovato le tue opere davanti al mio Dio”. Un’opera, infatti, in se stessa, può essere buona, ma Cristo può avere tuttavia i suoi motivi per non convalidarla davanti al Padre.
Inoltre, la duplice espressione del giudice allude anche a un’altra verità: quando il bene che compiamo è convalidato da Cristo, esso va considerato come un atto d’amore perfetto, in quanto è un amore simultaneamente dato a Dio e a l’uomo: “l’avete fatto a Me”.
La speranza nelle lettere apostoliche
L’insegnamento sul ritorno di Cristo e la restaurazione di tutte le cose ritorna più volte nelle lettere degli Apostoli. La prima generazione dei cristiani, è caratterizzata da un’attesa della parusia a breve termine. E ne abbiamo tante prove nel NT. In uno dei suoi primi discorsi, Pietro dice che Gesù rimarrà in cielo “fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose” (At 3,21). Il suo ritorno comporterà quindi la realizzazione dell’ultimo atto creativo di Dio, che avrà due obiettivi: Egli condurrà la creazione a nuovi e definitivi ordinamenti e l’umanità verso la rinascita della risurrezione corporea. I cristiani del primo secolo pensavano però che tutto ciò dovesse compiersi nel giro di pochi anni. L’Apostolo Paolo dice a chiare lettere, a proposito della risurrezione: “Vi annuncio un mistero: non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati… i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati” (1 Cor 15,51-52). Pensando al ritorno di Cristo e alla risurrezione concomitante, Paolo associa a sé la comunità di Corinto mettendola tra coloro che saranno vivi in quel momento: “i morti risorgeranno, noi saremo trasformati”. Solo alla fine del primo secolo, al tempo in cui Luca scrive il suo vangelo, comincia a farsi strada l’idea che i tempi di Dio non sono i nostri; e mentre la prima generazione concepiva l’opera della Redenzione in due tempi: Morte – Risurrezione e ritorno di Cristo nella gloria, col vangelo di Luca si comincia a capire che i tempi sono tre: Morte – Risurrezione, Missione della Chiesa, ritorno di Cristo nella gloria. Luca, infatti, sente il bisogno di aggiungere al suo vangelo il libro degli Atti, come una sezione integrante del suo servizio alla Parola.
La lettera più antica tra quelle apostoliche è la prima ai Tessalonicesi. Essa ci riporta al tema del raduno degli eletti, già discusso nella prospettiva dei Sinottici. In particolare va menzionata la pericope in cui l’Apostolo parla esplicitamente della speranza teologale, che suscita nell’animo del cristiano dei sentimenti del tutto diversi da quelli di chi non ha speranza: “Non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come quelli che non hanno speranza” (1 Ts 4,13). La conoscenza del disegno di Dio libera la persona dalle sue afflizioni, specialmente dagli enigmi legati al problema della morte. L’Apostolo dice che il disegno di Dio è quello di radunare intorno a Cristo, nel giorno della sua venuta, coloro che sono morti. E’ evidente che Paolo si mette anche qui dalla parte di coloro che, nel giorno della parusia, saranno ancora vivi: “Prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria” (1 Ts 4,16-17). Il raduno degli eletti è dunque presentato dall’Apostolo nella forma di un rapimento. Questa immagine va accostata a quella di Luca 17,34-35? Si parla infatti di qualcosa che richiama un rapimento o un sollevamento: “in quella notte due si troveranno in un letto: l’uno verrà preso e l’altro lasciato; due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà presa e l’altra lasciata”. Potrebbe essere senz’altro. Ciò significherebbe che la terra come pianeta abitabile, nel momento della parusia, avrebbe concluso il suo ciclo e la sua esistenza. Alla luce di questo potremo leggere anche la promessa di cieli nuovi e terra nuova, dopo la dissoluzione di questo cielo e di questa terra, della seconda di Pietro: “Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta” (3,16). Poco più avanti si ha la grande promessa: “Noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova” (v. 13). I risorti abiteranno dunque una creazione che non è quella che noi conosciamo attualmente.
Nella prima ai Tessalonicesi, l’Apostolo enuncia anche talune circostanze che caratterizzeranno il giorno del Signore: “Quando si dirà: Pace e sicurezza, allora d’improvviso li colpirà la rovina” (1 Ts 4,3). Il versetto va accostato al discorso escatologico di Gesù, dove uno degli aspetti dell’umanità che sarà destinataria dell’ultima epifania di Cristo è la “superficializzazione”. Gesù paragona, infatti, l’umanità degli ultimi tempi a quella contemporanea a Noè e Lot: mangiavano e bevevano, si maritavano, vendevano e compravano. Un’umanità interamente concentrata nelle cose del mondo e chiusa dentro l’orizzonte dell’aldiqua. Un’umanità affannata e stordita, incapace di udire i richiami di Dio, che non mancano mai nei secoli. Soprattutto un’umanità ingannata. Si dirà: “Pace e sicurezza!”. Queste due parole contengono l’inganno più colossale in cui l’uomo può cadere: la convinzione di essere autosufficiente con le proprie risorse; la certezza che la vita su questa terra può essere resa perfettamente felice, facendo a meno di Dio. In sostanza, la divinizzazione dell’umanità che si realizza nel culto della scienza e della tecnica.
L’Apostolo paragona questo colossale inganno a un sonno profondo e a una solenne ubriacatura: “Quelli che dormono, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, sono ubriachi di notte” (1 Ts 4,7). I cristiani, invece, devono muoversi alla luce del giorno ed essere sobri; vale a dire: devono stare bene attenti a qualunque forma di divinizzazione delle creature, per non cadere nel fascino della religione dell’umanità. Senza voler andare lontano, e dire che non c’è nulla di irreale in quel che diciamo, basta andare indietro di circa duecento anni per verificare che un filosofo, Auguste Comte, massimo teorico del positivismo, aveva preconizzato la “religione dell’umanità”, sostituendo i santi del cristianesimo con gli scienziati e gli scopritori dell’epoca moderna, cioè coloro che hanno dato all’umanità gli strumenti per giungere autonomamente alla soluzione dei suoi problemi.
Il tema della religione umana, cioè di un culto dato all’umanità nei suoi individui migliori, torna, sotto l’aspetto di un segno premonitore della fine, nella seconda lettera ai Tessalonicesi. Al capitolo 2 l’Apostolo prende le mosse dalla necessità dei segni premonitori, per esortare i tessalonicesi a non turbarsi senza motivo. Il giorno del Signore non è da attendersi come imminente, finché non si manifestino nella storia i segni premonitori che ne annunciano la vicinanza (cfr. 2 Ts 2,1-3). Nel discorso del monte uliveto, Gesù aveva indicato ai suoi discepoli una molteplicità di segni premonitori, che avranno luogo in diversi settori della realtà; Paolo ne ricorda qui solo uno, e precisamente il segno relativo all’abominio della desolazione posto nel luogo sacro: “Prima dovrà infatti avvenire l’apostasia e dovrà essere rivelato l’uomo iniquo… che si innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio” (2 Ts 2,3-4). E’ in fondo quello che abbiamo osservato a proposito del discorso escatologico di Gesù: segno della vicinanza della parusia, insieme agli altri già menzionati, sarà l’apostasia, cioè la perdita della fede in seno al popolo cristiano, tale che il cristianesimo continuerà a sopravvivere solo nelle sue consuetudini e nei suoi riti, ma senza più alcuna forza interiore di trasformazione della persona. Si potrebbe affermare che, mentre le persecuzioni dei primi secoli hanno ucciso i cristiani, l’apostasia dei tempi finali ucciderà il cristianesimo; non però in modo violento, bensì dolcemente, come una eutanasia. L’apostasia finale viene presentata da Paolo come una religione dell’umanità, cioè come un culto dato all’uomo e non a Dio. Per questo si parla di un “uomo che si innalza… fino a sedere nel tempio”. Che si tratti di un individuo concreto (l’anticristo) o sia il simbolo di un atteggiamento diffuso, non è una questione che intendiamo discutere qui. Il messaggio comunque non cambia: il cristianesimo degli ultimi tempi si presenterà, agli occhi di un osservatore attento e illuminato dallo Spirito, come un gigantesco cadavere che finge di essere vivo. Proprio allora, quando tutto sembrerà finito per i discepoli e quando la religione terrestre, che divinizza l’uomo e la sua tecnologia, proclamerà “Pace e sicurezza”, allora d’improvviso, come un ladro nella notte (cfr. 1 Ts 5,2), verrà Cristo nella sua gloria e nella maestà del Padre. I giusti saranno rapiti con Lui e sorgeranno così cieli nuovi e terra nuova, mentre passerà il mondo presente.
In concomitanza con questi eventi finali, avrà luogo anche la risurrezione della carne. I cristiani sanno di dover risorgere con Cristo, assumendo un corpo glorioso come il suo e libero dai determinismi della materia. L’Apostolo Paolo dedica all’argomento un intero capitolo della sua prima lettera ai Corinzi. Cercheremo di individuare le linee portanti per comprendere il fatto della risurrezione della carne. Innanzitutto, risorgere dai morti non significa ritornare alla vita. La risurrezione non è un ritorno verso l’aldiqua, ma un passaggio a una nuova dimensione. Da questo punto di vista, i miracoli evangelici del figlio della vedova Nain o di Lazzaro di Betania, a rigore di logica, non andrebbero definiti come “risurrezioni”; si tratta piuttosto di “reviviscenze”, fenomeni di ritorno alla vita di prima, dopo avere varcato la soglia dell’aldilà. E’ proprio questo lo sbaglio di prospettiva che Gesù rimprovera ai sadducei, che gli chiedono di chi sarà moglie, nel giorno della risurrezione, una donna che durante la sua vita ha avuto più mariti. Gesù risponde: “Non siete voi forse in errore, dal momento che non conoscete le Scritture? Quando risorgeranno dai morti non prenderanno moglie né marito… Voi siete in grande errore” (Mc 12,24-27). Evidentemente, i sadducei assimilavano la vita futura a quella presente, pensando che fossero uguali. Invece, dietro le parole del Maestro si intravede un ineludibile presupposto: la personalità dell’uomo e della donna, dopo la risurrezione, subiscono una profonda metamorfosi e, soprattutto, vengono sciolti dalle leggi naturali che vigevano nell’aldiqua. Perciò, dopo la risurrezione, non si genera e non si è generati, essendo completo il numero degli eletti (cfr. Ap 6,11); la vita di coppia, nel suo fondamentale servizio alla vita, non ha più ragione di esistere.
La garanzia della nostra personale resurrezione è data dal fatto che Cristo è “primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15,20). Chi ha creduto che Cristo è risorto, deve credere anche alla propria risurrezione, per il semplice fatto che Cristo non è risorto per stesso, ma “come primizia”, ossia per mettere noi in grado di risorgere con Lui. Tutti i gesti di Cristo sono fatti per noi; per se stesso, infatti, Egli non avrebbe avuto bisogno né di nascere, né di morire, né di risorgere. Alla sua pienezza non si può togliere nulla e nulla aggiungere, giacché è Lui che sostiene tutto con la potenza della sua parola (cfr. Eb 1,3). La risurrezione, come esperienza individuale e collettiva, è collocata dall’Apostolo in concomitanza con la parusia di Gesù: “Tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine” (1 Cor 15,22-24). Con la parola “fine”, nel linguaggio apostolico, si intende l’inizio di un nuovo e definitivo ordinamento cosmico: “sarà la fine, quando Egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni principato, potestà e potenza” (v. 24). La consegna del regno presuppone di fatto che ormai esso sia perfettamente consolidato. Il v. 25 lascia intendere che Cristo, con la sua personale risurrezione, ha dato inizio alla sua vittoria sulle forze delle tenebre, ma questa lotta non si concluderà se non con la risurrezione dell’umanità, in quanto: “l’ultimo nemico a essere annientato, sarà la morte”. Indubbiamente la morte è già vinta nel battesimo, ma con la risurrezione essa sarà annientata. Scomparirà per sempre dall’orizzonte dei viventi. Da quel momento in poi, “Dio sarà tutto in tutti” (v. 28). Questa breve definizione racchiude senz’altro il mistero dell’intimità totale con Dio, che l’umanità potrà sperimentare nella sua assimilazione alla vita trinitaria, cosa che costituirà la sua condizione eterna. La comunione che la Chiesa sperimenta in questo mondo è una realtà concreta, è un dono dello Spirito, ma è solo una realizzazione pallida e continuamente minacciata dalla forza disgregatrice del peccato. Inoltre, vi è la condizione corporea attuale, debole e caduca, e quindi incapace di ricevere da Dio una esperienza pneumatica che non sia adeguata alla debolezza del corpo mortale. La risurrezione ci libererà dalla debolezza del corpo terreno, dandoci un corpo glorioso: “Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà” (v. 36). Con questa similitudine l’Apostolo vuole affermare la sostanziale diversità del corpo terrestre rispetto a quello che ci viene dato da Dio nella risurrezione; non si tratta infatti, come si è già osservato, di ritorno alla vita di prima, ma di ingresso in una dimensione nuova, con un corpo adeguato alle leggi della creazione nuova, che sono diverse dalle attuali; e più avanti precisa: “Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso; si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale e risorge un corpo spirituale” (vv. 42-44).
Non deve però indurci in errore l’ultima definizione di “corpo spirituale”, facendoci pensare che l’anima e il corpo risorto siano la stessa cosa. Dopo la morte, la persona umana continua a sopravvivere nell’aldilà, avendo conosciuto senza veli l’amore di Cristo e al tempo stesso l’esito vero della propria vita terrena; il giudizio che segue all’istante della morte è la possibilità offerta all’io cosciente, privo del corpo, di rileggere la propria vita, e i suoi singoli particolari, in una luce di totale verità. Così la persona può prendere coscienza di ciò che la sua vita è stata, avendo frantumato, attraverso la lacerazione della morte, gli inganni e le menzogne che impedivano di interpretare fatti e persone nella luce di Dio. In sostanza, subito dopo la morte, Dio illumina la memoria della persona e la inonda con la propria verità, ed essa “comprende” la propria vita, vedendola, per così dire, con gli occhi di Dio. Inizia così la sua attesa della risurrezione, che si compirà con la parusia, nell’assunzione di un “vero corpo” che, se venisse paragonato alla materia pesante del corpo storico, sembrerebbe più simile allo spirito. In questo senso l’Apostolo parla di “corpo spirituale”. Infatti, la condizione dei risorti consiste nel portare “l’immagine dell’uomo celeste” (v. 49), cioè Cristo, dopo avere portato, nei giorni della vita terrena, l’immagine dell’uomo terrestre (Adamo).
Con questo corpo ormai forte e spirituale, Dio potrà essere “tutto in tutti”; sarà possibile cioè ricevere da Dio una comunicazione di se stesso molto più intensa e profonda di quanto non permetteva il “corpo animale” della vecchia creazione. L’umanità si troverà finalmente assimilata alla vita trinitaria in un modo nuovo e beatificante, nel quale anche il corpo, liberato dalle sue debolezze, potrà partecipare della pienezza dello spirito. Ciò comporterà un’intimità con Dio mai conosciuta prima; ma anche l’umanità stessa, nell’unità della trinità, conoscerà una comunione interpersonale piena, dove sarà impossibile conoscere ed amare qualcuno in modo esclusivo, perché tutti, nella comunione divina, saranno sentiti da ciascuno altrettanto intimi a sé senza differenze.
Il cristiano davanti alla propria morte
Il primo incontro dell’uomo con la morte: la morte come castigo del peccato
Il tema della morte viene affrontato subito, fin dalle prime pagine del libro sacro. Ma viene subito pure precisato che ciò non era previsto dal progetto creativo di Dio. Il libro della Sapienza, riflettendo sull’opera della creazione, dice che Dio “ha creato tutto per la vita” (Sap 1,14). Implicitamente si afferma che la morte dell’essere umano non era prevista né voluta da Dio. Nel libro di Genesi, in relazione all’albero della prova, è Dio stesso che svela all’uomo la possibilità della morte come conseguenza di un distacco da Lui: “nel giorno in cui ne mangiassi, certamente morresti” (Gen 2,17). Si comprende dal seguito del racconto che la morte dell’uomo non è determinata dal frutto dell’albero, bensì dal fatto che il gesto di mangiarlo pone l’uomo fuori dalla comunione con Dio: “Hai mangiato dell’albero dal quale ti avevo comandato di non mangiare?” (Ge 3,11). Adamo, però, non sa ancora che cosa sia la morte. Solo con la perdita di Abele egli capirà che essa è l’uscita dolorosa della persona dalla scena della storia, con la rottura violenta di tutti i legami di affetto che la univano agli amici e ai parenti. Ma soprattutto è un fenomeno che porta con sé un grande enigma: l’interrogativo sulla sorte e la destinazione di colui che è uscito dalla scena della storia. La domanda insomma sull’aldilà, sulla dimora dei morti e sulla loro condizione ultraterrena.
Nonostante ciò, la morte dei patriarchi è descritta sempre in un’atmosfera di serenità come un riunirsi coi propri antenati. La morte di Abramo è descritta infatti così: “Abramo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati” (Gen 25,8). Anche per Isacco troviamo qualcosa di simile: “Isacco, spirò, morì e si riunì al suo parentado, vecchio e sazio di giorni” (Gen 35,28). La morte di Giacobbe è narrata in maniera più estesa, con accenti particolarmente solenni. Dopo la riunione della sua famiglia con Giuseppe in Egitto, Giacobbe, sul punto di morire, chiede di essere seppellito non in Egitto ma nel sepolcro dei suoi antenati. Nelle ultime ore della sua vita, Giacobbe acquista una veggenza profetica che non aveva mai avuto prima e benedice i suoi figli svelando a ciascuno, anche se con parole arcane, il loro futuro. In questo contesto si ha la prima, velata profezia della nascita del Messia nella discendenza di Giuda; la benedizione di Giacobbe sul figlio Giuda suona infatti così: “Giuda, te loderanno i tuoi fratelli; davanti a te si prostreranno i figli di tuo padre… Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando dai suoi piedi finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli” (Gen 49,8-10).
Quello che però ci preme evidenziare è il modo in cui Giacobbe affronta la propria morte, perché è un atteggiamento gravido di significati per la morte del cristiano. L’atmosfera solenne che circonda la morte di Giacobbe indica chiaramente come non sia da sottovalutare o da banalizzare questo momento conclusivo della fase terrena. Sarebbe un grave errore rimuovere dalla propria memoria l’idea della morte, e vivere come se essa dovesse riguardare solo gli altri, col rischio di trovarsi impreparati, quando giungerà la nostra ora. Al contrario, la solennità di questo momento esige che esso sia lungamente preparato dal soggetto. La preparazione interiore alla propria morte, si svolge sul registro dello sviluppo della virtù carità. Infatti, quando la carità teologale ha raggiunto la sia perfezione, la persona vive già nella logica di perdere la propria vita per ritrovarla (cfr. Mc 8,35). Chi vive la propria vita nel tentativo di possederla, muore con la sgradevole sensazione di perderla; chi, invece, istruito dall’unico Maestro, vive la propria vita offrendola, muore con la gratificante sensazione di ritrovarla. E’ questa la morte dei santi, preziosa agli occhi di Dio.
Un altro particolare meritevole di attenzione è poi la disposizione di Giacobbe a morire benedicendo. Ciò implica che è molto importante caricare di sentimenti di pace e di riconciliazione l’esperienza personale della morte. Dalle profezie che Giacobbe pronuncia sui propri figli prima di morire si vede bene come la sua benedizione sia destinata a produrre degli effetti benefici nelle generazioni successive dei suoi discendenti. Dobbiamo allora dedurre che la propria morte può provocare delle conseguenze spirituali nella propria discendenza, a seconda se si muore santamente o meno, se si muore benedicendo o maledicendo. Questa misteriosa solidarietà dell’antenatismo è confermata dall’esperienza degli esorcisti, i quali sanno che la maledizione lanciata da un antenato può avere effetti sulle generazioni successive. Ma se questo è vero, dobbiamo dire che a maggior ragione la benedizione del morente estende i suoi benefici sui suoi discendenti. Anche Mosè, prima di morire, fa la stessa cosa (cfr. Dt 33,1).
La riflessione sapienziale sulla morte
Nella preghiera ebraica espressa dai Salmi incontriamo per la prima volta il tema della morte nel Salmo 16. L’orante si sente al sicuro nel favore di Dio e guarda al proprio sepolcro come a una dimora transitoria. Vivere nel favore di Dio è infatti una sicurezza e una grande protezione non solo per l’anima ma anche per il corpo: “anche il mio corpo riposa al sicuro” (v. 9). Ma c’è di più; al pensiero del proprio sepolcro, l’orante lo percepisce con chiarezza come una dimora transitoria: “non abbandonerai la mia vita nel sepolcro” (v. 10). Non a caso sarà proprio questo il Salmo citato dall’Apostolo Pietro in At 2, nel giorno di Pentecoste, per fondare biblicamente l’annuncio della risurrezione di Cristo. A questo punto, il Salmo 16 acquista un nuovo senso e una nuova validità per la morte del cristiano. Ogni cristiano può rileggere in queste parole la potenza della risurrezione di Cristo e intravedere, attraverso di esse, la propria libertà dalla morte: “gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (v. 11). Anche il Salmo 30 si muove nella medesima linea, dove l’orante è consapevole che l’azione salvifica più radicale è quella con cui Dio ci libera dalla morte: “Signore, mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito. Mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba” (vv. 3-4). Chi grida al Signore, ossia colui che è capace di preghiera, sperimenta dunque un modo diverso di morire, che consiste appunto nel morire dentro la libertà di Cristo. L’unico rischio che l’orante intravede è quello di appesantirsi nella prosperità e perdere la coscienza del proprio bisogno di essere salvato (cfr. v. 7). Infatti, l’esperienza della preghiera è possibile solo a partire da tale bisogno. Questo modo di morire è particolarmente gradito a Dio che non lascia mai i suoi servi senza soccorso: “preziosa ai suoi occhi, la morte dei suoi fedeli” (Sal 116,15).
Il tema della morte ritorna comunque in maniera più insistente nella riflessione dei saggi di Israele. Nel libro di Qoelet sembra addirittura un motivo dominante. Il grande interrogativo, insomma, su cui ruotano le riflessioni di Qoelet è, esplicitamente o implicitamente, la morte come fatto che rende problematica la vita. La fatica delle opere che si compiono sotto il sole ha bisogno di essere giustificata dalla risposta all’interrogativo sulla speranza: la bilancia della giustizia rimane quasi sempre pendente nell’aldiqua, e ciò richiama necessariamente una giustizia ultraterrena, che però Qoelet non conosce ancora. Bisognerà infatti attendere il libro della Sapienza per avere una rivelazione un po’ più chiara circa la retribuzione operata da Dio dopo la morte del singolo uomo.
Il pensiero della morte, nella riflessione di Qoelet, è dunque ancora avvolto nella penombra di una rivelazione parziale. Ci sono tuttavia elementi di verità che devono essere colti. Il primo dato notevole è la consapevolezza dello scorrere rapido di tutte le cose. All’inizio del libro l’autore descrive lo scenario del mondo in continuo movimento: il sole, il vento e i fiumi si muovono perennemente, ma in fondo ritornano sempre al loro punto di partenza, per poi ricominciare. Solo l’umanità, nel grande quadro della creazione, una volta uscita di scena non ritorna più; anzi, perfino il suo ricordo scompare: “Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito” (Qo 1,11). Sullo sfondo di questo pensiero tutte le cose anche più nobili che si sperimentano nella vita terrena si velano di sospetto ai suoi occhi: “Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Allora perché ho cercato di essere saggio? Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato” (Qo 2,15-16). Che Qoelet si muova ancora nella penombra risulta ovvio se si considera come il libro della Sapienza dovrà correggere questa opinione: “Nel ricordo della virtù c’è immortalità, per il fatto che è riconosciuta da Dio e dagli uomini. Presente è imitata; assente è desiderata, nell’eternità trionfa” (Sap 4,1-2). Era questo il tassello ancora mancante nella riflessione di Qoelet: il risultato ultraterreno della virtù esercitata sulla terra. Dall’altro lato, però, è profondamente vero quanto è affermato da Qoelet al capitolo terzo: “Per ogni cosa c’è il suo momento: c’è un tempo per nascere e un tempo per morire…” (vv. 1-2). Gli eventi e le circostanze umane non si verificano mai a caso e non sono mai una sequenza di fatti slegati: tutto risponde a un disegno prestabilito e intelligente, col quale Dio governa la vita di tutti.
Questa visione delle cose sarà ripresa dal Siracide: “Non c’è da dire: questo è peggiore di quello; a suo tempo ogni cosa sarà riconosciuta buona” (Sir 39,33-34). Ciò vale anche, ovviamente, per il momento in cui il cristiano è chiamato da questa vita all’incontro col Risorto. Chi vive nella grazia di Dio e si lascia guidare quotidianamente dalla volontà del Padre ha la certezza morale che tutto ciò che gli accade è studiato nei minimi particolari da Dio in vista della sua santificazione. Non così per coloro che escono volontariamente dal favore di Dio e costruiscono una vita a sistema chiuso, autonoma e autogestita. A questi accadranno certamente tante cose non volute né previste da Dio, e non tutte buone. Anche il momento della morte, ad ogni modo, va inquadrato in quell’insieme di circostanze orchestrate da Dio per la santificazione dei suoi servi. Solo di questi ultimi si può dire, con assoluta certezza derivante dalla fede, che la loro morte si verifica, e nel tempo e nelle circostanze, secondo la migliore delle possibilità. Ciò significa, in sostanza, che nessuno di coloro che vivono arresi alla divina volontà, può mai morire prima che abbia compiuto tutto ciò che Dio ha predisposto per lui. La frase conclusiva dell’agonia di Gesù, “tutto è compiuto” (Gv 19,30), va intesa anche come una via aperta, da quel momento in poi, a tutti coloro che credono in Lui, verso la pienezza della vita terrena, che si realizza nel compiere tutto ciò che Dio vuole da noi, finché c’è ancora tempo. Chi vive così vive in pienezza, e, soprattutto, muore con la coscienza di non aver tralasciato nulla di importante e di non avere sprecato il tempo breve e prezioso che abbiamo a disposizione tra la nascita e la morte.
Tornando al libro di Qoelet, notavamo la penombra della sua riflessione sulla morte, ma anche degli elementi di verità che non vanno taciuti. La fine del libro, a questo proposito, merita di essere menzionata. L’autore non ha ancora un’idea chiara dell’aldilà, tuttavia ha senz’altro chiaro il fatto che nessuno può morire bene, essendo vissuto male. Lo stile della nostra vita, portato avanti per anni, diventa come una seconda natura. Per questo, la conversione a Dio diventa tanto più difficile quanto più la persona si allontana dagli anni giovanili, anni in cui le strutture mentali sono ancora molto elastiche e perciò suscettibili di cambiamenti anche radicali. Ci sembra di poter leggere in questo senso le parole che aprono l’ultimo capitolo: “Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni in cui dovrai dire: non ci provo alcun gusto” (Qo 12,1). Dalle immagini allegoriche che seguono fino alla fine del capitolo si comprende che l’autore si sta riferendo alla vecchiaia. Va notato che l’autore non dice che la vecchiaia è il termine prima del quale occorre ricordarsi di Dio; piuttosto, è la giovinezza il tempo oltre il quale non bisogna attendere per convertirsi. Le metafore del decadimento psichico e fisico, che si accumulano lungo l’intero capitolo, lasciano intendere indirettamente che, quando le energie della persona sono indebolite dalla senilità, diventa molto difficile compiere quelle scelte profonde, che invece sarebbe stato relativamente facile operare, quando la persona era ancora in possesso di tutte le sue energie mentali e fisiche. Con ciò non si vuol dire che la conversione sia impossibile in tarda età; siamo infatti ben consapevoli dell’esistenza dell’operaio dell’ultima ora (cfr. Mt 20,1-16). Tuttavia, siamo consapevoli anche di un’altra parola pronunciata dallo stesso Cristo: “Se uno cammina di giorno non inciampa… ma se invece uno cammina di notte, inciampa” (Gv 11,9-10). Non tutti i tempi sono uguali tra loro, e non è lo stesso camminare di giorno o di notte. Vi sono delle cose che devono essere fatte mentre è giorno. L’indurimento delle strutture del pensiero umano con l’avanzarsi degli anni è un dato di fatto che certo non gioca a favore di quella profonda rivoluzione del cuore che è la conversione autentica a Cristo. Occorrerebbe davvero una virtù non comune, e un amore straordinario alla verità, per poter dire, in vecchiaia, a se stessi e agli altri: “fino a oggi ho impostato la mia vita sull’errore. D’ora in poi mi appoggerò alla verità di Cristo”. E’ relativamente facile a venti anni, e a settanta?
Il vero elemento di novità, a proposito della concezione della morte, si trova nel libro della Sapienza, scritto intorno alla metà del sec. I a. C. Qui fa capolino finalmente una rivelazione sull’aldilà che ancora non si era trovata nei libri dell’AT composti nelle epoche precedenti. Tale rivelazione consiste nell’affermare che ciascun uomo, subito dopo la propria morte personale – e dunque non solamente alla risurrezione finale – riceve da Dio una retribuzione immediata ed entra perciò nella beatitudine o nella perdizione. Al centro della riflessione del libro ci sta insomma più il destino individuale dell’uomo che quello del popolo nel suo insieme. Il punto di partenza è comunque costituito dall’affermazione che Dio non ha creato le cose in vista della morte. Anzi, la morte è del tutto estranea al disegno universale di Dio: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza” (Sap 1,13-14). Tuttavia la morte agisce nel mondo, avendovi fatto il suo ingresso “per invidia del diavolo” ( Sap 2,24). L’autore, però, precisa anche che fanno esperienza della morte solo gli empi, coloro che appartengono al diavolo, mentre per chi vive nel favore di Dio il morire è come deporre una veste. Infatti “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero” (Sap 3,1-2); parve che morissero: la morte dei giusti è insomma quasi un fenomeno apparente, è solo la scomparsa dalla scena visibile, ma non è una diminuzione di esistenza: “la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace” (Sap 3,2-3). Ciò però non deve indurre a pensare che essi non soffrano, e l’autore tiene a precisarlo, aggiungendo tuttavia che la loro sofferenza ha un grande valore agli occhi di Dio: “Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé” (Sap 3,4-5). La sofferenza dei giusti perciò non solo è un dato ineliminabile e costante della vita, ma in certo senso è necessaria, perché mediante la sofferenza i giusti diventano sempre migliori e più purificati, come l’oro nel crogiolo (cfr. Sap 3,6).
C’è ancora un altro elemento di novità che deve essere notato nella riflessione del libro della Sapienza a proposito della morte: la relativizzazione della lunghezza della vita. Nella mentalità veterotestamentaria, la speranza del pio israelita era quella di morire, a imitazione dei patriarchi, vecchio e sazio di anni. Era di conseguenza considerata una triste sorte quella di morire senza avere raggiunto la pienezza dei giorni di una vita umana. Il libro della Sapienza giudica inesatta questa convinzione, perché “Il giusto, anche se muore prematuramente, troverà riposo. Vecchiaia veneranda non è la longevità, né si calcola dal numero degli anni; ma la canizie per gli uomini sta nella sapienza e un’età senile è una vita senza macchia” (Sap 4,7-8). L’età anagrafica viene dunque relativizzata, perché sapiente non è chi vive a lungo, ma chi vive bene: “una giovinezza, giunta in breve alla perfezione, condanna la lunga vecchiaia dell’ingiusto” (Sap 4,16). In quest’ultimo versetto vengono ribaltate completamente le idee bibliche tradizionali: per l’AT i giovani non avevano voce in capitolo e solo gli anziani erano considerati sapienti per definizione, tanto che il profeta Geremia, all’inizio della sua vocazione, trova proprio nella sua giovane età un ostacolo per rispondere alla chiamata di Dio (cfr. Ger 1,6-7); per il libro della Sapienza, invece, il giovane può giungere in breve alla perfezione e un vecchio sciupare il proprio tempo nel vizio. Per l’AT, almeno nei suoi strati più antichi, l’uomo giusto era gratificato da Dio con una lunga vita, come appunto avveniva ai patriarchi; il libro della Sapienza prevede invece che un uomo possa avere una lunga vita anche se è empio. Ed è proprio in questo caso che la giovinezza sapiente condanna la vecchiaia stolta.
La riflessione del libro della Sapienza prosegue estendendo il suo sguardo nelle regioni dell’aldilà. In questa vita non bisogna attendersi l’equilibrio totale della giustizia. La retribuzione delle azioni umane si colloca, nel suo aspetto definitivo, al di là dell’orizzonte della storia: lì la ricompensa divina è sicura ed è destinata al giusto, indipendentemente dal fatto che in questa vita egli sia stato felice o infelice, onorato o disprezzato (cfr. Sap 5).
La morte del cristiano nel NT
Nel NT la morte dell’individuo appare del tutto liberata da ogni senso di ansia o di angoscia. L’insegnamento di Gesù, a questo riguardo, suona così: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28). Questo insegnamento rivolto ai Dodici riguarda innanzitutto le esigenze dell’evangelizzazione e la possibilità che alla testimonianza della parola si aggiunga anche quella del sangue; tuttavia, nelle medesime parole di Cristo, si intravede anche una disposizione di libertà che deve caratterizzare la vita di tutti i cristiani e non soltanto quella dei missionari: la libertà di chi ha messo la propria vita fisica nell’arbitrio di Dio, accettando di buon grado che Egli dia e tolga la salute, oppure decreti le circostanze della propria morte, secondo il suo beneplacito. Difficile libertà. Eppure il NT è chiaro nell’affermare che tale atteggiamento fa parte integrante della santità cristiana. Il cristiano è infatti un uomo libero nella misura in cui ha rinunciato a se stesso. Ebbene, la rinuncia a se stesso implica, tra le altre molteplici cose, anche il distacco dalla preoccupazione per la propria vita. La disposizione di libertà nei confronti della propria vita fisica, e la conseguente serenità dinanzi alla prospettiva della propria morte, si radicano in un particolare frutto della morte di Gesù, vissuta da Lui nella sensazione interiore dell’abbandono del Padre. Il grido di Cristo sulla croce, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mc 15,34), esprime il grido dell’umanità che sperimenta la morte nello stato di separazione da Dio. E’ infatti proprio questo il genere di morte che scaturisce come pena dal peccato originale. Se la morte per la creatura umana è sempre l’interruzione di una fase della sua esistenza, tuttavia non è mai la stessa cosa morire nel Signore o morire in stato di inimicizia, e quindi fuori dal suo divino favore. Cristo con la propria morte è disceso nell’abisso della separazione tra Dio e l’uomo, sperimentando – in forza di un mistero difficilmente penetrabile dalla nostra mente - Egli stesso come si muore lontani da Dio, pur essendo sostanzialmente unito al Padre nella sua divina consustanzialità. Una cosa però è certa: questa morte del Figlio di Dio ha eliminato l’abisso di separazione e ha trasferito l’uomo in un nuovo Eden, dove il dialogo con Dio è stato definitivamente riallacciato. Adesso è possibile udire il suo passo nel giardino senza più fuggire dinanzi alla sua maestà. Se l’uomo è stato reintrodotto nell’Eden, allora l’albero della vita è diventato di nuovo accessibile. Il suo frutto che comunica l’immortalità è l’Eucaristia. Anche su questo punto l’insegnamento di Gesù è del tutto esplicito: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Ciò significa che nessuno di noi sperimenterà la morte nella solitudine dell’abbandono di Dio, perché Cristo ha voluto morire Lui come l’Abbandonato, appunto per redimere l’esperienza della nostra morte, in modo da aprirci la via al morire nel Signore. Il libro dell’Apocalisse proclama beati d’ora in poi coloro che muoiono nel Signore (cfr. Ap 14,13).
Il libro degli Atti dimostra ampiamente come gli Apostoli, dopo la Pentecoste, perdono qualunque rimasuglio di paura a tutti i livelli. Anche la paura della morte, che li aveva spinti a fuggire dopo l’arresto di Gesù, sembra totalmente vinta dalla potenza dello Spirito. Gli Apostoli vanno alla prigionia e alla fustigazione, perfino lieti di essere stati “oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41). Il diacono Stefano muore lapidato, perdonando i suoi assassini (cfr. At 7,60). Paolo e Sila, in prigione, cantano inni a Dio e pregano, senza paura e senza scoraggiamento (cfr. At 16,25). E ancora Paolo, partendo da Efeso con la premonizione che quello sia il suo ultimo viaggio, saluta gli anziani della comunità locale dicendo: “So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla” (At 20,23-24). Queste parole non esprimono affatto una forma di disprezzo di sé, come a una lettura superficiale potrebbe sembrare; solo chi non conosce il cristianesimo può scambiare la libertà da se stessi con il cinismo. La libertà da se stessi, infatti, nella prospettiva evangelica è amore. Un amore così elevato che pochi sono in grado di capirlo. I più lo fraintendono. Dalle parole di Paolo traspare piuttosto un distacco completo dalla preoccupazione per la propria vita fisica, oramai totalmente subordinata al compimento della sua missione apostolica. Tale distacco, che è la stupenda libertà del cristiano, affonda la sua radice in quell’amore purissimo sintetizzato da Cristo nel comandamento nuovo (cfr. Gv 13,34).
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