lunedì 7 marzo 2011

La Fede


Nel NT, e in particolare nelle lettere di Paolo, le tre virtù teologali sono considerate come il fulcro dell’organismo soprannaturale. Vivere la propria vita in Cristo equivale a vivere secondo l’ispirazione delle virtù teologali. Ossia: le virtù teologali sono possibili, perché Cristo vive in noi. Ciò risulta chiaramente da 1 Ts 1,3 e 5,8; 1 Cor 13,13.
Cominciamo analizzando l’insegnamento biblico sulla virtù della fede. In senso panoramico e sintetico si può dire che:
- La fede del singolo sboccia nella comunità, e ciò avviene innanzitutto “per contagio”. Una comunità che vive bene la propria vocazione evangelica è contagiosa. In essa, il singolo battezzato si sente sollevato verso Dio, senza sapere come. Solo successivamente, egli sente il bisogno di chiarire, anche sul piano dottrinale, la fede ottenuta “per contagio”. Una comunità incapace di “contagiare” non trasmette la fede, ma solo opere e comportamenti.
- La fede deve crescere. Cristo ha detto chiaramente che i doni di Dio non sono distribuiti per essere sciupati ma perché vengano sviluppati (cfr Mt 25,14ss). Anzi, è un peccato di omissione l’avere sciupato la grazia di Dio e i suoi doni. La fede, che ci è data in embrione nel battesimo, ha bisogno di venire irrobustita. Qui subentra la responsabilità diretta del battezzato: è lui che deve decidere di mettere a frutto i doni di Dio. Nessuno può infatti deciderlo al posto suo. La Chiesa, la comunità, i sacerdoti ci aiutano a portare avanti con successo questa decisione, ma la decisione è unicamente di ciascuno.
            La fede cresce quando viene nutrita: Gesù spiega in privato le sue parabole ai dodici (cfr Mc 4,10-11). Questo significa che non si può rispondere in pieno alla grazia di Dio se si sconosce il pensiero di Cristo. La prima decisione di una coscienza retta è sempre quella di vedere chiaro. L’approfondimento delle Scritture è quindi essenziale perché la fede si irrobustisca. Quando la fede è autentica porta la persona ad amare la Parola di Dio. La persona di fede si distingue dai cristiani abitudinari per il fatto che tenta in tutti i modi di capire il suo Dio. In questo punto comprendiamo come la fede e la carità sono inseparabili. Il vero credente è teso nella comprensione del mistero di Dio con un’intelligenza che è amore. Quando manca l’amore che comprende è segno che manca anche la fede. Di conseguenza non ci può essere neppure la speranza teologale, giacché le tre virtù infuse sono inseparabili. Ne abbiamo un chiaro esempio in Geremia 15,16 e in Lc 24,32. La Parola di Dio scende nel cuore come un fuoco che riscalda, come una sostanza che sazia. Un altro riferimento significativo è Ap 10,10: il veggente mangia il libro della Parola di Dio e sente che è dolce al palato. Nelle viscere diventa invece amaro, cioè quando la Parola viene digerita e diventa l’orientamento della vita, allora si sente pure che è amara, per via della fedeltà a volte difficile, per via dei superamenti che chiede e per la statura morale che esige.
            La fede cresce quando si prega: la preghiera produce sempre una crescita della virtù teologali; il contatto con Dio spiritualizza sempre la persona. Quando Mosè scendeva dal monte, dopo essere stato a contatto con Dio, il suo volto era luminoso (cfr Es 34,29). Inoltre, poiché la fede è un dono, si deve chiedere a Dio (cfr Lc 17,5-6).
            La fede cresce quando è sostenuta dalla testimonianza della comunità: si tratta del contagio di cui abbiamo già parlato. Vedere che la vita degli altri è ricca di valori evangelici è un forte motivo di crescita, se non si cade nella trappola dell’invidia.

       La vocazione di Abramo
La figura più importante dell’AT a questo riguardo, e al tempo stesso la personificazione più completa di ciò che la fede è nella vita dell’uomo, è senz’altro rappresentata da Abramo. Non abbiamo qui intenzione di indulgere a questioni di ordine storico o geografico, perché ci preme unicamente il messaggio teologico che ne possiamo ricavare. Vorremmo infatti mettere in evidenza i caratteri della fede di Abramo, così come essi emergono dalla narrazione biblica.
            Il primo carattere da sottolineare è quello della fiducia: Abramo non si limita a credere, ma riveste questo suo credere con un sentimento fiduciale di abbandono. La fede e la fiducia non sono infatti la stessa cosa e talvolta vi può essere la prima senza la seconda; naturalmente non accade mai il contrario, cioè che vi sia solo la fiducia senza la fede. La fiducia di cui parliamo è indirizzata a Dio e perciò non potrebbe sussistere in mancanza della fede. Tuttavia, chi ha fede in Dio non sempre ha anche fiducia in Lui. La Scrittura è molto chiara a questo riguardo e non è difficile trovare delle citazioni che confermino questa prospettiva.

            La fede fiduciale
Che la fede in Dio abbia bisogno assoluto di accompagnarsi alla fiducia, è una verità palese fin dalle prime battute del rapporto con Dio, così come esse ci vengono riportate dai primi capitoli della Genesi. Ci riferiamo in particolare al capitolo terzo, dove la fede senza la fiducia sta evidentemente alla base del primo peccato dell’umanità. Osserviamo la dinamica del racconto.
            Ciò che conduce la donna verso la consumazione del peccato originale non è la mancanza di fede. Anzi, il peccato originale suppone la fede, tanto che esso non sarebbe stato possibile se i progenitori non avessero avuto la fede. La donna crede che Dio c’è, che è il creatore di quanto esiste, che è il legislatore, che è l’ideatore dell’ordine del mondo. La donna crede tutte queste cose. E ciò è fede. Nel dialogo col serpente, però, accade qualcosa dentro di lei, mentre la sua fede rimane intatta. A Satana, infatti, non interessa scalfire tanto la fede dei progenitori, quanto piuttosto il senso della divina paternità. Il gioco sottile del maligno, nella dinamica del peccato originale, non è stato quello di portare l’uomo a negare Dio, ma quello di cancellare l’abbandono fiducioso a Colui che fino a quel momento era stato visto dai due come il loro Padre. Il significato della proibizione di Dio si stravolge nella dialettica satanica e da una misura protettiva diventa, nella coscienza della donna, una ingiusta limitazione della sua libertà: “Dio sa che quando voi ne mangiaste…, diventereste come Lui” (v. 5). La donna comincia allora a pensare che Dio ha imposto all’uomo dei divieti non per tenerlo lontano da ciò che lo avrebbe danneggiato, ma per impedirgli di realizzarsi in modo pieno. Questa convinzione toglie alla fede il suo carattere fiduciale, perciò, anche se Dio continua a essere creduto come tale, cessa tuttavia di essere Padre. Se Dio è un antagonista, se è uno che sbarra all’uomo la strada della felicità, allora trasgredire i suoi comandi diventa una necessità di sopravvivenza. Questo è l’inganno satanico.
Nel corso della rivelazione biblica esso si presenta più volte. Anche Caino cade nello stesso sbaglio di sua madre: si irrita contro Dio, quando vede che le offerte del fratello Abele sono gradite ma le sue non lo sono. Egli crede in Dio (altrimenti non gli offrirebbe alcun sacrificio), ma non ha fiducia in Lui, come si vede dal fatto che gli attribuisce la “colpa” di gradire gli olocausti di Abele, senza chiedersi se per caso non fosse proprio lui a rendere inaccettabili le sue offerte. La sfiducia nel Dio in cui crede, lo porta a pensare male di Lui e a ribellarsi, tutte le volte che Egli dispone le cose in maniera diversa alle proprie aspettative.
Un altro caso di fede senza fiducia è quello di Saul, allorché, per avere una risposta che Dio non aveva dato, si rivolge a una maga (cfr. 1 Sam 28,3ss). Il re Saul non è un ateo, né un idolatra, né ha cessato di credere al Dio di Israele; ma il suo vero problema è che non riesce ad accettare con fiducia i decreti e le disposizioni di Dio a suo riguardo. Egli sente il bisogno di acquisire un certo controllo sul suo futuro, proprio perché non riesce ad abbandonarsi alla volontà di Dio e a quello che Dio vorrà fare di lui domani. Saul ha “paura” del suo domani, e questo è un sentimento che sconoscono coloro che hanno la fede fiduciale. La fede fiduciale porta la persona a giudicare infinitamente buono ogni decreto di Dio, anche quando le circostanze prendono una piega sgradevole, o quando addirittura il corso della vita viene cambiato da un evento non previsto né programmato.
            Un esempio di fede fiduciale, sempre nell’AT, è costituito dalla storia di Giuseppe (cfr. Gen 37ss). Egli non è mai descritto nella ricerca di appigli o sostegni umani, né quando viene espulso con l’inganno dalla famiglia, né quando viene messo in carcere in Egitto. In tutto il racconto non è mai riportata alcuna frase di Giuseppe improntata alla sfiducia. Tutto ciò che Dio decreta nella sua vita, viene accettato da lui incondizionatamente, ugualmente nella gloria e nel disonore. Alla fine del racconto, Giuseppe stesso esprime una valutazione straordinariamente positiva della sua vita tormentata: Dio ha tratto dalla sua sofferenza un beneficio per molti popoli (cfr. Gen 50,19-21).
            Nel NT ci imbatteremo ancora una volta in entrambi gli aspetti della fede: la fede senza fiducia e la fede fiduciale. Ma di questo tratteremo a suo luogo. Qui ci basti ricordare un episodio emblematico che è quello della tempesta sedata (cfr. Mc 4,35-41). Gli Apostoli sono sul lago insieme a Gesù e improvvisamente scoppia una tempesta. Gesù si era addormentato a poppa. Gli Apostoli lo svegliano e Egli placa la tempesta col suo comando. Subito dopo li rimprovera per la loro mancanza di fede (cfr. v. 40). Occorre capire bene qui di che fede si tratta. Infatti, se i discepoli hanno svegliato Gesù durante la tempesta, ciò significa che essi credevano che Lui potesse salvarli con un miracolo. Se non avessero avuto fede nel suo potere, non lo avrebbero svegliato. Eppure Gesù li rimprovera per la loro mancanza di fede. Bisogna allora precisare la questione nella maniera seguente: i discepoli in questo episodio mostrano di avere la fede in Cristo, nel senso che si attendono da Lui un intervento immediato, ma non hanno la fiducia in Dio, che dispone tutto con somma perfezione. Cristo avrebbe voluto da loro una fede che li facesse sentire sicuri in virtù della sua stessa presenza e non in virtù dell’attesa di un miracolo.
La fede fiduciale, nelle circostanze difficili e nelle tempeste della vita, non si esprime chiedendo a Cristo un intervento immediato di liberazione. Piuttosto: la fede fiduciale permette alla persona di restare saldamente in piedi, in mezzo alla tempesta, perché a essa basta sapere che Cristo è lì. La fede muove verso la richiesta di un intervento divino; la fede fiduciale ha già tutto, nel sapere che Cristo è lì con me, condividendo le mie lotte e le mie sofferenze. Anche se il suo intervento liberatorio non si verificasse nei tempi previsti da me.


            La fede come giustificazione
Il secondo carattere è quello della giustificazione: Abramo trova nel suo atto di fede la radice della propria innocenza davanti a Dio. Questo tema è ampio e delicato, e in questa sede non lo tratteremo se non a grandi linee. Inoltre ha profondi agganci con la teologia dogmatica, mentre a noi preme di più l’aspetto che interessa la spiritualità. In questa linea la fede come giustificazione ci si presenta come un atteggiamento equiparabile a un’opera. Infatti, davanti a Dio un’opera esiste anche se non è compiuta. Non solo esiste già quell’opera che non è stata ancora compiuta (nelle mente di Dio tutte le cose sono presenti), ma esiste anche quell’opera che non sarà mai compiuta e della quale ho tutti i presupposti interiori. Nel caso di Abramo, Dio gli dice: “Non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio” (Gen 22,12). Il sacrificio di Isacco non è stato compiuto né mai lo sarà, ma agli occhi di Dio, Abramo glielo ha già immolato. Lo stesso insegnamento ritorna sulle labbra di Cristo, a proposito dell’adulterio commesso nel cuore: “Chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,28). L’adulterio, come ogni altro peccato, esiste già agli occhi di Dio, nel momento in cui esistono tutti i presupposti interiori; del resto, che virtù è quella di chi non ha commesso un determinato peccato solo perché non ne ha avuto l’occasione? Ciò vale anche per i piccoli o i grandi eroismi: non è necessario averli compiuti; basta avere tutti presupposti i interiori, e per il Signore siamo già martiri o confessori della fede. Per questo, le opere hanno un valore da ridimensionare in rapporto alla salvezza. Ciò che Dio guarda non è la manifestazione esterna della nostra personalità (ossia le opere), ma le radici interiori che ci fanno essere quelli che siamo. Un’opera buona non è valida agli occhi di Dio, se è compiuta casualmente, per abitudine, senza le giuste motivazioni interiori. Un esempio solo per tutti: nessuno nega che la partecipazione alla Messa domenicale sia un’opera buona esplicitamente richiesta da Dio, ma per coloro che vi partecipano senza le giuste disposizioni interiori, anche se sono considerati da tutti come buoni cattolici, per il Signore possono essere dei sacrileghi su cui pende un severo giudizio. In definitiva, la fede, anche se non è accompagnata da un’opera precisa, è essa stessa un’opera  valida, quando la disposizione interiore è quella di un autentico, completo, personale coinvolgimento nel disegno di Dio. Su questo ci fermiamo, non essendo la sede adatta per sviluppare un discorso sulla giustificazione mediante la fede.

           

      La fede come fecondità
Il terzo carattere è quello della fecondità. La fede di Abramo da un lato è una disposizione interiore che ha il valore di un’opera (non ha immolato Isacco, ma i presupposti interiori c’erano tutti), e per questo, un tale genere di fede lo giustifica, ma dall’altro, c’è una particolare fecondità che scaturisce dalla sua fede. Dio gli promette infatti una discendenza innumerevole come le stelle e come la sabbia (cfr. Gen 22,17). La sua capacità di fidarsi di Dio gli conferisce una seconda esperienza di paternità. La sua prima paternità era quella fisica, limitata a un certo numero possibile di figli generati secondo la carne; lo stesso Isacco, figlio della promessa, gli nasce in un modo ancora legato alla debolezza e ai limiti della carne. Ma Dio non si accontenta di regalare ad Abramo questa paternità, già grande e bella in se stessa. Egli vuole che Abramo sperimenti anche un secondo tipo di paternità che si potrebbe definire “verginale”. Ogni cristiano che vive nella condizione coniugale è chiamato, esattamente come Abramo, a sperimentare i due livelli di fecondità, quello fisico e quello verginale. La forza di fecondità sul piano dello Spirito è appunto la fede teologale. Il libro della Sapienza, in una ulteriore e singolare evoluzione del pensiero giudaico, giunge ad affermare che “la discendenza degli empi non servirà a nulla” (4,5). Laddove tutto il pensiero veterotestamentario non aveva fatto altro che considerare una maledizione la sterilità, il libro della Sapienza considera una maledizione la discendenza, quando è empia. Allora è meglio essere senza figli. Ma proprio qui il testo allude alla possibilità di una fecondità spirituale derivante dalla fede: “Nel ricordo della virtù c’è immortalità… presente è imitata; assente è desiderata” (4,1-2).
In queste ultime parole, presente è imitata, assente è desiderata, si coglie il dinamismo della generazione di figli simili a sé nello spirito, perché la forza della virtù, trascina molti sulla propria scia, anche dopo che si è lasciato questo mondo. Chi vive la propria vita nella fede teologale genera prima di tutto i propri figli in questo secondo modo, e poi estende anche oltre i confini della propria famiglia la paternità e la maternità.


Il tema della fede nel cammino nel deserto
Il cammino nel deserto è il banco di prova della fede di Israele. Vedremo adesso quali caratteristiche ha avuto questa fede connessa all’esperienza esodale della liberazione. A partire dai primi interventi di Mosè ci sembra che la caratteristica più evidente della fede richiesta a Israele in vista della sua liberazione, sia l’accoglienza di una parola non confermata in modo immediato dalle circostanze. In sostanza, la parola della fede non può attendere alcuna dimostrazione a misura d’uomo per essere creduta. Essa merita fiducia in virtù di Colui che parla, non in base alle possibilità della sua dimostrazione. Nei Vangeli sinottici, come vedremo, questa caratteristica apparirà ancora più marcata nelle esigenze poste da Cristo ai suoi discepoli. Però, fin dall’esperienza esodale della liberazione, la fede appare come un atteggiamento che permette all’uomo di attraversare le contraddizioni della vita e le smentite delle promesse di bene, lasciando sempre un margine di attesa, in cui Dio possa intervenire a cambiare le cose, quando voglia e come voglia. Dio non interviene affatto nella vita della persona, quando essa, dinanzi alle delusioni della storia, sentenzia che il domani non porterà nulla di buono né di migliore. Questo atteggiamento preclude all’uomo qualunque esperienza autentica dell’azione di Dio.
            Tornando a Israele, dobbiamo registrare la stranezza delle circostanze concomitanti ai primi interventi di Mosè. Dopo il suo primo dialogo col Faraone e la richiesta di lasciar partire Israele (cfr. Es 5,1-5), vengono appesantite oltremodo le misure oppressive a scapito del popolo. Sembra proprio che l’intervento di Mosè abbia come primo risultato il peggioramento delle condizioni della schiavitù in cui versa la gente della sua stirpe (cfr. Es 5,6-14). Perfino Mosè si sente fortemente disorientato (cfr. Es 5,22-23). Il Signore lo invita ad attendere senza cadere nel pessimismo (cfr. Es 6,1). Qualcosa di simile accade qualche tempo dopo. Mosè si presenta di nuovo al Faraone; investito del potere carismatico, che Dio gli ha concesso per confermare la sua parola (cfr. Es 4,1-9), opera dei segni prodigiosi per dimostrare al Faraone di essere sostenuto dalla potenza di Dio. Pensa che la partita possa chiudersi lì, mentre invece i maghi d’Egitto, in un primo tempo, imitano alla perfezione, l’uno dopo l’altro, i segni che egli compie col suo bastone (cfr. Es 7,10ss). Vi sono però alcuni fenomeni che essi non possono riprodurre (cfr. Es 8,14). Ad ogni modo, la fede di Mosè deve misurarsi con l’indurimento del Faraone, in parte determinato dalle imitazioni dei maghi. Così, la promessa della liberazione sembra ancora una volta smentita dai fatti. Solo dopo la serie delle dieci piaghe, il Faraone li lascerà andare. Celebrano la Pasqua e partono nella notte.
            Dopo l’uscita dall’Egitto, si verifica un’altra situazione di grande significato teologico: l’esercito egiziano insegue il popolo e lo trova accampato presso il mare (cfr. Es 14,9). Qui la fede si rivela come la capacità di rischiare per il Signore, senza sapere in anticipo cosa Lui farà per noi, quando e come lo farà. Basta la certezza che Egli interverrà. Le nostre categorie umane, però, non sono in grado di prevedere in cosa consisterà il suo intervento. Israele è uscito dall’Egitto e si è inoltrato nel deserto. Dio, che a Mosè aveva talvolta svelato l’imminente futuro (cfr. Es 3,21-22; 4,21), non dice nulla su questo punto. Non gli anticipa alcunché sull’apertura del mare che salverà Israele da una sicura strage. Solo all’ultimo momento, Dio gli dice: “Alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo” (Es 14,16).
Il testo vuole dire che vi sono delle particolari guarigioni che hanno bisogno di una disponibilità a rischiare, pur senza sapere cosa Dio farà. In realtà il Signore, spesso ci libera sul campo mentre combattiamo, perché non è disposto a svelarci tutto in anteprima: ciò eliminerebbe lo spazio per la fede fiduciale, che a sua volta è parte integrante dell’esperienza di liberazione. Taluni non entrano nel campo di battaglia perché vogliono riposare su alcune garanzie; la fede esige tutt’altro comportamento. Dio non ci dice in anticipo che il mare si aprirà; ci chiede di fidarci di Lui nel compiere quelle cose impossibili che Lui stesso ci ha chiesto di fare.
La necessità del coraggio, come parte integrante della fede che opera liberazioni e guarigioni, si vede anche nel libro di Daniele. La risposta dei tre giovani al re Nabucodonosor è molto eloquente a questo proposito: “Sappi che il nostro Dio può liberarci dalla fornace… ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi” (Dn 3,17-18). Di fatto, il seguito della storia dimostra che Dio li ha preservati dal fuoco della fornace, ma essi non avevano la certezza che Egli sarebbe intervenuto; l’unica certezza che avevano era che Dio ha il potere di liberare i suoi servi, se vuole. Se poi interverrà, e come interverrà, è un affare che al discepolo non importa, né è affatto necessario averne una cognizione anticipata.
            Si potrebbe ancora citare il caso di Davide che va incontro a Golia con l’unica arma della sua fionda in un duello sproporzionato, senza avere avuto direttamente o indirettamente alcuna garanzia dell’aiuto di Dio. La sua serenità di coscienza consiste nella consapevolezza di non essere alla ricerca della gloria personale e di voler difendere un onore non suo: “Chi è mai questo filisteo incirconciso per insultare le schiere del Dio vivente?” (1 Sam 17,26). E a Golia dice: “Tu vieni a me con la spada… io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, che tu hai insultato” (1 Sam 17,45).
            Ma torniamo al cammino nel deserto. Qui la fede si presenta non soltanto come un atteggiamento di fiducia verso Dio, ma anche verso l’uomo di Dio, ossia la mediazione umana usata da Dio come strumento di salvezza. Questo concetto è di grande rilevanza teologica, perché è ciò che sta alla base della struttura sacramentale della Chiesa. Fa parte integrante del simbolo niceno-costantinopolitano l’articolo: “Credo la Chiesa” di seguito a quelli che esprimono la fede in Dio. In sostanza, l’atto di fede completo ha come oggetto Dio in quanto Dio e, inseparabilmente, anche gli strumenti umani che Egli si compiace di associare a Sé nella realizzazione del disegno di Salvezza.
            Tutto questo sembra già chiaramente anticipato nella fede richiesta a Israele lungo il cammino nel deserto. Il Signore non accetta che il popolo assuma un atteggiamento di sfiducia nei confronti di Mosè; anzi, considera un’offesa fatta a Se Stesso ogni atto di ostilità che colpisce il suo servo. Basta rammentare qualche esempio tra i tanti. Nel libro dei Numeri vi è un episodio in cui perfino Aronne e Maria dubitano della mediazione di Mosè: “Il Signore ha forse parlato solo per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?” (Nm 12,2). L’idea di fondo, senz’altro vera, è che lo Spirito di Dio non parla solo mediante un canale, ma mediante molti canali possibili. Il punto di osservazione che però falsifica una cosa vera consiste nella negazione che Mosè sia la guida accreditata da Dio fino alla Terra Promessa. I profeti e i veggenti possono essere molti, ma la decisione ultima spetta alla guida accreditata da Dio. Il Signore, infatti, si esprime in risposta alle parole di Aronne e Maria, dicendo che Mosè è “l’uomo di fiducia” (Nm 12,7) in tutta la sua casa. Nella vita della Chiesa tutto ciò si trasferisce nel ministero apostolico che si avvale anche, talvolta, di profeti e veggenti, ma la “parola” che guida il popolo cristiano sulle vie della storia non è quella dei carismatici, bensì quella del Magistero e della predicazione apostolica. Aronne e Maria hanno evidentemente confuso questi ruoli che sono diversi e sono utili finché ciascuno rimane nel posto che Dio gli ha assegnato.
            Qualcosa di simile accade in occasione della rivolta di Core, Datan e Abiram: anche qui l’autenticità della guida di Mosè viene messa in discussione e, come nell’episodio precedente, Mosè non fa nulla per difendersi; infatti è Dio che prende le sue difese manifestando la propria gloria.
            Un altro aspetto della fede del deserto, che anticipa ampiamente le esigenze del NT, è la fede che crede contro l’evidenza. La fede non può basarsi su ciò che si vede o su ciò che si dimostra; altrimenti la fede si assimilerebbe alla conoscenza umana. La fede è un genere di conoscenza che differisce sostanzialmente da tutte le altre conoscenze, appunto perché non solo non si appoggia sulla ragione, ma anche perché non cessa di essere valida quando sembra smentita dai fatti. L’episodio a questo riguardo significativo del cammino nel deserto è rappresentato dalle reazioni del popolo alla relazione degli esploratori che hanno fatto un giro di ricognizione nella Terra Promessa. La Terra appare ai loro occhi come straordinariamente ricca e fertile, ma i suoi abitanti sono alti come giganti. Chi potrà sconfiggerli? A questo punto la comunità di Israele viene afferrata dalla tentazione dello scoraggiamento e piange tutta la notte (cfr. Nm 14,1). Il Signore svela a Mosè di sentirsi umiliato da questa sfiducia: “Fino a quando mi disprezzerà questo popolo? Fino a quando non avranno fede in Me, dopo tutti i miracoli che ho fatto in mezzo a loro?” (Nm 14,11). Sono parole senza dubbio molto dure: la sfiducia verso Dio è un peccato di grandi proporzioni, al punto da equivalere all’atteggiamento del disprezzo.


            Cristo, autore e perfezionatore della fede (cfr. Eb 12,2)
Nei racconti evangelici si può dire che la fede abbia un ruolo di primaria importanza nell’incontro dell’uomo con Cristo; vale a dire: l’incontro col Cristo del vangelo è salvifico solo per coloro che sanno “credere” in Lui. Per coloro che non credono, la potenza infinita del Messia rimane come inerte. Sarà opportuno analizzare i singoli episodi più significativi.

            La fede nei vangeli dell’infanzia
Il tema della fede è già presente nei vangeli dell’infanzia, come a dire che tale virtù ha giocato un ruolo di primaria importanza non solo nella vita del Cristo adulto ma lo ha giocato pure prima della sua nascita; anzi, proprio la virtù della fede è quella disposizione umana che ha permesso la sua Incarnazione. Non è possibile equivocare le parole di Elisabetta: “Beata colei che ha creduto” (Lc 1,45). Infatti, senza la fede della Vergine Maria, Cristo non si sarebbe neppure fatto uomo. Quella fede che è stata necessaria per farlo nascere umanamente, continua a essere necessaria perché Egli realizzi il suo mistero in ogni battezzato. Così come è stata la fede di Maria ad aprirgli la via della nascita umana, così è stata la fede di Giuseppe a sottrarre il neonato Messia alla prima persecuzione scatenata dalla furia satanica, quella di Erode: nella notte un angelo del Signore apparve a Giuseppe e gli disse di fuggire; allora “Giuseppe, destatosi, prese il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto” (Mt 2,14). Il testo di Matteo non riporta nessuna perplessità o contestazione da parte di Giuseppe, dinanzi a una prospettiva così assurda: espatriare con una moglie e un bambino piccolo, lasciando la propria casa, il proprio lavoro, e ricominciare da capo! Non vi è alcun dubbio che dietro questa silenziosa e rapida ubbidienza non c’è solo il coraggio – necessario a tutti coloro che camminano col Dio vivente – ma anche la fede che non chiede di sapere tutto in anticipo. La voce gli aveva detto “parti” e Giuseppe “parte”. Dà per scontato che Dio, al momento opportuno, sorgerà di nuovo come il sole sui suoi passi. Ma a lui non spetta saperlo. Esattamente come Israele che esce dall’Egitto senza sapere in anticipo che il mare si aprirà. Giuseppe compie lo stesso tragitto ma all’incontrario: dalla Palestina in Egitto; per lui si sono capovolti i termini della storia: l’Egitto è il luogo della libertà, mentre il luogo della schiavitù è la terra promessa, che ormai non ha più alcun significato né può essere oggetto più di speranza dal momento in cui il Messia ha fatto la sua comparsa nel mondo, per guidare l’umanità verso la vera e definitiva liberazione. Adesso la Terra Promessa è il Regno dei cieli, mentre la terra promessa ai patriarchi è ormai solo un regno mondano, dominato dalle forze delle tenebre prima ancora che dall’Impero Romano.

            La fede durante il ministero pubblico
Un insegnamento veramente ricco sulla fede deriva certamente dalla vita pubblica di Gesù e dai suoi incontri con la gente in diversi modi bisognosa. La caratteristica comune a tutte le azioni salvifiche di Cristo è la fede dei destinatari. Gli evangelisti riportano con un senso di meraviglia l’esito del passaggio di Cristo a Nazaret, dove aveva trascorso la sua infanzia e la sua giovinezza: “E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità” (Mt 13,58); “E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6). Luca menziona in modo indiretto la quasi totale assenza di miracoli a Nazaret, mediante l’espressione che Cristo legge nei loro cuori: “Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!” (Lc 4,23). E’ evidente che la fama dei segni messianici si era diffusa e aveva raggiunto anche Nazaret, ma quando Cristo vi arriva non succede nulla di quanto si diceva di Lui. Da qui la perplessità dei nazaretani che si muta ben presto in ostilità aperta: “Si levarono e lo cacciarono fuori della città… per gettarlo giù dal precipizio” (Lc 4,29). Si ha qui l’immagine anticipata della Passione, quando Egli viene portato fuori della città per essere crocifisso. Anche la parabola dei vignaioli perfidi descrive la medesima scena: “E lo cacciarono fuori della vigna e lo uccisero” (Lc 20,15).
            A Nazaret non riescono a conoscere Cristo secondo la fede, perché pensano di conoscerlo troppo bene secondo la carne: “Non è Egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?” (Mt 13,55). Il Cristo secondo la carne è il Cristo conosciuto nella lettera della Scrittura, ma non incontrato nella potenza dello Spirito. Il Cristo secondo la carne è il Cristo conosciuto nelle consuetudini e nella tradizioni della chiesa locale, ma non accolto come Maestro che ci cammina accanto, svelandoci il mistero della nostra vita. Il Cristo secondo la carne è il Cristo rappresentato dall’istituzione e dalla burocrazia ecclesiastica, ma non compreso come Pastore che ci guida verso il compimento del disegno del Padre.
Nazaret  è dunque figura di tutti coloro che sono giunti alla conoscenza di Cristo solo attraverso canali umani, e pensano di conoscerlo già, ingannandosi; in realtà manca loro il coinvolgimento personale nelle energie divine dello Spirito Santo.
            Nei racconti evangelici, però, Nazaret è solo una delle tipologie offerte alla meditazione dei credenti. Vi sono altre tipologie che si collocano su un versante più positivo e contengono importanti elementi per la comprensione della virtù teologale della fede, e dal punto di vista di Dio e dal punto di vista dell’uomo. Cercheremo di mettere in evidenza le più rilevanti.
            Il Vangelo di Matteo riporta un episodio in cui Gesù rimane ammirato per la fede di un pagano: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande” (Mt 8,10). La medesima esclamazione è riportata nel passo parallelo di Luca in 7,9. Ciò che spicca maggiormente nella figura del centurione romano è l’aspetto fiduciale della sua richiesta. Il centurione rinuncia a verificare di persona l’intervento di Gesù sul servo ammalato: “di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito” (Mt 8,8). Questa rinuncia è senz’altro la ragione più profonda dell’ammirazione di Cristo, perché è anche la causa, sebbene in un’occasione diversa, di un rimprovero rivolto ai discepoli dopo la tempesta sedata. Un rimprovero che non si capirebbe, se non si capisse che la fede teologale non consiste semplicemente nel “credere” che Cristo può intervenire efficacemente nelle cose umane, ma esige anche la “rinuncia” al bisogno di corroborare la propria fede con la verifica dell’opera di Dio. Se analizziamo l’episodio della tempesta sedata, forse tutto risulterà più chiaro, sia l’insufficienza della fede dei discepoli sia l’eroismo della rinuncia del centurione. Dopo una giornata trascorsa nel ministero dell’insegnamento, Gesù sale sulla barca con i suoi discepoli per passare sulla sponda opposta del lago di Tiberiade. Qui si solleva all’improvviso una tempesta che getta le onde sulla barca. I discepoli svegliano Cristo, che nel frattempo si è addormentato a poppa. Una volta sveglio, gli basta un semplice comando e subito cessa la tempesta. A questo punto, Gesù si rivolge ai discepoli con una esternazione che lascia perplesso qualunque lettore attento: “Non avete ancora fede?” (Mc 4,40). Infatti siamo subito portati a chiederci: “Ma il fatto di averlo svegliato per essere salvati, non è già in se stesso un segno della fede dei discepoli? Certamente non lo avrebbero svegliato, se non avessero creduto che Egli poteva aiutarli. E allora in che consiste la loro mancanza di fede?”. Aggiungiamo inoltre che Gesù non rimprovera i suoi discepoli di avere poca fede, ma di non avere ancora la fede. Vale a dire: essi si trovano ancora al di qua (= non sono ancora giunti) delle esigenze della fede teologale. Nella medesima linea si muove il parallelo di Luca: “Dov’è la vostra fede?” (Lc 8,25). La convergenza di due vangeli ridimensiona di molto l’attenuazione matteana: “Uomini di poca fede” (Mt 8,26). Probabilmente Matteo ha colto la contraddizione legata al fatto che comunque gli Apostoli, se hanno svegliato Cristo per essere salvati dalla tempesta, ciò deve derivare dalla fede, che semmai potrebbe essere poca. Per questo gli sembra di dover attenuare l’espressione di Cristo. Gli altri due evangelisti hanno invece conservato quello che ci sembra l’insegnamento originario: gli Apostoli lo svegliano non perché hanno poca fede, ma perché non hanno ancora la fede teologale. Essi non hanno compreso che Cristo si è addormentato a poppa e non a prua; vale a dire: si è addormentato in quella parte della barca dove si trova il timone. Per chi ha la fede teologale è sufficiente che Cristo si trovi al timone della nostra vita, anche se a noi sembra che Egli lì non faccia nulla. Gli Apostoli hanno mancato di fede teologale, perché hanno voluto che Cristo intervenisse, quando a loro sembrava opportuno: “Salvaci, Signore, siamo perduti” (Mt 8,25); hanno mancato di fede teologale, perché hanno preteso di insegnare al Maestro, mettendo persino in dubbio il suo amore per loro: “Non ti importa che moriamo?” (Mc 4,38). Tenendo conto di tutto questo possiamo comprendere come mai Cristo giudichi il loro intervento una mancanza di fede; o, più precisamente, una fede molto umana – e dunque non ancora teologale - che ha bisogno di verificare l’azione salvifica del Signore, stabilendo in anticipo il tempo e la modalità del suo intervento.
            Alla luce di questo, comprendiamo adesso molto meglio l’ammirazione di Cristo per il centurione romano, capace com’è di attendersi dal Messia un’azione salvifica senza pretendere di determinarne il tempo e senza verificare di persona la sua attuazione. Il centurione si ritiene persino indegno di accoglierlo in casa sua, mentre gli Apostoli danno per scontato che Egli possa stare con loro sulla barca, anche se cominciano a dubitare di Lui – dubitare non della sua potenza, ma (il che è peggio) del suo amore - quando il suo intervento salvifico non tiene conto dei loro tempi. Il centurione si fida solo della parola di Cristo, rinunciando a vederlo presente e operante; ed è questa la disposizione che chiamiamo di “fede teologale”. La cosa ci colpisce tanto più, quanto più quella fede si riscontra in un pagano e non negli israeliti.
La guarigione del paralitico è un altro episodio evangelico di grande significato in relazione all’insegnamento sulla fede. Nel narrare questo miracolo di guarigione, gli evangelisti concordano su un inciso molto illuminante. La folla si accalca intorno a Cristo per ascoltare la parola di Dio e non c’è spazio per arrivare fino a Lui. Marco e Luca precisano, a differenza di Matteo, che il paralitico viene calato dal tetto nel punto in cui si trova Gesù. La guarigione è preceduta da una premessa che ricorre identica nei Sinottici: “Gesù, vista la loro fede…” (Mt 9,2 e Mc 2,5);  Veduta la loro fede…” (Lc 5,20). Ci colpisce questo plurale, soprattutto in considerazione del fatto che solo uno è oggetto dell’azione salvifica di Gesù. In sostanza, gli evangelisti concordano nel dire che Cristo ha agito non tanto per la fede del paralitico, quanto piuttosto per la fede delle persone che lo conducono ai suoi piedi, perché Egli lo guarisca. Non è difficile qui scorgere tutta una teologia della comunità cristiana, luogo di guarigione e di riconciliazione. Se da un lato è vero che la fede del soggetto è necessaria perché Cristo possa rivelarsi come Salvatore dell’uomo, dall’altro non è meno vero che la fede della comunità che prega può ottenere doni di grazia a chi la fede non ce l’ha ancora. Certamente qui si vuole affermare il primato della fede della comunità cristiana sulla fede del singolo uomo. Vale a dire: non c’è nessuno che può giungere alla fede singolarmente, se non nella fede della Chiesa. La fede teologale è, sì, un dono infuso direttamente da Dio nel cuore dei credenti, ma non indipendentemente dal ministero della Chiesa. Quella Chiesa che mi dà il battesimo, mi dà anche altre due cose, senza le quali il battesimo resterebbe come una energia inerte: i contenuti da credere e la testimonianza della comunità che mi contagia. Nella fede si matura, infatti, lasciandosi contagiare dalla testimonianza dei Santi, dalla vitalità della mia comunità, dalla esperienza di fede dei miei fratelli più anziani di cammino; nella fede si matura mediante l’insegnamento costante della Chiesa nella predicazione apostolica e nel suo Magistero ufficiale. In questo senso, dobbiamo affermare che se Cristo è il Mediatore tra l’uomo e Dio, la Chiesa è la necessaria mediatrice tra l’uomo e Cristo. Da Lei mi giunge la grazia dei Sacramenti e l’insegnamento sicuro sull’identità di Gesù. E’ in fondo questo il senso del dialogo con Pietro a Cesarea di Filippo: la gente può dire di Cristo quello che vuole, ma solo all’interno della comunità apostolica, rappresentata dal carisma petrino, risuona con esattezza l’insegnamento su Gesù: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Nella fede della Chiesa si conosce Cristo – e in Lui si conosce il Padre (cfr. Gv 14,7-9) -; nella fede della Chiesa, Cristo opera la salvezza del mondo.
            Il tema della fede ritorna nell’episodio a inclusione della risurrezione di una bambina e della guarigione dell’emorroissa. Matteo inizia la sua narrazione con la morte della bambina (cfr. Mt 9,18), mentre Marco e Luca iniziano con la richiesta di guarigione da parte del padre della bambina, giunta ormai agli estremi, che però morirà mentre Gesù si sta recando a casa sua. In questo frattempo si verifica la guarigione di una donna affetta da emorragie. La sua guarigione, come la risurrezione della bambina, è posta da Gesù in relazione alla fede. Alla donna appena guarita, Gesù dice: “Figlia, la tua fede ti ha salvata” (Mc 5,34). Al padre della bambina già morta, Gesù dice: “Non temere, continua solo ad avere fede” (Mc 5,36). Perfino dinanzi alla disfatta della morte, la fede continua ad avere il suo significato pieno, dopo che tutte le altre cose sono crollate.
Nel primo caso la guarigione avviene in forza della fede della persona stessa; nel secondo caso, la risurrezione della bambina avviene in forza della fede di un altro, che non è un altro qualunque ma è suo padre. Notiamo ancora che la guarigione dell’emorroissa ha una caratteristica peculiare: è una guarigione, per così dire, che viene strappata a Cristo. Molte guarigioni avvengono mediante un incontro della volontà dell’uomo con la volontà di Cristo, e alla fede del soggetto, Gesù aggiunge il suo “Lo voglio”. Le guarigioni di solito prendono le mosse da un incontro personale e intersoggettivo col Maestro. In questo caso, No. Cristo, in un certo senso, neppure se ne avvede. Sente una energia di guarigione che esce da Lui, come se il miracolo potesse essergli strappato dalla forza della fede dell’uomo, ancor prima che Egli dia il consenso della sua divina volontà. Questo non perché sia effettivamente possibile “rubare” il miracolo a Cristo, ma per dire che la potenza della fede autentica esercita una irresistibile attrazione sul Cuore di Cristo.
Un altro insegnamento sulla fede teologale si ricava dall’episodio di Pietro che cammina sulle acque  andando verso Cristo (Mt 14,22). Il punto focale del racconto è costituito dal giudizio di Cristo, che definisce Pietro, almeno in quella circostanza,  uomo di poca fede” (v. 31). Più precisamente, la fede di Pietro è in azione, finché egli cammina sull’acqua, a imitazione del suo Maestro. Il fatto che egli cominci ad affondare è già in se stesso una dimostrazione che la sua fede si è offuscata. Cristo stesso indica la causa dell’offuscamento: il dubbio che a un certo momento si è insinuato nel suo animo: “perché hai dubitato?” (v. 31). L’immagine di Pietro che cammina sulle acque verso Gesù è anche un simbolo del cammino cristiano. La meta è Cristo, ma la superficie su cui si cammina è solida soltanto per coloro che hanno la fede teologale. Qui si sottolinea che Pietro cammina sull’acqua finché il suo sguardo è rivolto a Cristo; ma quando si volge a guardare il vento e il mare, allora sprofonda: “per la violenza del vento, si impaurì” (v. 30). In diversi modi anche l’AT afferma la medesima verità; basti ricordare Osea: “Rette sono le vie del Signore, i giusti camminano in esse, mentre i malvagi vi inciampano” (14,10). La metafora è diversa, ma l’insegnamento è identico: per camminare spediti sulle vie del Signore non occorre che la strada sia percorribile in se stessa, occorre invece che chi la percorra abbia certe caratteristiche; infatti, solo i giusti possono camminarvi senza inciampare. E sappiamo dal NT che i giusti sono coloro che la fede ha giustificato. Dunque, la fede teologale mette in condizione la persona di camminare verso Dio senza inciampare. L’episodio narrato dall’evangelista Matteo aggiunge un particolare che acquista significato alla luce dell’apocalittica giudaica: il mare indica la minaccia del caos, ossia la potenza minacciosa delle tenebre che premono continuamente sui margini della creazione, per produrre il disordine e la morte laddove Dio aveva creato l’ordine e la vita. Il cristiano, impersonato qui dall’Apostolo Pietro, è descritto come uno che cammina sulle forze caotiche delle tenebre, che tendono a inghiottirlo mettendo in atto una precisa e studiata strategia: incutere paura per suscitare nel cuore del cristiano la sensazione di essere stato abbandonato da Dio in balìa delle forze del male. Se questa strategia riesce, il cristiano sprofonda, perché la paura, e il dubbio che ne consegue, colpiscono alla radice la fede teologale e ne scardinano la stabilità. Si comprende allora l’avvertimento di Giacomo: “E non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l’animo oscillante” (1,7-8). Non c’è alcun dubbio che vadano facilmente in fumo tutti i doni di grazia depositati un animo instabile. Dall’altro lato, Dio vuole dall’uomo una fiducia incondizionata in ogni circostanza. Proprio la fiducia incondizionata è ciò che apre a Dio lo spazio umano in cui operare le sue meraviglie. A Nazaret, Cristo avrebbe voluto compiere le medesime azioni salvifiche compiute altrove, ma non gli fu “possibile”, perché i suoi concittadini nutrivano verso di Lui dei pregiudizi e soprattutto tanta incredulità (cfr. Lc 4,24.28-29; Mc 6,5-6). Insomma, Cristo non opera e non si rivela se l’uomo non gli consegna incondizionatamente la propria fiducia: “Senza la fede è impossibile essergli graditi” (Eb 11,6).
            Stando così le cose, il sentimento dello scoraggiamento, che deriva dalla constatazione che le cose vanno in senso contrario rispetto alle proprie aspettative, è una disposizione d’animo manifestamente contro la fede. Infatti, scoraggiarsi equivale al pronunciamento interiore di una sentenza che giudica Dio come uno sconfitto; si scoraggia colui che si sente sconfitto dalla vita e che ha già chiuso la sua partita, decretando che Dio non possa più nulla. Questa disposizione di spirito, derivando dalla radice della incredulità, finisce per approdare a una reale sconfitta senza alcuna possibilità di rivincita, perché con l’incredulità e il dubbio si è sbarrata l’unica strada che Dio può percorrere per raggiungerci con la sua potenza e intervenire nella nostra vita. E’ certamente questo ciò che il Signore intendeva dire a Geremia nel giorno della sua consacrazione profetica: “Alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro” (Ger 1,17). Che altro può significare “altrimenti ti farò temere” se non “la tua stessa paura mi impedirà di fortificarti”? In altri termini: lo scoraggiamento non è ammesso mai, qualunque cosa accada nella nostra storia con Dio; anzi, è proprio lo scoraggiamento (o l’incapacità di fede) dei credenti la causa della prevalenza del male. Inevitabilmente il male prevale, laddove la forza della fede non lo argina e circoscrive. L’Apostolo Paolo, tra le molteplici difficoltà e lotte del suo ministero, può dire: “Per questo non ci scoraggiamo… il momentaneo peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2 Cor 4,16). La vittoria sul male non va dunque intesa “solo” come liberazione da esso, ma va intesa anche come trasformazione in gloria di tutti quei pesi molesti da cui non siamo stati liberati (cfr. 2 Cor 12,7-9).
Un episodio in cui la figura di Pietro tocca invece una disposizione positiva di fede teologale è quello della pesca miracolosa riportato dall’evangelista Luca in 5,1-11.
Secondo Luca, Gesù diede inizio al suo ministero pubblico nella stessa città in cui era cresciuto, e precisamente un Sabato, durante la liturgia sinagogale (cfr 4,16ss). Viene però respinto dai suoi concittadini. I primi atti del suo ministero li compie da solo, prevalentemente nelle sinagoghe (cfr 4,44). In 5,1 Gesù comincia a creare un’esperienza di vita comunitaria, chiamando i primi quattro discepoli. A questa chiamata si accompagna il miracolo della pesca miracolosa, che non è semplice dimostrazione dell’autorità che Cristo esercita sulla natura, ma è soprattutto la rivelazione dell’esigenza più radicale del Maestro: la sua Parola merita fiducia incondizionata, anche contro le evidenze. Questa fiducia incondizionata può essere data alla Parola di Cristo solo quando la mente del discepolo è vergine.

La pericope si può suddividere in tre sezioni e una conclusione.

I. L’insegnamento di Gesù presso il lago (vv. 1-3)
L’Evangelista non precisa i contenuti dell’insegnamento di Cristo; gli basta sottolineare che una folla numerosa si era radunata intorno a Lui per ascoltare la Parola di Dio. Il v. 3 si conclude sulla medesima immagine di Cristo nell’atto di ammaestrare le folle. Per ammaestrare la folla, significativamente, sceglie la barca di Simon Pietro.

II. Il miracolo in sé (vv. 4-7)
Il miracolo della pesca miracolosa è preparato dall’immagine di Cristo Maestro e non da una spedizione di pesca fallimentare. Solo dopo che Gesù invita Simone a prendere il largo per la pesca, si viene a sapere che la pesca durante la notte era stata sfortunata. Quindi l’invito di Gesù non è motivato da una richiesta di miracolo. Apparentemente, Gesù non era andato là altro che per parlare alla gente. Dall’altro lato, Pietro non sembra attendersi un miracolo: fa riferimento piuttosto alla propria conoscenza del mestiere “abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”. Semmai - e questo è ciò che caratterizza fin da ora Pietro come discepolo - non assolutizza le proprie umane certezze, e lascia sempre uno spazio all’Imprevedibile. Non, però, all’imprevedibile proveniente dal caso, bensì all’imprevedibilità di Dio, svelata e resa accessibile via via dalla Parola del Maestro.

III. La reazione dei discepoli (vv. 8-10)
La reazione dei discepoli è lo stupore. Lo stupore non nasce dalla pesca abbondante, ma dal fatto che la Parola di Cristo è efficace nella vita quotidiana ed è una forza che agisce in favore dell’uomo. In questo senso il cuore del discepolo somiglia a quello del bambino: quel che avviene nella vita quotidiana non è mai un fatto muto, ma un messaggio che deve essere letto e interpretato alla luce della Parola. Da qui lo stupore; dallo stupore nasce poi la preghiera di lode.
Lo stupore di Pietro è accompagnato anche da un riconoscimento della santità di Gesù, in concomitanza della scoperta della propria indegnità (cfr v. 8). Questa scoperta pone la persona umana nella verità di sé, che è la base di ogni conoscenza della Verità di Dio, come pure della autentica testimonianza. Infatti, solo a questo punto Pietro si sente dire da Gesù: “d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (cfr v. 10).

IV. Conclusione (v. 11)
Lasciarono tutto e lo seguirono”.
Inizia così il discepolato, quando la persona è divenuta libera da tutti gli ingarbugliamenti umani e da tutte le stupidate e le cose inutili che affollano spesso la nostra quotidianità. La nostra quotidianità stessa è in sostanza elevata di grado dalla Parola del Maestro, in forza della quale cessa ogni timore dell’ignoto e dalla quale viene riaperto il nostro orizzonte umano tutte le volte che si chiude sotto i colpi della vita. In questo senso il discepolo deve lasciare tutto; erroneamente si tende a credere che solo le persone consacrate “lasciano tutto”. In realtà, si deve pensare che tutti coloro che giungono alla “verginità della mente”, per ciò stesso lasciano tutto, vale a dire: smettono di considerare la parola umana come l’ultima parola pronunciabile.
            L’evangelista conclude dicendo che “lo seguirono”, e in realtà seguire Cristo non corrisponde a un movimento locale o fisico. Seguirlo significa appunto accogliere la sua Persona e la sua Parola come la realtà ultima e definitiva.
L’incontro di Gesù con la Cananea (Mt 15,21 e Mc 7,24), avvenuta nelle regioni di Tiro e Sidone, è un altro episodio denso di significati relativi alla necessità della fede e al suo carattere determinante nell’incontro col Signore. La narrazione prende le mosse dal grido della donna che invoca la potenza di Cristo non per se stessa ma per la figlia: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio” (Mt 15,22). Il testo parallelo di Marco non menziona la preghiera urlata della donna, ma la descrive nella sua prostrazione davanti a Gesù: “andò e si gettò ai suoi piedi” (Mc 7,26). Inoltre, Marco riporta direttamente la risposta di Gesù alla Cananea: “Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini” (Mc 7,27). Matteo, invece, precisa che Cristo ha mantenuto all’inizio un atteggiamento di indifferenza al grido della donna, e questa è stata la sua prima risposta: “Ma Egli non le rivolse neppure una parola” (Mt 15,23). In sostanza, la donna si trova dinanzi a due ostacoli di notevole grandezza: l’indifferenza di Cristo e l’esplicita discriminazione rispetto alla stirpe ebraica, destinataria dei beni messianici. Dall’altro lato, anche il lettore si trova dinanzi a una scena che lo disorienta: la descrizione di un Gesù totalmente inedito: indifferente al grido di dolore di una madre e chiuso alla prospettiva di beneficare chi non è discendete di Abramo. Evidentemente c’è qualche cosa di grosso dietro queste strane apparenze. E’ qui che bisogna scavare per portare alla luce l’insegnamento sulla fede. Infatti, l’intenzione che anima tutta la predicazione di Gesù è improntata a un universalismo senza confini. Ci deve perciò essere un motivo diverso che spinge Cristo a operare verso la Cananea un’apparente discriminazione. Ci sembra di dover ripartire dalla fine, per poter intravedere la misteriosa e divina pedagogia che qui il Maestro applica alla donna Cananea. Il dialogo tra Cristo e la donna siro-fenicia culmina in una lode che Egli le rivolge, una lode che contrasta nettamente con la sua indifferenza di prima: “Donna, davvero grande è la tua fede!” (Mt 15,28). Ecco a cosa tendeva l’apparente indifferenza di Gesù: vi sono guarigioni che non possono avvenire se prima non siamo portati dalla divina pedagogia a crescere nella fede mediante un superamento eroico di noi stessi. In realtà, nell’atto di respingerla, Cristo mette la donna nelle condizioni di giungere, in un arco di tempo relativamente breve, a un altissimo livello di fede. Indubbiamente si può dire che ha fede colui che non confida in se stesso e che attende da Dio i benefici necessari alla vita, ma molto più grande è la fede di colui che, sentendosi respinto e abbandonato da Dio, gli offre ugualmente la sua fiducia. Questi somiglia più di tutti al Cristo crocifisso, che si abbandona fiduciosamente nelle mani di Colui che apparentemente lo ha abbandonato in balia dei suoi nemici: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46). Non è possibile a una creatura umana glorificare Dio oltre questo punto: abbandonarsi fiduciosamente a Colui che apparentemente ci abbandona. La donna siro-fenicia ha saputo anticipare nel proprio atteggiamento verso Gesù, quello che sarebbe stato l’atteggiamento di Gesù crocifisso nei confronti del Padre: ha sperato fermamente in Colui che apparentemente la respingeva da Sé. A questo punto, la fede della donna ha raggiunto quindi il livello massimo possibile a una creatura umana, e non è neppure necessario che Cristo pronunci una parola di liberazione o un comando, perché è bastata soltanto la parola della donna, pronunciata dalle profondità di una fede così grande, a far fuggire Satana lontano dalla sua casa: “Per questa tua parola va’, il demonio è uscito da tua figlia” (Mc 7,29). Chi giunge a questa fede è quindi molto avanti nel suo pellegrinaggio verso Dio, e basta una sua parola a far fuggire il demonio. In questo episodio, in linea collaterale rispetto al tema della fede, si deduce abbastanza chiaramente come la vita spirituale di un genitore, la sua vicinanza o lontananza da Dio, abbia un influsso determinante sulla vita dei figli: si può dire che qui la sua bambina è liberata da lei, nel momento in cui assume la giusta posizione davanti a Cristo. Ad ogni modo, in questa sede è un argomento che non ci sembra opportuno sviluppare. Torniamo perciò al tema della fede.
            L’episodio della moltiplicazione dei pani, riportato da tutti e quattro gli evangelisti, ci ripropone il tema della fede. Va notato che prima di operare la moltiplicazione dei pani, Gesù ha operato molte guarigioni (cfr. Mt 14,14; Mt 15,29-31; Lc 9,11). Eppure, quando i discepoli si sentono dire da Cristo che bisogna sfamare quella folla, nessuno di essi pensa che Colui che aveva restituito la salute agli infermi, poteva anche procurare loro il cibo. Testimoni come nessun altro di segni e prodigi, continuano a fare riferimento a se stessi e ai propri mezzi: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci” (Lc 9,13).
La professione di fede di Pietro (Mt 16,13 e par.) rappresenta un momento cruciale per l’intero gruppo apostolico. Per la prima volta, dalla comunità dei discepoli si innalza una voce che definisce con esattezza l’identità di Gesù. In questo episodio, la fede si presenta come un dono del Padre, accanto ovviamente alla necessaria disposizione del soggetto umano. Cristo pone una domanda sulla sua identità, e la pone cumulativamente ai Dodici; ma solo Pietro risponde, evidentemente a nome di tutti, e questo particolare anticipa già il suo primato, annunciato poco dopo nella forma del potere delle chiavi. I vangeli di Marco e di Luca appaiono più sobri al confronto: entrambi omettono il primato di Pietro e riducono la formula della professione di fede petrina: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29), “Il Cristo di Dio” (Lc 9,20); La formula matteana è invece: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Luca, in particolare, omette anche il rimprovero di Gesù rivolto a Pietro, riportato invece da Matteo e da Marco.
            Nella redazione matteana, certamente più completa da ogni punto di vista, la fede teologale è presentata in primo luogo come fede della Chiesa. La domanda di Gesù: “Voi chi dite che Io sia?” (Mt 16,15), non è rivolta a un singolo Apostolo, ma contemporaneamente a tutti. Dopo che Pietro ha risposto, Gesù non interroga nessun altro. Ciò significa che la risposta di Pietro, Cristo la accoglie come se provenisse dall’intero gruppo apostolico. Nello stesso tempo, la conferma come l’unica esatta, in contrasto con le opinioni congetturali e contraddittorie della gente: “Beato te, Simone di Giona” (Mt 16,17). La professione di fede, nella sua più esatta formulazione, non può essere cercata all’esterno del gruppo apostolico e, di conseguenza, non può mai trovarsi fuori dall’ambito della successione apostolica. Chiunque si presenta ad annunciare un Cristo diverso da quello della tradizione apostolica, per ciò stesso, quantunque seducente e persuasivo, è un falso profeta. La fede è dunque innanzitutto fede della Chiesa, perché nessuno può arrivare alla conoscenza di Cristo e alla fruizione della sua Grazia se non attraverso la mediazione della Chiesa. E, più specificamente, della Chiesa apostolica. In sostanza, è possibile al singolo uomo, di qualunque epoca, giungere all’atto di fede in Cristo, attraverso l’istruzione e il contagio ricevuti dalla Chiesa. Tutto questo è sotto i nostri occhi ogni giorno, e non occorre diffondersi in ulteriori dimostrazioni; del resto, ciascuno di noi sa bene di essere arrivato alla fede dentro il grembo della Chiesa.
            La professione di fede di Pietro ha una caratteristica di grande significato teologico: non è il risultato di una deduzione mutuata dall’esperienza. Indubbiamente Pietro ha anche un bagaglio di esperienza non indifferente, essendo stato chiamato da Gesù nelle prime fasi del suo ministero. Ma non è da lì che attinge i dati per definire l’identità di Gesù. Ciò significa che, persino l’esperienza di massima intimità umana con Cristo, sarebbe stata insufficiente per cogliere la verità relativa alla sua divina Persona. Infatti, il mistero della sua identità è accessibile solo nella fede. Ciò fa sì che i contemporanei di Gesù non hanno alcun vantaggio, in ordine all’incontro salvifico e personale con Lui, su coloro che, essendo nati dopo, non lo hanno visto nei giorni della sua vita terrena. Perfino gli Apostoli non hanno vantaggio: Cristo o si incontra nella fede, o non si incontra affatto. Questo particolare dommatico risalterà soprattutto nelle apparizioni del Risorto, come vedremo.
            L’identità di Cristo, accessibile solo nella fede, può esser raggiunta in forza di un dono del Padre: “Nessuno può venire a Me, se non lo attira il Padre” (Gv 6,44). E’ in fondo questo il senso delle parole che Cristo rivolge a Pietro: “né la carne né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17). La fede è dunque innanzitutto un dono del Padre; preparato, sì, dalla disposizione umana dell’apertura del cuore, ma sempre un dono, non attribuibile al merito umano. La scoperta dell’identità di Cristo, che avviene in forza della fede, è strettamente connessa a un’altra cruciale scoperta: quella della propria vera identità personale. Solo nel momento in cui Pietro, illuminato da Dio, giunge a dire: “Tu sei il Cristo”, subito si sente rispondere: “E tu sei Pietro”. Prima, infatti, Cristo lo aveva chiamato col suo nome anagrafico: “Beato te, Simone figlio di Giona” (Mt 16,17). Adesso lo chiama con un nome nuovo: “Pietro”, a cui si aggiunge la scoperta di una vocazione che gli fa venire le vertigini: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa… Gli inferi non prevarranno contro di lei… A te darò le chiavi del Regno dei cieli…” (Mt 16,18-18). In forza della fede apostolica, donata dal Padre, Cristo dunque non è solo il rivelatore di Dio all’uomo, ma è anche il rivelatore dell’uomo a se stesso. In certo senso, in Cristo, ciascun uomo è restituito alla sua vera identità.
Dopo l’annuncio della Passione, Gesù si trasfigura su un monte alto, ma non davanti a tutti, bensì davanti a tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Alla discesa dal monte li attende un episodio piuttosto imbarazzante: un uomo ha chiesto aiuto ai discepoli rimasti a valle, a motivo del suo figlio posseduto da uno spirito immondo. Essi tentano di cacciare lo spirito ma non ci riescono. Nel frattempo arriva Gesù. Nella redazione matteana, al padre del ragazzo, che gli dà un resoconto dei sintomi e lo informa del fallimento dei suoi discepoli, Gesù risponde con una esclamazione: “O generazione incredula e perversa! Fino a quando dovrò sopportarvi?” (Mt 17,17). Il lettore rimane, però, incerto sul senso dell’allusione di Gesù all’incredulità, che è attribuita in modo diretto alla generazione dei suoi contemporanei, ma sembra al tempo stesso contenere la spiegazione del fallimento degli Apostoli nella liberazione del ragazzo. In quest’ultimo caso, il carisma di liberazione degli Apostoli ha fatto cilecca a motivo dell’incredulità; ma quale incredulità, quella degli Apostoli, quella del padre del ragazzo o entrambe contemporaneamente? Proseguendo nella lettura del medesimo testo, si arriva poi al punto in cui gli Apostoli chiedono a Gesù: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?” (Mt 17,19), e la risposta di Gesù è la seguente: “Per la vostra poca fede” (Mt 17,20). Poi, dopo avere enunciato la potenza della fede (cfr. v. 20), conclude: “Questa razza di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno” (Mt 17,21).
            Secondo Matteo la fede del padre del ragazzo non è quindi in gioco, ma solo quella dei discepoli, accanto a una insufficiente maturazione nel cammino della preghiera e della ascesi. Dobbiamo comunque rilevare che gli Apostoli hanno già sperimentato l’efficacia dei loro carismi di liberazione, al tempo del loro primo mandato missionario (cfr. Mt 10,1). Ci sembra allora chiaro l’intento di Matteo che in questo episodio vuole mettere in risalto come ci sia una grande differenza tra i carismi e la santità, e come l’azione dei carismi possa essere possibile anche in assenza della santità. Sebbene con molti limiti. Gli Apostoli hanno ricevuto direttamente da Gesù il carisma di liberazione, ma, non avendo ancora raggiunto la statura della santità (ciò sarà possibile solo dopo la Pentecoste), il carisma di liberazione può fallire, soprattutto in quei casi in cui sono in azione spiriti maligni di un certo calibro. Il vero potere sugli spiriti immondi non viene tanto dai carismi, quanto piuttosto dalla preghiera e dal digiuno, due termini che indicano la santità cristiana. I discepoli non ci sono ancora arrivati.
            La redazione di Marco riporta in modo identico la reazione di Gesù alle parole del padre del ragazzo (cfr. Mc 9,19), ma sottolinea il fatto che anche la fede del padre, se l’avesse avuta, avrebbe giocato un ruolo importante nella guarigione del ragazzo. Si vede dal breve dialogo riportato da Marco, che il padre del ragazzo la fede non ce l’ha: “Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci” (Mc 9,22); “Gesù gli disse: Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23). Il padre del fanciullo rispose: “Credo, aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24). Queste poche battute sono di grande pregnanza teologica. La liberazione della persona dalla potenza del maligno non dipende solo dalla preghiera della Chiesa. L’azione carismatica dei discepoli, oltre alla loro personale mancanza di santità, ha avuto anche un secondo ostacolo, nell’atteggiamento incredulo del padre del ragazzo; egli stesso lo confessa candidamente dinanzi a Cristo: “Aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24). E’ evidente che quest’uomo è approdato al gruppo apostolico come uno che sta facendo un ulteriore tentativo dopo tanti, per guarire suo figlio, ma non per autentica fede nel Messia: “Se tu puoi qualcosa, aiutaci” (Mc 9,22). Come nel caso della Cananea, la fede del genitore avrebbe avuto una grande forza di liberazione per il figlio. Inoltre, l’espressione di Gesù: “tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23) è in evidente parallelo con quella di analogo contenuto in Mt 17,20, sebbene lì è rivolta ai discepoli e non al padre del ragazzo. L’idea è parimenti sconcertante: chi ha fede partecipa della onnipotenza di Dio. Dall’altro lato, in Marco, il fallimento dei discepoli è spiegato allo stesso modo che in Matteo: i carismi sono una cosa, la santità è un’altra cosa. I discepoli hanno solo i carismi ma non hanno la santità, e per questo hanno fatto fiasco.
Il fico sterile (Mc 11,12-14 e 20-26; Mt 21,18) viene maledetto da Gesù nei pressi di Gerusalemme. Il tema della fede si connette anche a questo episodio. Analogamente all’episodio della Cananea, anche qui ci troviamo dinanzi a un Gesù inedito e imprevedibile nella sua reazione. Questo brano è riportato solo dai vangeli di Marco e Matteo. Quest’ultimo appare più sintetico e succinto, ma non si discosta dal racconto marciano. Ci riferiamo perciò al vangelo Marco come testo più ricco di particolari. In primo luogo occorre prendere coscienza della collocazione narrativa dell’episodio: Gesù ha fatto il suo ingresso in Gerusalemme accolto come Messia (cfr. Mc 11,1-11); la mattina seguente cerca dei fichi su un albero, ma non ne trova, quindi lo maledice (cfr. Mc 11,12-14); subito dopo entra nel Tempio e caccia via con violenza i venditori (cfr. Mc 11,15-19); la mattina seguente, passano accanto al fico e vedono che si è seccato fin dalle radici; a questo punto Gesù dà il suo insegnamento sulla preghiera (cfr. Mc 11,20-25), che corrisponde a quello dato in concomitanza con la liberazione del ragazzo indemoniato: tutto è possibile a chi crede (cfr. Mc 9,23).
            Partiamo dal presupposto, del resto ampiamente dimostrato nella nostra analisi del racconto della Cananea, che Cristo non assume mai atteggiamenti arbitrari o capricciosi; ciò non gli sarebbe conveniente, come non sarebbe conveniente neppure a qualunque uomo ragionevole. Se talvolta il Signore si comporta in modo che esula dai suoi atteggiamenti consueti, ciò avviene per un grande motivo o per un insegnamento particolare. Anche nella nostra vita, Dio agisce così: sappiamo che Egli non gode della nostra sofferenza, e perciò non possiamo pensare che la permetta senza un grande motivo. Quanto all’episodio del fico seccato, non c’è dubbio che esso abbia tutte le apparenze dell’arbitrarietà: non è neppure la stagione dei fichi! Ma proprio questo ci induce a indagare il suo significato più profondo. A tale scopo ci sembra di dover prendere le mosse dalla considerazione della struttura narrativa: l’episodio del fico si colloca tra due momenti del ministero di Gesù a Gerusalemme: l’accoglienza trionfale, da un lato, e i venditori cacciati dal Tempio, dall’altro. L’albero seccato sembra acquistare, da questo punto di vista, una particolare valenza simbolica. Gerusalemme e il Tempio sono rappresentati da un fico pieno di foglie; Marco dice che il fico “aveva delle foglie” (Mc 11,13) e aggiunge successivamente che “giuntovi sotto, non vi trovò altro che foglie” (v. 13); analogamente Matteo sottolinea che Gesù “non vi trovò altro che foglie” (Mt 21,19). Le foglie sono le acclamazioni esteriori che hanno accompagnato Gesù nel suo ingresso nella città santa, a cui non corrisponderà nessun frutto di autentica accoglienza del Messia. Il fico seccato indica perciò il destino di Israele. La valenza simbolica dell’albero è confermata dalla simbologia utilizzata dai Sinottici: fin dal suo primo annuncio Giovanni battista avverte che la scure è già posta alla radice dell’albero, per tagliare ogni albero che non porta frutto (cfr. Mt 3,10). Inoltre, notiamo che dopo l’episodio del fico seccato, viene riportata una disputa di Gesù con le autorità del Tempio, che culmina con la parabola dei vignaioli omicidi (cfr. Mc 12,1-12), dove si dice, tra l’altro, che il padrone inviò un servo a ritirare i frutti (cfr. Mc 12,2). Il significato simbolico del gesto è quindi molto chiaro.
            All’immagine del fico seccato, se ne aggiunge un’altra - come insegnamento collaterale -, che è quella del monte sradicato dalla preghiera fatta con fede (cfr. Mc 11,23); Luca utilizza un’immagine simile, ma in un altro contesto: “Gli Apostoli gli dissero: Aumenta la nostra fede! Il Signore rispose: Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe” (Lc 17,5-6). L’insegnamento è però il medesimo e non manca di produrre un senso di vertigine nel lettore credente. Tradurre in termini più concreti questo insegnamento di Gesù, sarebbe come dire che il cristiano, in forza di una fede autenticamente teologale, partecipa della divina onnipotenza. Gli esempi riportati da Marco e da Luca hanno un carattere paradossale (un monte sradicato e un albero trapiantato dove non potrebbe sopravvivere), ma il paradosso è funzionale all’affermazione che la potenza del binomio fede-preghiera solleva lo spirito umano al di sopra dei determinismi della natura. Vale a dire: qualora ciò fosse esigito da una ragione superiore, Dio sospenderebbe perfino le leggi della natura per la preghiera dei suoi servi. Questo tema non è nuovo, comunque, dal momento che si incontra anche nel libro della Sapienza (cfr. 19,6-21). L’idea di fondo è che l’uomo di Dio, guidato dallo Spirito, non può che chiedere, nella preghiera, ciò che è conforme alla divina volontà. Per questa ragione egli è ascoltato infallibilmente. Dio, infatti, ha legato la piena realizzazione dei suoi disegni alla libera risposta umana. La preghiera, fatta con fede, è una delle risposte che Egli attende per operare la salvezza.
Ci rimane adesso da considerare quale sia l’insegnamento sulla fede nel vangelo di Giovanni, che è rimasto finora ai margini della nostra analisi, avendo un carattere molto più astratto e contemplativo. Ci siamo infatti prevalentemente basati sugli aspetti più concreti degli incontri di Gesù. Passando al IV vangelo, dobbiamo innanzitutto osservare che qui la fede è concepita come la porta di ingresso nella vita eterna, che inizia già da questa terra, per coloro che, appunto, credono in Cristo. Il primo accenno al tema della fede, si ha nel contesto delle nozze di Cana, e precisamente a conclusione della pericope: “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cedettero in Lui” (Gv 2,11). Cristo è sempre l’oggetto diretto della fede dei discepoli, accanto al Padre e allo Spirito: “Credete in Dio e credete anche in Me” (Gv 14,1). Il Messia non è infatti separabile dal mistero di Dio. La finale delle nozze di Cana allude al fatto, già osservato nei Sinottici, che la fede è un dono di Dio; vale a dire: l’uomo è in grado di compiere un atto autentico di fede teologale non come iniziativa personale, ma come risposta alle stimolazioni della grazia; ossia come un atto consequenziale all’iniziativa divina. Ecco perché la fede dei discepoli è posta in seconda posizione rispetto alla rivelazione della sua gloria. Del resto, i discepoli hanno visto esattamente ciò che tutti gli altri hanno visto durante la festa di nozze, ma solo di loro si dice che “credettero”. Dono di Dio, sì, ma non senza una certa disposizione umana di accoglienza della grazia. Questa accoglienza incondizionata della grazia è appunto ciò che distingue i discepoli da tutti gli altri esseri umani. Sulla spinta interiore della grazia, a cui essi non oppongono resistenza, giungono alla fede teologale, e “vedono” così oltre le apparenze, distinguendo i “segni” del passaggio di Dio. Agli altri invitati, compreso il maestro di tavola, quel vino non diceva nulla, se non che era di ottima qualità. Ai discepoli, quel vino si presenta come un segno di rimando, ossia la manifestazione della gloria di Dio che splende su Cristo.
            L’insegnamento più immediato sulla fede, come porta di ingresso nella vita eterna, è esposto in poche battute a Nicodemo: “Chi crede in Lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel Nome dell’Unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,18). L’idea di fondo si potrebbe esporre come segue: l’umanità uscita dal peccato originale è accompagnata lungo la sua storia da un giudizio di divina disapprovazione; nessuno può giungere a piacere a Dio in forza delle sue opere. Gli unici che possono sottrarsi all’universale giudizio di condanna, sono coloro che hanno accolto nella loro vita il Salvatore dell’uomo. In grazia di Lui, sono liberati dal peso dell’antica condanna. Si potrebbe aggiungere che, da questo momento in poi, cioè dal momento in cui Dio ha “consegnato” il suo Figlio, tutta l’umanità è invitata a ricevere la vita da Lui, ma nessuno vi è costretto. Qui subentra l’esercizio del libero arbitrio e si apre lo spazio alla possibilità che l’uomo non si lasci salvare da Cristo. La perdizione non è dunque una sentenza pronunciata da Dio, ma è piuttosto una autoesclusione dalla salvezza, gratuitamente offerta da Dio in Cristo. Più avanti, attraverso le parole del Battista, viene specificato: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio incombe su di lui” (Gv 3,36). E ancora: “Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in Lui, abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,40).
Analogamente ai Sinottici, anche in Giovanni la fede è la forza che ottiene la guarigione: “Gesù gli risponde: Va’, tuo figlio vive! Quell’uomo credette alla parola che gli aveva detto Gesù… mentre scendeva, gli vennero incontro i servi a dirgli: Tuo figlio vive!” (Gv 4,50). Di nuovo, come in diversi altri casi, si tratta della fede del genitore che ottiene la guarigione al figlio. La nota specifica di Giovanni è che i miracoli possono rafforzare la fede, anche se non possono darla. Dopo il miracolo, si dice che credette con lui tutta la sua famiglia (cfr v. 53).
            In prossimità del segno più forte che Egli dà a Israele, cioè la risurrezione di Lazzaro, ritorna ancora un volta in primo piano il tema della fede; prima di compiere il miracolo, Gesù chiede a Marta una solenne professione di fede: “Io Sono la risurrezione e la vita; chi crede in Me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in Me, non morrà in eterno. Credi tu questo?” (Gv 11,25-26). E più avanti lo ribadice dinanzi alle resistenze di lei: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?” (Gv 11,40). La fede è necessaria perché il Messia operi la salvezza nella nostra vita.


            La fede teologale e le apparizioni del Risorto
Un posto a parte occupa la riflessione sulla fede, nei contesti delle apparizioni del Risorto.
            Il racconto della resurrezione inizia con la visita al sepolcro delle discepole: Marco cita Maria di Magdala, Maria, madre di Giacomo, e Salomè; Matteo, solo le prime due; Luca menziona Maria di Magdala, Giovanna e maria madre di Giacomo e Giovanni cita solo Maria di Magdala. Piccoli particolari comunque senza importanza, in ordine all’intelligenza del testo. Inoltre, i Sinottici menzionano anche le apparizioni degli angeli alle discepole, mentre Giovanni parla direttamente dell’apparizione di Cristo alla Maddalena. In ogni caso gli evangelisti concordano in un particolare che si dimostra veritiero, perché nessuno degli Apostoli lo avrebbe mai inventato: il Risorto appare prima alle discepole e solo dopo si rivela al gruppo apostolico. E questo certo non fa onore all’orgoglio del maschilismo ebraico: rammenta in maniera cocente la fuga degli Apostoli nel momento della prova e la fedeltà eroica delle discepole, che lo hanno seguito fino alla croce. Ma Cristo ha perdonato anche questo. Ha ritenuto tuttavia giusto che il gruppo delle discepole ricevesse per primo l’annunzio della sua risurrezione, insieme alla prima apparizione del Risorto (cfr. Mt 24,9). A esse ha dato il mandato di essere le apostole degli Apostoli: “andate presto a dire ai suoi discepoli: Egli è risuscitato dai morti e vi precede in Galilea” (Mt 28,7). Quale sia stata la reazione degli Apostoli ci viene detto da Luca: “Erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria madre di Giacomo; e anche le altre che erano con loro dicevano altrettanto agli Apostoli. Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non cedettero a esse” (Lc 24,10-11). Successivamente Cristo si mostrerà anche ai discepoli affidando loro un mandato apostolico dal respiro universale, dove il tema della fede emerge come disposizione necessaria per ottenere la salvezza (cfr. Mc 16,15-20 e Mt 28,16-20). In modo particolare, il testo di Mc 16 premette significativamente la fede al battesimo: “Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; chi non crederà sarà condannato” (v. 16). Ricevuto il battesimo, è la fede che lo rende efficace per la salvezza. La mancanza di fede, invece, anche in presenza del battesimo, sterilizza ogni dono di grazia. Infatti, la seconda parte del versetto dice semplicemente “chi non crederà sarà condannato”, senza menzionare affatto il battesimo. E’ quindi sufficiente l’incredulità, a prescindere dai sacramenti già ricevuti, per staccare la persona da Dio.
            I vangeli di Luca e Giovanni raccontano in modo più particolareggiato alcune apparizioni del Risorto. Già Marco dice: “Risuscitato il mattino del primo giorno della settimana, Gesù apparve prima a Maria Maddalena, dalla quale aveva scacciato sette demoni” (Mc 16,9). Ma occorre leggere Giovanni per avere il resoconto dettagliato di questo incontro.
Tra i testimoni della Risurrezione, Maria Maddalena è senza dubbio un personaggio cardine. Gli evangelisti la mettono in cima alla lista di coloro che si recano al sepolcro di Gesù di buon mattino:
Passato il Sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro” (Mt 28,1).
Passato il Sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salomè comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù” (Mc 16,1).
Il primo giorno dopo il Sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba… erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo” (Lc 24,1.10).
Nel giorno dopo il Sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio” (Gv 20,1).
Il nome della Maddalena, tra i testimoni della risurrezione, è dunque sempre il primo. Ma non è tutto qui. Maria di Magdala non vede solo il sepolcro vuoto, ma vede anche il Cristo Risorto e riceve da Lui il mandato di dire ai Dodici di averLo incontrato (cfr Gv 20,11-18). Pietro e Giovanni, invece, corrono al sepolcro, scoprono che è vuoto e credono. Ma il Risorto non lo incontrano subito. Lo incontreranno più tardi, ma prima dovranno credere al segno della tomba vuota (cfr Gv 20,8).
L’incontro della Maddalena col Risorto è un episodio estremamente ricco che arriva fino al cuore del discepolato. Quando Maria arriva al sepolcro lo trova vuoto. Due creature bianche le pongono una domanda: “Perché piangi?”. Domanda che le viene ripetuta poco dopo da un uomo che lei non conosce e che scambia per l’ortolano (cfr vv. 13.15). Il tema dell’orto-giardino unito a quello dell’ansia e della ricerca di un uomo che non c’è inquadra la figura di Maria Maddalena sullo sfondo della sposa del Cantico dei Cantici. Anche per il Risorto, come si vede in seguito, il ruolo di Maestro e quello di Sposo si sovrappongono formando un’unica realtà.
            Le due creature celesti che le parlano, la interrogano sulle ragioni del suo pianto, ma la loro presenza lì, e l’assenza del corpo di Gesù, sono segnali che indicano già che quel pianto è infondato. Maria, però, la cui mente è ancora appannata dalla sofferenza, non se ne rende ancora conto. La presa di coscienza della risurrezione risulta difficile anche per lei. L’impatto col Risorto avrà questa caratteristica anche negli altri incontri: il Cristo, Signore della gloria, non può essere riconosciuto dai sensi del corpo, nemmeno da coloro che hanno vissuto intimamente col Cristo storico. Adesso, nell’incontro con Lui, vale solo la fede. Gli angeli utilizzano, nel chiamarla, lo stesso appellativo che Gesù aveva usato per sua Madre, a Cana e sotto la croce. Ciò innalza la Maddalena a un livello rappresentativo: è l’immagine della comunità fedele, del piccolo resto che attende il Messia per unirsi a Lui nelle nozze escatologiche. Anche Gesù le si rivolgerà con il medesimo appellativo, ponendo la loro stessa domanda: “Donna, perché piangi?” (Gv 20,15). Gesù le appare dietro e non davanti. Maria lo vede solo quando si volta, anche se non lo riconosce. E ciò per dire che non è nella direzione della tomba che ella deve guardare, per incontrare il suo Signore. Infatti, quando lo riconosce, ella si volta del tutto, e volge le spalle alla tomba. Come ogni cristiano giunto a maturazione, ella non ha più davanti a sé la morte, ma la Vita.
            Il momento cruciale del discepolato della Maddalena si ha quando il Risorto la chiama per nome, “Maria!”, e lei Lo riconosce dalla voce e dal modo di pronunciare il suo nome (cfr v. 16). Era proprio questo quel che Gesù intendeva dire in Gv 10,4 a proposito del Buon Pastore: “Le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce”. Maria si rivela un’autentica discepola perché ha riconosciuto la voce del Maestro, anche se non ha riconosciuto il suo aspetto. Nella Chiesa, il Risorto parla sempre sotto aspetti diversi: solo i discepoli distinguono la sua voce da quella di chi si finge pastore ma non lo è. Il grido della Maddalena è carico di questo riconoscimento: “Rabbunì”, Maestro mio. Maria comprende quindi che la voce del Cristo risorto la chiama per nome e la chiama alla sequela. A questo punto c’è un gesto implicito di Maria, che l’evangelista lascia indovinare; riconosciutolo, si è slanciata per abbracciarlo nel tentativo di trattenerlo. Anche questo ci ricorda la sposa del Cantico (cfr Ct 3,4). Gesù le dice: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre” (v. 17). In sostanza, le ricorda che non è questo il tempo dell’unione definitiva con Lui. Questo è invece il tempo di evangelizzare, il tempo di faticare e di soffrire per la Chiesa. Le affida infatti una missione: “Va’ a dire ai miei fratelli…” (v. 17).
            La difficoltà del riconoscimento del Risorto caratterizza anche l’incontro coi due discepoli di Emmaus, citato solo per nome da Marco: “Dopo ciò apparve a due di loro, sotto altro aspetto…” (16,12), ma raccontato particolareggiatamente da Luca (cfr. 24,13-35).
            La scena si apre su due discepoli che camminano e conversano. Parlano tra loro degli eventi tragici consumatisi a Gerusalemme intorno al loro Maestro. Parlano di Gesù, ma senza Gesù. Ne parlano soltanto tra loro, senza l’illuminazione che procede dalla sua presenza di Risorto. Solo al v. 15 Cristo li raggiunge e diventa lo sconosciuto compagno di viaggio. “I loro occhi erano incapaci di riconoscerlo” (v. 16). Di nuovo emerge la medesima difficoltà che ha contrassegnato anche la fase iniziale dell’incontro con la Maddalena. Qui Luca coglie una profonda verità, dicendo che i loro occhi non erano capaci di riconoscerlo. Gli occhi del corpo, infatti, non servono per riconoscere la presenza del Risorto. Essi citano anche alcuni discepoli che sono andati a vedere il sepolcro vuoto, “ma Lui non l’hanno visto” (v. 24). Cristo svelerà la vera causa della loro incapacità al v. 25: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti!”. Si tratta dunque di un difetto del cuore nella sua prontezza ad aderire alla sapienza delle Scritture. Il tema delle Scritture ritorna in maniera forte nelle parole successive di Cristo, e ciò fa intendere che la giusta comprensione della Parola di Dio e la sua accoglienza nella fede, costituisce la lente necessaria per “vederlo”.
Il tema della conoscenza delle Scritture ritorna al v. 27: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro quanto lo riguardava in tutte le Scritture”. Qui il Risorto riconduce i due discepoli di Emmaus allo stesso punto dal quale erano partiti: il senso della morte di Cristo. Proprio di questo essi discorrevano, prima del suo arrivo. Ma ne parlavano “tra loro” come in un circolo chiuso, dove si ripetono all’infinito le stesse parole senza alcun risultato, in una conversazione a due voci non ancora aperta all’incontro col Terzo, lo sconosciuto compagno di viaggio. A queste condizioni, il loro parlare di Gesù è sterile in quanto non è un parlare con Gesù. Il mistero di Cristo, infatti, non si disvela a coloro che “sanno” parlare di Cristo, bensì a coloro che “sanno” innanzitutto parlare con Cristo. Analogamente, il senso più autentico delle Scritture si apre all’intelligenza di coloro che sanno leggerle non con un metodo a sistema chiuso, ma in perenne dialogo col Risorto. Cristo stesso vuole che si parli con Lui, prima di parlare di Lui. Per questa ragione, Egli si presenta ai due discepoli di Emmaus in un primo momento come uno che pone domande, mettendo in atto una pedagogia che spezza il circolo chiuso delle loro precedenti riflessioni: “Che discorsi sono questi?” (v. 17); “Che cosa?” (v. 19). Cristo fa in modo, in sostanza, che inizino a parlare con Lui di quegli stessi argomenti di cui parlavano “tra loro”. Questa volta, però, c’è una sostanziale differenza: le Scritture, spiegate da Lui, acquistano un sapore nuovo che fa ardere il cuore (cfr. v. 32). Vale a dire: la Parola di Dio, illuminata dallo Spirito del Risorto, è capace di parlare al cuore dell’uomo, facendo udire la sua eco nelle profondità dell’animo, e non solo nella mente. E’ una Parola che si dimostra efficace.
            Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, fece come se dovesse andare più lontano” (v. 28). Questa descrizione del Risorto tocca un’altra verità di grossa portata: Dio non è afferrabile quando si vuole, perché è un viandante. La possibilità di incontrarlo non è determinata dalla decisione umana, bensì dal suo passaggio, che l’uomo vigilante sarà capace di non sciupare. Inoltre, è perennemente vero anche questo atteggiamento di infinita delicatezza, per il quale Cristo non vuole imporre la sua Presenza ai discepoli, ma si ferma volentieri con loro, quando il loro amore lo trattiene: “Resta con noi, Signore”.
            In casa la sua autorivelazione giunge al culmine: “prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo distribuì loro” (v. 30). Solo a questo punto si aprono i loro occhi e finalmente lo riconoscono. Non c’è dubbio che questo sia il gesto dell’Ultima Cena, con cui Egli ha istituito il Sacramento dell’Eucaristia. I loro occhi lo riconoscono allora, perché la celebrazione eucaristica è il momento massimo dell’incontro tra il Maestro e i discepoli. E’ il punto più alto della possibilità di comunione con Lui. Il momento massimo dell’incontro con Cristo è però anche il momento massimo del suo nascondimento: “Ma Egli disparve ai loro sguardi” (v. 31). Nell’Eucaristia, Gesù è personalmente presente con il suo Corpo, ma sotto un aspetto talmente irriconoscibile che, per chi non ha lo sguardo della fede abbastanza allenato, è come se non ci fosse. Anche questo si inquadra nel mistero della nostra libertà: se Cristo si rendesse presente agli uomini col suo aspetto glorioso, tutti cadrebbero in ginocchio davanti alla sua maestà, ma non sarebbe un atto libero, e perciò non avrebbe alcun valore.
            I discepoli di Emmaus, avendo aperto gli occhi sulla presenza misterica del Risorto, si accorgono di non poterlo trattenere sotto il loro sguardo. L’incontro col Risorto, d’ora in poi, ha bisogno di passare attraverso l’oscurità della fede. I due discepoli allora ripartono subito: “Quindi si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme, dove trovarono gli Undici riuniti e quelli che erano con loro” (v. 33). La tristezza e la demotivazione sono completamente sparite dal loro animo. L’evangelista mette in rapporto di contrasto la tristezza iniziale dei discepoli, pur alla presenza di Cristo; alla sua prima domanda: “si fermarono col volto triste” (v. 17). Sono tristi per la morte di Cristo, ma Lui è lì davanti, sotto i loro occhi. Alla fine, dopo avere compreso le Scritture e avere partecipato alla mensa della Eucaristia, Egli scompare ai loro occhi ma è come se fosse rimasto con loro: essi riacquistano tutta l’energia e la gioia di vivere e di essere discepoli.
Una apparizione narrata da Giovanni, e di grande interesse circa l’insegnamento sulla fede teologale, è quella avvenuta nel cenacolo in assenza di Tommaso e poi ripetutasi alla sua presenza.
            In questo incontro del Risorto col gruppo apostolico si ha una vera e propria comunicazione del potere sacramentale di rimettere i peccati (cfr. Gv 20,22-23); quello di celebrare l’Eucaristia, consacrando il pane e il vino, lo avevano già ricevuto la sera stessa dell’Ultima Cena: nel dire “fate questo in memoria di Me” (Lc 22,19), ovviamente Cristo li aveva al tempo stesso abilitati a fare altrettanto, cioè a pronunciare quelle stesse parole sul pane e sul calice per la consacrazione.
            Nella apparizione, avvenuta nel cenacolo, Tommaso la prima volta non c’è. Gli altri Apostoli gli dicono: “Abbiamo visto il Signore” (Gv 20,25). Tommaso risponde: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi...” (v. 25). Si mostra dunque incredulo, ma è necessario soffermarsi un istante sulla natura della sua incredulità. Potrebbe sembrare che Tommaso intenda negare, con la sua incredulità, la realtà della risurrezione del Signore. Ma non ci sembra che la natura della sua incredulità sia questa. Infatti, non è nella risurrezione che non crede, bensì nel carattere testimoniale della fede. Il suo vero peccato contro la fede consiste nel non avere attribuito credibilità alla testimonianza degli Apostoli, su cui d’ora innanzi si fonderà la fede del popolo cristiano, fino al giorno del ritorno glorioso di Cristo. Tommaso dunque non crede alla testimonianza della Chiesa, lì rappresentata dal gruppo apostolico che unanimemente gli dice: “Abbiamo visto il Signore!”. La fede teologale non può assolutamente prescindere dalla sua dimensione ecclesiale e apostolica.
            Tommaso però è presente otto giorni dopo, quando Cristo ritorna a visitare il gruppo apostolico. In questa occasione, Tommaso è posto nella medesima condizione in cui vennero a trovarsi gli altri Apostoli in sua assenza, ossia l’esperienza dell’incontro diretto con il Risorto. Anche Tommaso, in quanto Apostolo, deve sperimentare l’incontro diretto con il Cristo corporalmente risorto. La Chiesa, infatti, nascerà sulla base della sua testimonianza. Egli deve comprendere perciò fin da ora che la credibilità dell’annuncio della risurrezione di Gesù non sta nella verifica del fenomeno, bensì in una fiducia piena accordata alla predicazione apostolica. Non solo. La possibilità stessa di credere in base alla fiducia nella parola dell’Apostolo, è una beatitudine: “Beati quelli che, pur non avendo visto crederanno” (v. 29). Una beatitudine che Cristo non ha concesso ai Dodici, ma solo a coloro che “per la loro parola crederanno in Me” (Gv 17,20). Dire a Tommaso: “perché mi hai veduto, hai creduto” (v. 29), non equivale tanto a mettere in evidenza la sua incredulità, quanto piuttosto a indicare una condizione comune ai Dodici. Essi annunciano infatti ciò che credono, ma in forza di una testimonianza oculare. Il popolo cristiano di tutti i tempi, crede nella risurrezione di Gesù, ma in forza della loro originaria e autorevole testimonianza, incondizionatamente accolta da ogni discepolo.


            Il carisma della fede differisce dalla fede teologale?
E’ una domanda a cui il lettore attento del NT non può sottrarsi. La prima lettera ai Corinzi menziona più volte la “fede” in un contesto che la inquadra nell’ordine carismatico. La domanda così come è formulata nel titolo richiede già di per sé una risposta affermativa: se esiste un dono “carismatico” della fede, esso deve differire necessariamente dalla fede teologale conferita al cristiano nell’istante stesso dell’amministrazione del battesimo. L’Apostolo cita il dono della fede carismatica in 1 Cor 12: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito… a uno il linguaggio della sapienza; a un altro invece il linguaggio di scienza; a uno la fede” (vv. 7-8). Il medesimo tema viene ripreso al capitolo successivo: “E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri… e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne” (v. 2). In entrambi i testi si parla della fede, ma non della fede teologale; infatti, la fede teologale è necessaria per la salvezza e come tale è data a tutti i battezzati. Qui si parla invece di una fede che non è di tutti e che non è quella fede che giustifica: nel primo caso, il dono della fede è esplicitamente posto in contrasto ad altri doni: “a uno viene concesso… a un altro invece…” (1 Cor 12,8); inoltre, nella premessa egli dice che Dio dà a ciascuno una manifestazione particolare dello Spirito, per l’utilità comune (cfr. 1 Cor 12,6-7), e tra essi la “fede”; ebbene, la fede, come virtù teologale, non è né una manifestazione particolare concessa a qualcuno, né è un dono per l’utilità comune, bensì in primo luogo per la giustificazione del peccatore. Così anche la menzione della fede nel contesto dell’inno alla carità, appare con una sfumatura carismatica, essendo posto accanto al dono della profezia e ai doni di conoscenza (cfr. 1 Cor 13,2). Non c’è dubbio quindi che Paolo, in questi due brani, attribuisca alla parola “fede” un significato diverso da quello che egli usa nelle lettere ai Romani e ai Galati. Non può essere la fede che giustifica quella di cui parla in 1 Corinzi 12 e 13. Inoltre, la definizione “pienezza della fede così da trasportare le montagne” (1 Cor 13,2) richiama le parole di Gesù in Mc 11,22-24: “Se uno dice a questo monte: Levati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato”. Questa fede di cui qui si parla non è la fede teologale, perché la fede teologale riguarda la salvezza individuale e non la possibilità di operare miracoli. Tommaso d’Aquino offre un’interpretazione che potrebbe essere assunta come l’orientamento verso una soluzione. Egli fa notare che l’Apostolo non parla semplicemente di fede, ma di “pienezza” della fede (cfr. 1 Cor 13,2). Anche il già citato testo di Marco fa leva su un atto di fede libero dal dubbio, e quindi più perfetto di quella fede mescolata alle ombre del dubbio, anche lievi. Si tratta allora di due diversi livelli della fede teologale: la fede ci introduce nell’ordine della salvezza anche quando è ancora imperfetta, mentre il raggiungimento di quella fede che rimane salda mentre tutto sta crollando – cioè quella fede che Cristo avrebbe voluto vedere nei suoi discepoli durante la tempesta del lago (cfr. Mc 4,35-41) – è già lo stadio della fede perfetta. Essa non garantisce più soltanto la salvezza personale, ma diventa la base su cui il Signore può operare miracoli mediante un suo servo, per confermare la veridicità della sua testimonianza (cfr. Mc 16,20). Ciò significa che tale fede “perfetta” si può trovare nel battezzato in due casi: il primo è il caso di un cammino di santità profondamente maturato, il cui processo di purificazione ha eliminato ogni ombra dall’interiorità del discepolo; sulla base di questa fede “perfetta”, Dio conferma la testimonianza del suo servo con i “segni” che Lui ritiene opportuno produrre. Il secondo caso è invece quello di chi, pur senza avere raggiunto i vertici della santità cristiana, riceve da Dio il dono carismatico, poniamo, delle guarigioni. Ebbene, ogni volta che questo dono sarà operante in lui, Dio gli darà, solo per via carismatica e con una durata momentanea, quella fede “perfetta” che i santi posseggono abitualmente, e con la quale essi, pur senza avere particolari doni carismatici, possono compiere miracoli.















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