La Carità
Anche l’amore teologale (come tutte quelle idee sul cristianesimo prodotte dai pregiudizi), nel pensiero del battezzato medio, è spesso frainteso. Comunemente, la parola “carità” si associa all’idea di assistenzialismo. In altre parole, si assimila la carità cristiana all’impegno verso i bisognosi. Alla luce della Parola di Dio, questa associazione si rivela errata. La carità teologale non è un’opera in favore dei poveri.
Alle sorgenti dell’amore (1 Gv 4,7-21)
L’Apostolo Giovanni ci dice con chiarezza in cosa consiste la carità: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi” (1 Gv 4,10). Ciò significa che per intendere la carità teologale non bisogna pensare tanto all’amore che dona, quanto all’amore che riceve. La carità teologale consiste infatti non nell’amare, ma nell’essere amati. Più precisamente, l’amore teologale comincia quando abbiamo sperimentato e sentito che Dio ci sta amando. In sostanza, la carità teologale ha la sua sorgente nel percepire di essere amati da Dio.
Di conseguenza, la nostra capacità di amare non deriva dalla decisione di amare gli altri, ma dalla gioia di sentirsi amati da Dio. Questa è la condizione basilare perché l’amore non si arrenda dinanzi all’ingratitudine o dinanzi a qualunque mancanza di amabilità. Chi percepisce di essere amato da Dio, si sente già pieno di questo amore, e non ha bisogno di raccogliere consensi intorno a sé per sentirsi bene con se stesso.
Da queste premesse, dobbiamo concludere: l’amore teologale è innanzitutto un amore che riguarda Dio; vale a dire: la carità teologale è l’amore col quale Dio ama la singola persona.
Solo chi si sente amato può amare
Ancora nel quarto capitolo della sua prima lettera, l’Apostolo trae una ulteriore importante conseguenza: il fatto che taluni hanno l’impressione di non essere capaci di amare, o pensano di avere una limitata capacità di accettazione del prossimo, dipende semplicemente da questa causa: sono deboli nell’amare perché non hanno ancora capito quanto sono amati. Si esprime così infatti al v. 19: “Noi amiamo, perché Egli ci ha amati per primo”. Insomma, vuol dire che solo se mi sento amato, posso avere la sicurezza sufficiente per correre il rischio dell’amore. Di fatti, proprio così si esprime il v. 18: “Nell’amore non c’è timore, al contrario, l’amore perfetto scaccia il timore”.
Chi ama Dio e odia suo fratello è un mentitore (1 Gv 4,20)
Alla fine del capitolo, l’Apostolo Giovanni approda all’unificazione dei due amori: da un lato ci si sente amati da Dio e si diventa così capaci di amare il prossimo; dall’altro l’amore del prossimo è inseparabile dall’amare Dio. Anzi, è la prova dell’avere conosciuto Dio la capacità di parlare cinque minuti con una persona senza ferirla. Quale poi sia l’equilibrio tra questi due amori, Giovanni non ne parla. Ne parla il Vangelo, come vedremo.
I volti della carità teologale
Il NT è abbastanza esplicito circa le manifestazioni della carità, come lo è per quelle della fede. Nell’insegnamento di Gesù, come nel suo modo di essere uomo, si possono facilmente delineare tutte le sfaccettature di uno stile di vita che caratterizza il cittadino di un altro regno.
L’equilibrio dell’amore
La carità teologale produce un primo e basilare effetto nella vita del battezzato che può chiamarsi riequilibramento della capacità di amare. E’ quello che Gesù lascia intendere al dottore della Legge che lo interrogava sul comandamento più importante (cfr Mt 22, 34ss). Nel momento in cui Dio è amato più di tutto, gli altri amori assumono la loro vera posizione. Il che significa imparare ad amare ciascuna realtà nel suo ordine, senza che il proprio cane sia amato più di una persona umana e senza che una qualsiasi creatura sia amata più di Dio. Questo amore equilibrato Gesù lo chiede esplicitamente a Pietro, quando gli affida la comunità cristiana (cfr Gv 21,15).
Il superamento dell’esclusivismo
L’esclusivismo è una caratteristica normale dell’amore umano, ma esce fuori dal quadro della nuova creazione. L’insegnamento di Cristo indica chiaramente al discepolo la meta di un amore capace di superare ogni genere di confine. Per questa ragione, al dottore della Legge che lo
interrogava sul senso della parola “prossimo” (cfr Lc 10,25ss), Gesù presenta due figure che fanno saltare tutte le categorie giudaiche: un uomo, di cui non si sa la provenienza né la nazionalità (v. 30) e un samaritano (v. 33), detestato dai Giudei. Il superamento dell’esclusivismo culmina poi nella disposizione di benevolenza verso i propri nemici (cfr Lc 6,27ss), cosa che rappresenta il tratto peculiare e irripetibile dell’amore teologale.
Il superamento della strumentalizzazione
Un’altra manifestazione dell’amore umano, bisognoso di essere illuminato dalla Grazia, è la tendenza, non sempre consapevole, a strumentalizzare il prossimo, ossia ad amare gli altri a motivo di se stessi e non a motivo della loro autentica felicità. Cristo ha corretto questa tendenza molto umana mediante l’icona del Maestro che lava i piedi ai suoi discepoli: “Se io, Maestro e Signore, ho lavato i vostri piedi…” (Gv 13,3ss). Il Maestro non usa gli altri per ottenere benefici per sé, ma vive in funzione della felicità degli altri. L’amore teologale è insomma un esodo da se stessi senza ritorno. Chi vive perché gli altri siano felici non ha più la voglia di interrogarsi circa i propri bisogni personali. Questa maniera di amare riempie così tanto la propria interiorità che a un certo momento sembra meschino fermarsi a pensare a se stessi e ai propri eventuali bisogni. Il Cristo storico ha amato così e ha esplicitamente chiesto ai suoi discepoli di fare altrettanto: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come Io vi ho amato” (Gv 13,34).
La cessazione delle aspettative
Gesù disapprova i Farisei in molti aspetti del loro operato. Tra tutte le altre cose, Egli li rimprovera di avere troppe aspettative: fanno l’elemosina, e si aspettano la lode degli uomini (cfr Mt 6,2), pregano in modo da essere visti (v. 5), digiunano facendo in modo che gli altri se ne accorgano (v. 16), vanno in piazza e si aspettano di essere salutati (Mt 23,7), vanno al Tempio e si aspettano la benedizione di Dio sulle loro opere di giustizia (cfr Lc 18,9-14).
A questo stile di vita privo di vera libertà, perché condizionato dalle risposte del prossimo, Cristo contrappone uno stile di vita fondato sulla gratuità: “Se amate quelli che vi amano, che merito ne avete?” (Mt 5,46). In questo modo la persona si libera da ogni attesa di ritorno, e se ha qualcosa da fare, la fa perché ci crede, o perché vale la pena di farla, o perché dà gloria a Dio. Questo modo di amare è inoltre il sigillo della figliolanza: “… perché siate figli del Padre celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (v. 45).
La carità teologale, sorgente dell’evangelizzazione
Il frutto più bello dell’amore teologale, e del modo di amare secondo la nuova creazione, è l’ansia della evangelizzazione. Se lo sviluppo del dono battesimale dell’amore pone il battezzato al servizio della felicità degli altri, ciò avviene in modo equilibrato e ordinato. Al paralitico calato dal tetto Gesù prima perdona i peccati e poi restituisce la salute fisica. Vi è dunque un ordine di procedimento nel ricercare la felicità del prossimo. Il primo pensiero deve perciò andare all’annuncio del Vangelo, primissima ed essenziale carità. La responsabilità dei credenti nei confronti del mondo è infatti proprio questa: fare uscire Cristo dalla Chiesa verso il mondo. La massima felicità dell’uomo è infatti quella di conoscere Dio. Ritrovare se stessi nel quadro della paternità di Dio è l’esperienza più radicale e più profonda di guarigione. Per questo, Gesù collega all’annuncio del Vangelo anche il ministero di guarigione. Naturalmente, l’evangelizzazione non si fa con le parole, ma con la propria vita trasformata. Da qui la necessità che il cristianesimo sia “un cammino” e non “un posteggio”. Solo chi cammina, cambia, si trasforma, e diventa credibile davanti alla Chiesa e davanti al mondo.
Il concetto di carità nell’AT
Le sezioni legislative del Pentateuco, accanto alle esigenze della giustizia sociale, conoscono anche una delicata attenzione alla persona umana, che può inquadrarsi senz’altro nel contesto di un discorso sulla carità teologale, sebbene in termini ancora embrionale. Tuttavia, non ci sembra opportuno tralasciarne la menzione.
La definizione “carità teologale” include simultaneamente due direzioni, una verticale e una orizzontale.
Entrambe sono già presenti nella legislazione mosaica. Basta un solo fondamentale riferimento: “Io sono il Signore tuo Dio... non avrai altri dèi davanti a Me” (Es 20,2-3). Questo enunciato afferma l’unicità di Dio e, di conseguenza, il primato assoluto che Egli deve rivestire nel cuore dell’uomo. In questo senso, sviluppare la carità teologale equivale ad amare Dio non insieme agli altri destinatari del mio amore, come se Egli fosse uno dei miei amori possibili, ma equivale ad amarlo in modo che tutti coloro che amo, siano amati in Lui. Non accanto a Lui, ma per amore di Lui. Da questo modo nuovo e divino di amare, scaturisce un cuore nuovo, capace di amare ugualmente l’amico e il nemico, in quanto nessuno dei due è amato per se stesso, ma è amato perché Dio me lo chiede. Le sezioni legislative del Pentateuco, infatti, chiedono esplicitamente all’israelita di amare anche il nemico. Il NT ci illustrerà ampiamente questa prospettiva.
Nel libro dell’Esodo, dopo la grande sezione legislativa dedicata al Decalogo, si enumera una serie di leggi e di precetti minori, dove possiamo evidenziare alcuni aspetti inquadrabili nel tema della carità verso il prossimo. Vi è un atteggiamento di delicatezza e di rispetto che Dio chiede intanto nei confronti dello straniero, in forza di una immedesimazione nella sua condizione: “Non molesterai lo straniero né l’opprimerai, perché foste stranieri nella terra d’Egitto” (Es 22,20); il testo intende dire che il cuore umano acquista delle tonalità di delicatezza e di sensibilità quando non dimentica, nel tempo della prosperità, le umiliazioni e i dolori del suo passato. Chi ha sofferto è spesso più capace di immedesimazione e di comprensione degli afflitti; perciò ne diviene sovente il consolatore. Se l’israelita saprà ricordarsi della sua lunga schiavitù egiziana, non avrà più la tendenza a maltrattare lo straniero residente nei suoi confini.
E immediatamente dopo continua: “Non maltratterai una vedova né un orfano. Se lo maltratti e grida verso di Me, ascolterò il suo grido” (Es 22,21-22). Queste due categorie, le vedove e gli orfani, nella società ebraica, marcatamente patriarcale, erano le più svantaggiate e facilmente preda di gente senza scrupoli, non avendo la difesa del capo famiglia. Dio stesso si presenta come il vendicatore dei torti subiti dai più deboli, che non hanno in questo mondo chi li possa difendere. In questo medesimo contesto viene condannato il prestito a usura (cfr. 22,24) e, più in generale, viene raccomandata l’attenzione al povero: “Se prendi in pegno un mantello del tuo prossimo, glielo restituirai al tramonto del sole, perché quello è la sua sola coperta” (Es 22,25-26). Il povero, che utilizza il mantello come indumento e come coperta, non deve esserne defraudato a causa di un prestito, col rischio di non poter dormire d’inverno. Non c’è alcun dubbio che questo precetto relativo al povero, voglia, indirettamente, disapprovare anche qualsiasi forma di superficialità e di trascuratezza, di chi non considera i bisogni altrui con la stessa sollecitudine con cui cura i propri.
Al capitolo successivo subentra il tema, ripreso poi da Gesù nel suo insegnamento, dell’amore dovuto anche ai nemici: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23,4-5). Il Maestro riprenderà questi concetti inserendoli nell’etica neotestamentaria, giudicando che sia un atteggiamento tipico dei pagani quello di misurare l’amore che si dà sulla base di quello che si riceve (cfr. Mt 5,46-47).
Dal punto di vista biblico, perfino l’AT indica come autentica esperienza d’amore quella di chi guarda solo ai bisogni del prossimo e in base a essi si muove, senza considerare se ciò avrà o meno un qualche genere di ritorno o di rimunerazione. Questo però non significa che la Bibbia invita l’ingenuo a gettarsi nelle fauci del leone, perché il suo invito alla prudenza è insistente (cfr. Sir 12,8-18).
Le esigenze della carità ritornano nel libro del Levitico, tra le prescrizioni cultuali e morali. I bisogni del povero e del forestiero sono l’oggetto del pensiero dell’israelita che lavora nei campi: “Quando mieterete la messe, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare;
quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli, li lascerai per il povero e per il forestiero” (Lv 19,9-10). Vi sono diverse sfumature della carità in queste poche parole: innanzitutto il rapporto dell’uomo col proprio lavoro. Il cristiano non può concepire un rapporto col lavoro in termini di puro guadagno. I beni personali vanno considerati sullo stesso piano degli altri doni di Dio: sono dati a me, ma talvolta li dovrò usare in giusta misura anche per il bene altrui. L’ambito della propria professione è il luogo della propria sussistenza, e di questo nessuno dubita; ma per un cristiano esso deve essere anche l’ambito della solidarietà, nel senso che va lasciato un margine di non profitto in favore dei poveri: “non mieterete fino ai margini”. Vale a dire: ricorda che devi essere in grado, quando la necessità si presenti, e sia una vera necessità, di defalcare per il povero (cioè per chi si trova veramente in stato di povertà) il margine dei tuoi guadagni.
In questo medesimo capitolo del Levitico si intrecciano inscindibilmente i temi della carità con quelli della giustizia sociale, sui quali non ci fermiamo in questa sede. Temi della giustizia sociale sono ad esempio la proibizione dell’uso dell’inganno o della menzogna (cfr. v. 11), oppure l’esortazione a retribuire l’operaio che ha lavorato presso di me entro il tramonto del sole (cfr. v. 13), o ancora la proibizione dell’ingiustizia nei tribunali e l’uso di bilance false nel commercio (cfr. vv. 35-36). Le esigenze della giustizia in fondo si radicano anch’esse sulla carità, anche se si fermano a un livello differente. Per questo il Levitico parla di entrambe le virtù, cioè la giustizia e la carità, senza distinguerle di fatto. Il capitolo 19 del Levitico raggiunge un punto cruciale a proposito dell’insegnamento sulla carità, e sarà ripreso in pieno dal NT, e sarà in quel contesto che lo commenteremo: “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello… non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (vv. 17-18). Qui dunque non si tratta di evitare delle “azioni” malvagie, bensì di purificare il cuore dalla sua tendenza all’ostilità e all’odio.
L’amore nei libri sapienziali
La letteratura sapienziale è estremamente ricca di indicazioni circa l’amore verso il prossimo, indicazioni che, a differenza del Pentateuco, hanno un carattere più consigli che di prescrizioni legali. Inoltre, la prospettiva sapienziale è molto più ampia, abbracciando praticamente l’intero raggio delle relazioni umane.
Seguendo l’ordine canonico, iniziamo col libro dei Proverbi. Le tematiche della carità emergono già al terzo capitolo: “Non negare un beneficio a chi ne ha bisogno, se è in tuo potere il farlo” (v. 27); questo consiglio riprende gli insegnamenti del Pentateuco e si muove evidentemente su due registri: da un lato, quando si può compiere un’azione che benefica qualcuno, l’indolenza è il nemico più pericoloso; dall’altro, non si distingue se colui che ha bisogno sia amico o nemico, data la totale genericità dell’enunciato: “a chi ne ha bisogno”. Agli occhi del cristiano, infatti, la categoria del “bisogno” unifica amici e nemici, impedendo di distinguerli. La questione dell’indolenza nel fare il bene è comunque ripresa in modo più esplicito al versetto successivo: “Non dire al tuo prossimo: Va’, ripassa, te lo darò domani, se tu hai ciò che ti chiede” (v. 28). Questo atteggiamento è indubbiamente da considerarsi come un peccato contro l’amore: la tendenza a dilazionare nel tempo il compimento di un bene o di una azione utile al prossimo. Una forma particolarmente elevata dell’amore verso il prossimo è citata dal libro dei Proverbi al capitolo 10; una espressione d’amore che il NT identificherà con l’evangelizzazione, ossia l’atto di carità più alto che si possa pensare: far conoscere il Signore. Ai versetti 20 e 21 il testo si esprime in questi termini: “Argento pregiato è la lingua del giusto… le labbra del giusto nutriscono molti”, in contrasto con lo stolto che è solito parlare molto senza dire niente: “il molto parlare non è mai senza colpa” (v. 19).
Il giusto custodisce nel suo cuore i tesori della sapienza (cfr. v. 31) e per questo le sue parole sono in se stesse amore, in quanto chi le ascolta ne esce migliorato (cfr. 12,26).
Se il giusto ama il suo prossimo non appena apre bocca, perché le sue parole sono sempre luminose, l’empio ha la caratteristica contraria, manifestando una parola distruttiva: “con la bocca l’empio rovina il suo prossimo” (11, 9). La carità verso il prossimo è descritta inoltre anche nei termini del rispetto incondizionato della persona umana: “Chi disprezza il suo prossimo è privo di senno, l’uomo prudente invece tace” (11,12). Ci sembra di avvicinarci con questo proverbio al mondo del NT, dove il rispetto della persona è concepito come il valore superiore a ogni legge. In nessun caso la Scrittura ci autorizza al disprezzo del prossimo; senza messi termini, e senza alcuna possibile eccezione, chi disprezza il prossimo è privo di senno. Non si dice “chi disprezza il prossimo che non è meritevole di disprezzo”, ma semplicemente: “chi disprezza il prossimo”. Nella visuale dell’autore sacro, non vi sono perciò eccezioni. L’uomo che mi sta davanti potrebbe anche essere meritevole di disprezzo, ma ciò non mi autorizza a disprezzarlo, perché la persona umana, anche quando non vive i valori è essa stessa un valore intangibile. Cosa si fa allora, bisogna elogiarla? Il testo non ci dice questo, ma ci dice piuttosto che “l’uomo prudente tace”. Il silenzio sulla persona è indubbiamente amore, quando la parola non può elogiarla. Ciò viene ulteriormente specificato al versetto successivo: “Chi va in giro sparlando, svela il segreto; lo spirito fidato nasconde ogni cosa” (v. 13). L’uomo sapiente è uno spirito affidabile, che sa tacere quel che non è necessario dire. Al tempo stesso, con questo atteggiamento, egli custodisce la persona indegna dalla diffusione non necessaria della sua cattiva nomea.
Un altro tema già presente nel Pentateuco è quello del rapporto dell’uomo col suo lavoro nel contesto della carità: “C’è chi largheggia e la sua ricchezza aumenta; c’è chi risparmia oltre misura e finisce nella miseria” (11,24), e si capisce il senso vero di questo parallelismo, quando l’autore aggiunge più avanti: “la persona benefica avrà successo… chi è sollecito nel bene trova il favore” (vv. 25.27).
In realtà non è la fatica e l’impegno lavorativo ciò che rendono prospera la vita di una persona; Dio infatti benedice il lavoro dell’uomo giusto e compassionevole, e può dargli un frutto abbondante anche in poco tempo e senza troppa fatica. Del resto, anche il Salmo 127 comunica la stessa idea: “Se il Signore non costruisce la casa invano faticano i costruttori… invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore: il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno” (vv. 1-2). Il sonno produttivo degli amici di Dio si oppone alla fatica inutile degli empi; insomma, è Dio che dà prosperità ai giorni dell’uomo fedele alla sua amicizia, benedicendo il suo lavoro. Invano si difende il proprio patrimonio se la nostra cassaforte non è Dio. La cassaforte è l’onestà nel lavoro e la compassione verso i veri bisognosi. Lo stesso concetto viene riaffermato dal libro dei Proverbi in 11,28: “Chi confida nella propria ricchezza cadrà; i giusti invece verdeggeranno come foglie”. Lo stesso concetto ritorna anche in 19,17 e 28,27.
La carità del giusto, secondo i Proverbi, si estende anche aldilà delle relazioni con gli uomini e si manifesta in una sorta di rispetto del creato: “Il giusto ha cura del suo bestiame, ma i sentimenti degli empi sono spietati” (12,10). L’idea di fondo è che la compassione dell’uomo giusto abbraccia interamente le opere di Dio creatore e anche con gli animali egli non supera i confini del rispetto della vita. Al contrario, chi è privo della carità teologale come è indifferente ai bisogni del prossimo così talvolta appare spietato anche con le forme di vita inferiori a quella umana.
Ad ogni modo, il testo ritorna frequentemente sul fatto che la prima manifestazione della carità teologale si coglie già nel modo di parlare: “Una risposta gentile calma la collera, una parola pungente eccita l’ira” (15,1). E’ certamente questa una prova di infallibile infallibile veridicità: la carica interiore di una persona, positiva o negativa, si percepisce immediatamente negli effetti del suo parlare.
Chi ha l’animo invaso da uno spirito negativo, diffonde intorno a sé inquietudine e conflitti; e viceversa; “Una lingua dolce è un albero di vita, quella malevola è una ferita al cuore” (15,4) e ancora: “Sono in abominio al Signore i pensieri malvagi, ma gli sono gradite le parole benevole” (15,26). Di nuovo, la parola è rivelatrice dell’interiorità. E ciò è sempre vero, anche quando la persona usa l’inganno e l’ipocrisia nel dire cose diverse da quelle che veramente pensa.
Chi ha il discernimento dello Spirito, dinanzi a una persona sleale, per quanto questa sia abile nel fingere, viene preso ugualmente nel suo intimo da uno strano senso di disagio, che lo avverte del pericolo come una spia luminosa. E poco più avanti: “L’uomo perverso produce la sciagura, sulle sue labbra c’è come un fuoco ardente” (16,27).
Il primo a cadere preda delle labbra dello stolto è però lui stesso, dal momento che il giusto può sottrarsi alla sua minaccia grazie al discernimento: “La bocca dello stolto è la sua rovina e le sue labbra sono un laccio per la sua vita” (18,7); in definitiva, nessuno paga il prezzo della stoltezza se non lo stolto in prima persona. La sapienza stessa dice infatti: “Chi trova me, trova la vita, e ottiene favore dal Signore; ma chi pecca contro di me, danneggia se stesso; quanti mi odiano, amano la morte” (Prv 8,35-36). Il giusto è esente da questo male irreversibile: “Torre fortissima è il nome del Signore; il giusto vi si rifugia ed è al sicuro” (18,10).
Al capitolo 24 torna il tema dell’amore per i propri nemici: “Non ti rallegrare per la caduta del tuo nemico, e non gioisca il tuo cuore quando egli soccombe, perché il Signore non veda e se ne dispiaccia… non irritarti per i malvagi e non invidiare gli empi, perché non ci sarà avvenire per il malvagio e la lucerna degli empi si estinguerà” (24,17-20).
Vale a dire: gli empi e i malvagi sono già stati giudicati da Dio e la loro sorte di rovina è già segnata; se ne può solo avere compassione, perché per essi non c’è futuro. Il primato del giudizio di Dio sui malvagi fa capolino di nuovo più avanti: “Non dire: Come ha fatto a me così io farò a lui, renderò a ciascuno come si merita” (25,29). Il senso è che il giudizio di Dio sull’empio è sufficiente alla sua retribuzione; anzi, può accadermi di uscire io stesso dal favore di Dio, nel momento in cui assumo indebitamente il ruolo non richiesto del giustiziere: “…perché il Signore non veda e se ne dispiaccia” (24,18).
Un insegnamento ancora più particolareggiato sulla carità si trova nel libro del Siracide. Esso prende le mosse innanzitutto dall’amore verso Dio, che si manifesta nella capacità di sopportare le prove a motivo di Lui. Prima di entrare in merito alle caratteristiche dell’amore del prossimo, il Siracide ci mette dinanzi alla virtù del “timore di Dio”; la parola “timore” qui va intesa non nel senso di “spavento”, ma nel senso di “venerazione piena d’amore”, che dispone l’uomo a servire Dio, sopportando ogni cosa per amore di Lui. Il servizio di Dio non è mai esente da una qualche tentazione, e l’uomo ne viene avvertito fin dall’inizio (cfr. 2,1-2). Una delle manifestazioni dell’amore verso Dio è l’accoglienza delle sue disposizioni: “Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché con il fuoco si prova l’oro e gli uomini bene accetti nel crogiolo del dolore” (2,4-5). E’ amore di Dio verso di noi anche la permissione delle prove, perché solo grazie a esse noi cresciamo nelle virtù; e perciò è amore nostro verso Dio l’aderirvi e accogliere dalle sue mani ciò che di spiacevole ci capita. E’ questo e non un altro il cammino della santità. Ciò però non si verificherà senza la fede fiduciale: “Affidati a Lui ed Egli ti aiuterà; voi che temete il Signore confidate in Lui… chi ha confidato nel Signore ed è rimasto deluso?” (2,7-10). La fede fiduciale è insomma uno dei volti della carità teologale
Dopo un commento al quarto comandamento, che si inquadra dentro le prospettive della virtù della giustizia (3,1-16), il testo passa al tema specifico della carità verso i poveri. La sollecitudine verso i bisognosi è subito considerata da una prospettiva squisitamente teologica: “L’elemosina espia i peccati” (3,29), prospettiva che approda all’esperienza della figliolanza: “Sii come un padre per gli orfani e come un marito per la loro madre e sarai come un figlio dell’Altissimo ed egli ti amerà più di tua madre” (4,10). In sostanza, l’idea di fondo è che l’uomo compassionevole e solidale coi poveri riceve sul piano dello spirito una elevazione verso la purificazione dei peccati e l’ingresso nella divina paternità.
All’interno del discorso sull’amore del prossimo, il Siracide inserisce diverse considerazioni sull’amicizia: 6,5-17. In questa pericope l’argomento è trattato soprattutto in termini di avvertimenti e di suggerimenti prudenziali. Il medesimo tema ritornerà in 12,8-18 con un carattere prudenziale non dissimile, anzi forse un po’ più pronunciato circa il pericolo rappresentato dai falsi amici.
La pericope 6,5-17 si apre con la descrizione di un atteggiamento abituale della carità: “una bocca amabile moltiplica gli amici, un linguaggio gentile attira i saluti” (v. 5). L’uomo interiormente abitato dalla luce di Dio, è sempre così: dolce e amabile nel suo modo di porsi di fronte agli altri; e non per un artificio del galateo: l’uomo di Dio è signorile di suo, senza il bisogno di osservare alcun protocollo. E’ la dignità principesca, derivante dalla divina figliolanza, che lo rende così. Ma perché questa amabilità non divenga un pretesto per gli scaltri, che sogliono strumentalizzare le persone miti, il Siracide offre una serie di indicazioni prudenziali e di consigli utili nella vita pratica. Il primo consiglio tocca uno dei frutti della carità teologale: la libertà dalle persone e dalle loro parole o azioni: “Siano in molti coloro che vivono in pace con te, ma i tuoi consiglieri uno su mille” (6,6). Chi possiede la carità teologale non è scalfito dalle parole dei molti che parlano tanto per parlare, ma senza avere né le conoscenze adatte né l’autorità per farlo. La carità dispone la persona ad amare tutti senza dipendere da nessuno.
Per questo non ci si turba alla prima persona che arriva e parla. Parli pure se vuole; ma io ascolterò solo chi parla secondo verità. La carità teologale infatti ci rende liberi, facendoci amare Dio al di sopra di ogni altro, ed è questo il presupposto per essere liberi dalle cose e dalle persone. Il discorso continua poi in toni prudenziali sul discernimento delle amicizie, avvertendo del fatto che tutti ci sono amici nel tempo della prosperità, ma che nel momento della prova ci rimarranno vicini solo quelli sono veramente tali (cfr. vv. 7-13). Indirettamente, siamo anche esortati a non essere così, ma a considerare la fedeltà come un elemento indissociabile dall’amicizia: “Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro” (v. 14). In questo contesto ritorna il tema del timore del Signore, tema caro al Siracide; l’amico fedele è un dono che Dio fa a quanti lo temono, così come, quanti temono il Signore, sono soliti essere fedeli ai propri amici (cfr. vv. 16-17). Lo stesso sarà detto a proposito della moglie: “Una donna virtuosa è una buona sorte, viene assegnata a chi teme il Signore” (Sir 26,3).
Il discorso sulla carità acquista al capitolo 7 un respiro più ampio. Il tema della carità si ripresenta qui sotto il suo duplice aspetto verticale e orizzontale, ovvero le due inseparabili relazioni fondamentali con Dio e con il prossimo. L’amore verso Dio, che all’inizio era stato enunciato sotto l’aspetto del timore di Dio, qui viene colto nell’atto pratico della preghiera: “Non mancare di fiducia nella tua preghiera” (7,10); non vi è dubbio che la preghiera esprime l’amore verso Dio, mentre la sfiducia lo contraddice. Non sarebbe perciò erroneo annoverare, tra i peccati contro l’amore, la sfiducia in Dio o l’impazienza di veder realizzata la sua parola secondo i nostri tempi e le nostre aspettative. Il medesimo versetto, nella seconda parte, lascia riaffiorare la sollecitudine verso il prossimo bisognoso, menzionando la necessità dell’elemosina. Un secondo insegnamento sull’amore verso Dio espresso dalla preghiera è riportato poi al versetto 14: “Non essere chiacchierone tra gli anziani e non ripetere le patole nella preghiera”; insomma, si vuole dire che è sconveniente essere loquace oltre misura davanti agli uomini autorevoli come pure davanti a Dio.
Quest’ultima esortazione viene ripresa dall’evangelista Matteo nel contesto del discorso della montagna: “Pregando, poi, non moltiplicate le parole come i pagani, che credono di essere esauditi a forza di parole” (6,7). Quanto all’amore verso il prossimo, i versetti chiave si trovano in 7,11.12.15: “Non irridere un uomo nella sua amarezza... non spargere menzogne sul tuo fratello... non disprezzare il lavoro pesante”. Sono indicazioni pratiche molto chiare, il cui denominatore comune è senza dubbio il rispetto incondizionato della persona umana, qualunque sia il suo stato, il suo mestiere o la sua condizione. Su questa stessa linea si collocano le esortazioni successive a trattare con umanità i propri dipendenti: “Non maltrattare il servo che lavora fedelmente né l’operaio che si impegna totalmente. Ama lo schiavo giudizioso” (7,20-21).
Ai vv. 30-35 si intrecciano poi di nuovo i temi della carità verso Dio e verso il prossimo: “Temi il Signore con tutta l’anima... ama con tutta la forza Colui che ti ha creato... stendi la tua mano anche al povero, perché ti giunga piena la benedizione... anche con i morti non essere avaro. Non voltare le spalle a quelli che piangono e soffri con quelli che soffrono. Non temere di visitare gli ammalati, perché da loro sarai riamato”.
La carità si presenta quindi in questi versetti come un amore di solidarietà che unisce vivi e defunti e che si nutre del primato di Dio in tutte le cose.
La carità come solidarietà verso il prossimo dal Siracide non è concepita come una virtù cieca. Il rispetto incondizionato verso la persona umana, deve essere sapientemente coniugato con un saggio discernimento delle persone e degli ambienti: “Sta’ lontano da chi ha il potere di uccidere, ma se l’avvicini non sbagliare, perché non ti tolga la vita. Per quanto puoi saggia il carattere dei tuoi vicini e consigliati con quelli che sono saggi. Conversa con gente di senno... i tuoi commensali siano dei giusti” (9,13-16).
Il tema del discernimento nel fare il bene, ritorna insistentemente al capitolo 12: “Se fai il bene, sappi a chi lo fai” (v. 1). L’idea di fondo è di evitare il rischio, sempre presente, di trasformare la carità e la compassione in un affare ben redditizio per gli approfittatori senza scrupoli. Più avanti, il Siracide afferma senza mezzi termini: “Benefica l’umile e non dare all’empio; rifiutagli il pane, non dargli nulla, perché non ne approfitti a tuo danno” (v. 5).
Il rispetto della persona umana riemerge al capitolo 18, mettendo al di sopra dell’assistenza pratica del bisognoso il modo di beneficarlo: “Figlio, quando aiuti qualcuno non rimproverarlo, e quando dài non avere parole amare... La parola non è più accetta del dono stesso? Nell’uomo generoso si trovano entrambi. Lo stolto rimprovera senza cortesia e il dono dell’avaro non rallegra gli occhi” (18,15-18). Insomma, la delicatezza del tratto e la dolcezza dei modi è ancora più importante dell’aiuto materiale che si dà, al punto che il gesto di carità perderebbe tutto il suo merito e tutta la sua bellezza, in assenza di un modo di fare adeguato. In questo senso è carità di alto valore il controllo della parola: “Non propagare le cose dell’amico o del nemico; parla solo se il silenzio diventa complicità... Se hai sentito una parola, essa muoia con te; sta tranquillo che non ti scoppierà dentro” (19,8.10). E poi ancora: “Tratta con l’interessato quanto gli si attribuisce... e non credere a tutto quello che senti” (19,14-15).
A capitolo successivo viene dipinta l’immagine negativa dello stolto, che così diventa il modello di come non bisogna essere nell’esercizio della carità: “Il dono dello stolto non ti gioverà, egli attende la ricompensa ad occhi sbarrati; dà poco e fa molte rimostranze... quest’uomo è sempre malvisto e poi si lamenta:
Non ho amici, non c’è gratitudine per la mia generosità” (20,14-16). Quest’immagine dello stolto non è solo la rappresentazione del comportamento sbagliato, ma allude anche al fatto che prima di lamentarci del cattivo comportamento degli altri verso di noi è opportuno esaminarci, se per caso non siamo stati noi a causare la loro scortesia. Anche questa è una luce di discernimento derivante dalla carità: capire fino a che punto sono io che mi precludo una vera esperienza di amicizia.
Ci sembra che i nuclei essenziali dell’insegnamento dei libri sapienziali sull’amore sia a Dio che all’uomo siano stati toccati interamente. E’ ovvio, da quanto detto, che la letteratura sapienziale pone maggiormente l’accento sull’aspetto orizzontale della carità, ossia la dimensione relazionale rivolta al prossimo, sebbene non sia affatto esente l’aspetto verticale e divino dell’amore. Possiamo perciò senz’altro entrare nell’ambito dell’insegnamento neotestamentario, che porterà al definitivo completamento la dottrina appena abbozzata nell’AT.
L’amore nell’insegnamento di Gesù
Nell’insegnamento di Gesù il tema della carità teologale giunge al suo pieno svelamento. Se si volesse cogliere in modo sintetico il cuore del suo insegnamento, si potrebbe dire così: la carità verso Dio e verso il prossimo sono i due volti di uno stesso e inseparabile amore. La capacità di amare il prossimo deriva dalla misura del primato di Dio nella propria vita. Vale a dire: quando si giunge ad amare Dio al di sopra di tutto e di tutti, allora l’amore verso il prossimo si innalza ad un livello di grande purificazione. Infatti, il primato di Dio è direttamente proporzionale alla vittoria personale sui disordini del proprio “io”. A questo proposito, un autore inglese, anonimo del XIV secolo, così si esprime, parlando al suo figlio spirituale, un novizio di 24 anni: “E’ facile dimenticarsi di tutto il resto: più difficile dimenticarsi di se stessi. E l’esperienza mi dà ragione. Ti accorgerai infatti che, anche quando sarai riuscito a dimenticare – da molto tempo – le creature e le loro opere, tra te e il tuo Dio rimane pur sempre la nuda coscienza del tuo essere. Credimi, non raggiungerai la perfezione nell’amore, finché non sarai riuscito a distruggere anche quella”[1].
La carità nel discorso della montagna
L’insegnamento di Gesù sulla carità, nel suo lungo discorso sul discepolato, ruota intorno al superamento delle categorie di amico-nemico. Il discepolo è invitato ad amare tutti con lo stesso cuore, senza misurare l’amore da dare agli altri su quello che da essi si riceve. E ciò non ha tanto il valore di un precetto legale, bensì il senso di un modo “divino” di agire, richiesto al discepolo. Il discepolo non è tale perché applica delle regole morali al proprio agire, ma è tale perché imita Dio “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni” (Mt 6,45). Per questo, la meta della perfezione del discepolo non è rappresentata dall’adesione a un codice perfetto, ma dall’imitazione di Colui che è perfetto (cfr. 5,48).
Tutto questo non significa che il discepolo ignora la Legge mosaica o la ritiene valida solo per gli ebrei. L’evangelista Matteo sottolinea che le esigenze basilari del Decalogo non sono mai antiquate (cfr. 5,17), perché rappresentano il limite minimo della giustizia, al di sotto del quale vi è il peccato grave. Ciò che cambia è il modo di intendere il Decalogo: esso non viene più letto solo sul piano della sua espressione letterale, ma viene oltrepassato dal regime della “lettera” a quello dello “spirito”. In ciò consiste la “giustizia superiore” (Mt 5,20) annunciata da Gesù come necessaria per entrare nel Regno. Se dunque il discepolo di Mosè si astiene dall’uccidere fisicamente una persona, il discepolo di Cristo si astiene perfino dalla mancanza di rispetto verso chicchessia. Le esigenze della Legge mosaica vengono così radicalizzate, venendo a costituire appunto una giustizia “superiore”.
A noi, però, interessa soprattutto l’insegnamento sulla carità. Il primo riferimento alla carità fraterna è dato in un contesto liturgico: “Se dunque presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (5,23). L’idea di fondo è che la preghiera non può essere gradita a Dio,
qualora provenga da un cuore non riconciliato; e questo è chiaro di suo. Ciò che va spiegato è invece come mai sia previsto solo il caso del fratello che ha qualcosa contro di me e non quello in cui io ho qualcosa contro qualcuno.
Non è una dimenticanza dell’evangelista. Infatti, solo il caso in cui un altro ha qualcosa contro di me può ostacolarmi nella preghiera; ma non mi ostacola la situazione inversa. Il motivo è molto chiaro: se qualcuno ha qualcosa contro di me, ciò significa che l’offensore sono io; se invece io ho qualcosa contro qualcuno, è perché questo qualcuno deve avermi offeso. Quest’ultimo caso non mi ostacola nella preghiera. E’ da questa distinzione che bisogna partire: quando un offensore mi colpisce e il colpevole non sono io, mi basta perdonarlo per riconciliarmi con lui; può succedere che egli rifiuti la riconciliazione, e in questo caso l’andare da lui si rivela del tutto inutile. Tuttavia, nel momento io cui l’ho intimamente perdonato, agli occhi di Dio la riconciliazione si è già verificata, anche se il mio offensore può continuare a volere essermi ostile. Ecco perché il caso in cui io ho qualcosa con qualcuno (vale a dire: quando sono stato offeso) non mi ostacola nella preghiera. Mi ostacolerebbe se io rifiutassi di dare il perdono al mio offensore, ma non è mai il mio offensore a ostacolarmi, anche nell’ipotesi che la sua ingiusta ostilità verso di me continuasse.
Ben altra questione si pone invece quando qualcuno ha qualcosa contro di me; in questo caso infatti l’offensore sono io e la riconciliazione non si può verificare se io non mi muovo verso la persona danneggiata da me per manifestargli la coscienza del mio errore e la volontà di riparare. In questo caso, a differenza del primo, la riconciliazione come disposizione del cuore non basta più. Se io offendo qualcuno distruggo la fraternità, e perciò sono io stesso che devo risanarla, ed è questo il senso delle parole: “va’ prima a riconciliarti col tuo fratello”, cioè da quel fratello che hai offeso. Anche se lui ti ha già perdonato in cuor suo, il risanamento della fraternità si verifica solo in concomitanza col tuo atto di umiltà e di pentimento. Tu non ti potrai accostare all’altare prima di quel momento, mentre colui che tu hai offeso si potrà accostare all’altare nell’istante stesso in cui, in cuor suo, ti avrà perdonato.
Ai vv. 25-26: “Mettiti presto d’accordo col tuo avversario, mentre sei in via con lui”; immediatamente successivi, si ha l’impressione di cogliere una allusione al Purgatorio. Le pendenze determinate dagli squilibri dei nostri rapporti interpersonali vanno dunque risanate prima che scada il tempo del nostro pellegrinaggio terreno. Dopo non è più possibile presentarsi a Dio senza alcun debito. Da qui l’esortazione a risanare ogni frattura “mentre sei ancora in via”, cioè prima che la morte ti conduca all’incontro con Cristo, che è la meta del pellegrinaggio terreno di ogni uomo. Concludere in condizioni debitorie il pellegrinaggio comporta dei tempi supplementari di purificazione, che non hanno però alcun valore meritorio; vale a dire: il Purgatorio non ci rende più belli davanti a Dio, ci rende solo presentabili così come siamo. La sofferenza sperimentata durante la vita, quella sì ci abbellisce, se accolta dalle mani di Dio; ma la sofferenza ultraterrena serve solo a risanare le pendenze, nulla di più. Ci sembra eloquente, a questo proposito, la similitudine del debitore gettato in prigione, finché non abbia saldato il suo debito fino all’ultimo spicciolo (cfr. Mt 5,25-26); la giustizia di Dio è indubbiamente esigente, ma non entra in vigore se non dopo la morte dell’individuo. La vita è concepita dal cristianesimo come un tempo favorevole per decidersi da che parte stare. Il Signore stesso ci dà dei momenti o addirittura dei periodi densi di grazia, attendendo che noi ne facciamo tesoro. Per questo, dopo la morte, la divina giustizia richiede un equilibrio ripristinato al millimetro. Inoltre, saldare un debito quando si è cittadini liberi non è lo stesso che saldarlo per imposizione del potere costituito. Un cittadino libero che salda i suoi debiti, manifesta se stesso come uomo giusto; ma se uno ha bisogno dell’imposizione del giudice per riconoscere i diritti del prossimo, costui è un uomo senza principi. Ecco in che senso la sofferenza del Purgatorio non è meritoria, mentre quella della vita terrestre lo è: sulla terra la sofferenza è meritoria quando si accetta liberamente per amore di Dio, in Purgatorio invece essa è imposta alla nostra indolenza dalla divina giustizia.
La sezione finale del capitolo cinque ritorna sul tema della carità, sotto l’aspetto di una imitazione di Dio. Non si può applicare al nostro prossimo una misura differente da quella che Dio suole applicare con noi e con tutti. Il discepolo scruta innanzitutto l’agire di Dio per trarre ispirazione nel proprio agire. Prima dell’Incarnazione ciò non era possibile in senso pieno, perché solo l’Umanità di Cristo rende visibile il Padre con assoluta precisione. Lo stile umano di Cristo è un modo divino di essere uomini; o, se si vuole, è una vita umana vissuta con modalità divina. Vivere come Lui è lo stesso che compiere totalmente tutta la volontà di Dio. Infatti, essere figli è una realtà derivata dalla divina imitazione: “amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni” (Mt 5,44-45). A questa prospettiva si aggiunge una forma di libertà e di distacco dai beni materiali, che deve caratterizzare la vita del discepolo, perché la sua carità non abbia a subire dei rallentamenti: “Da’ a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” (v. 42). Inutile ripetere che quando il Vangelo si esprime in questi termini dà per scontato quanto esso dice altrove a proposito della vigilanza e della prudenza. L’esortazione alla carità verso il prossimo non è mai buonismo, ma è sempre una carità illuminata.
La libertà dai beni materiali non è solo la base necessaria per la solidarietà, ma è anche il martello capace di spezzare le catene degli ingarbugliamenti umani: “A chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello” (v. 39). Qui si parla di chi mi chiama in giudizio per la spartizione dei beni. Si tratta di una trappola subdola per togliere al discepolo la pace interiore e suscitargli ogni sorta di sentimenti negativi. L’unica soluzione è la libertà: ti vuole togliere il mantello? Dagli anche la tunica e che se ne vada per la sua strada!
La misura esatta dei rapporti umani
L’insegnamento evangelico sulla carità non riguarda solo l’esortazione “ad amare” il prossimo, ma include anche una esortazione parallela e inseparabile “a non amare” il prossimo aldilà della giusta misura. Il ridimensionamento dell’amore verso il prossimo è la diretta conseguenza dell’amore verso Dio, amato Lui solo al di sopra di tutto e di tutti. Dal primato dell’amore di Dio nasce il riordinamento della sfera affettiva e relazionale della persona. Cristo ha dato su questo punto delle direttive molto chiare.
La capacità di dare alle creature un amore equilibrato, e in perfetta proporzione rispetto all’amore dovuto a Dio, è essenziale per il cammino della santità cristiana. Il discepolato potrebbe addirittura fallire, se mancasse nel soggetto la volontà determinata a riequilibrare i propri affetti. Non è un caso che proprio nel discorso diretto agli Apostoli, Cristo, tra le altre cose, si esprime così: “Sono venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre… Chi ama il padre o la madre più di Me, non è degno di Me; chi ama il figlio o la figlia più di Me, non è degno di Me” (Mt 10,35-37). La posta in gioco, dunque, non è piccola: si tratta di perdere la dignità di appartenergli come discepoli. Questo fatto non ci deve meravigliare né ci deve sembrare eccessiva la sanzione: amare una creatura più di quanto si ama Dio è idolatria allo stato puro; è quindi un peccato di grande portata agli occhi di Dio. E’ chiaro allora che una affettività squilibrata non può convivere a lungo col discepolato, così come l’idolatria non può convivere con la purezza del culto. La forza soprannaturale che conduce la persona al perfetto equilibrio degli affetti è la carità teologale, che dispone appunto la persona ad amare Dio e il prossimo con lo stesso cuore di Cristo (cfr. Fil 2,5).
Il ridimensionamento dei legami umani è un processo che Cristo stesso, nella sua vita umana, ha dovuto compiere fin dalla sua adolescenza. Non perché Egli ne avesse bisogno, ma perché ne avevano bisogno Maria e Giuseppe in primo luogo e, successivamente, parenti, amici e persino i suoi stessi Apostoli. Il loro affetto legittimo, ma non equilibrato, sarebbe stato un ostacolo al compimento della sua missione. Per questo, all’età di dodici anni, nel Tempio, Gesù ridimensiona la paternità di Giuseppe ponendola in antitesi con la paternità di Dio: alle parole di Maria, “Tuo padre e io ti cercavamo”, Cristo risponde: “Io devo occuparmi delle cose del Padre mio” (Lc 2,48-49). Allo stesso modo, più volte Egli ridimensionerà la maternità di Maria, come ad esempio a Cana: “Che c’è tra me e te, o Donna?” (Gv 2,4), un’espressione certamente strana, ma sufficientemente chiara relativamente al fatto che Maria deve convincersi a rinunciare ai suoi diritti materni, dal momento in cui Cristo ha iniziato la sua vita pubblica; a Lei, che si rivolge a Lui come se fossero ancora nell’ambito domestico, Cristo vuol far notare che ora la sua ubbidienza di Figlio è dovuta solo al Padre. Tuttavia, le concede quello che ha chiesto. Questo ridimensionamento dei rapporti familiari, comunque, è realizzato da Cristo solo nella misura in cui è necessario. Vale a dire: quando è in gioco il valore più alto dell’ubbidienza alla volontà di Dio. Per tutto il tempo della sua permanenza nell’ambiente domestico, invece, Cristo resta sottomesso a Maria e a Giuseppe (cfr. Lc 2,51). Particolare questo di altissimo significato: nella vita familiare, fino a quando scocca l’ora della sua rivelazione messianica a Israele, Cristo non fa prevalere la divina paternità sulla umana genitorialità. Il ridimensionamento dei vincoli di consanguineità nell’insegnamento di Cristo non ha mai un carattere di arbitrarietà. Non è mai lecito al cristiano negare ubbidienza e onore ai propri genitori col pretesto di ubbidire a Dio, se ciò non sia motivato da cause gravi e immutabili. In linea di principio, potrebbe avvenire (e nella storia dei santi è avvenuto più di una volta: cfr. S. Tommaso d’Aquino, S. Chiara di Assisi, e altri ancora) che i genitori si oppongano alla realizzazione del disegno di Dio su un loro figlio, in forza di calcoli umani; e in questo caso la disubbidienza del figlio non solo è lecita ma è anche un dovere di coscienza. Ma ciò si giustifica solo in una situazione in cui l’unica possibilità di ubbidire a Dio sia quella di disubbidire ai genitori. Ben diversa è la situazione dell’istituto ebraico del korbàn, condannato infatti da Cristo, perché permetteva di offrire al Tempio la somma di denaro dovuta alla assistenza dei propri genitori anziani (cfr. Mc 7,8-13). Da quel momento uno veniva esonerato dall’obbligo dell’assistenza ai propri familiari anziani.
Gesù giudica questa posizione come un abuso costruito su un pretesto apparentemente religioso. In sostanza, l’amore verso Dio, e il suo primato, non deve mai essere strumentalizzato per sentirsi autorizzati a disamare il prossimo. Per questo, Gesù stesso, negli anni della sua permanenza in famiglia, pur potendo dire a ragione “qui comando io”, non lo fece mai, preferendo rimanere nella condizione di figlio in senso umano. Sarebbe stato infatti un atteggiamento non necessario. Il ridimensionamento del suo rapporto con i genitori inizierà in concomitanza con l’inizio della vita pubblica.
Il ridimensionamento dell’amore materno continua come una divina pedagogia anche durante la vita pubblica, come si vede da Mt 12,46-50. Non c’è dubbio che in questo episodio si coglie la misura della rinuncia ai suoi diritti materni, che la Vergine ha dovuto accettare nel tempo della vita pubblica di Gesù: Maria non è accanto a Lui nel ministero pubblico e quando deve parlargli, lo raggiunge solo con difficoltà.
All’interno di questa pedagogia, vanno inclusi anche gli Apostoli, i quali fino alla prossimità dell’ultima Pasqua trascorsa col Maestro, lo amano nella maniera sbagliata. Il dialogo riportato dai Sinottici, nel quadro geografico di Cesarea di Filippo, ne è un esempio indubitabile. Dinanzi alla prospettiva della sua morte di croce, udita con chiarezza per la prima volta come una profezia del Maestro sull’esito del ministero del Messia di Israele, Pietro gli manifesta un amore che Cristo non è disposto ad accettare: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai. Ma Egli, voltandosi, disse a Pietro: Vai dietro, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mt 16,22-23). L’idea di fondo che permea le parole di Cristo, e che al tempo stesso illumina il senso della sua reazione, è che amarlo nel modo sbagliato è lo stesso che ostacolare la sua missione, partecipando, pur senza volerlo direttamente, all’azione ostruzionista dello spirito delle tenebre. Nel contesto più generale della carità teologale, applicando per estensione la risposta di Gesù a Pietro, si può dire che tutte le volte che la nostra affettività è lasciata in stato di disordine e di squilibrio si impedisce a Cristo di compiere la sua missione verso di noi. Per comprendere poi quale sia l’essenza di questo squilibrio, basta osservare la posizione dell’Apostolo Pietro: nessuno dubita che stia amando Cristo sinceramente e che il suo slancio sia autentico, ma sta amando a modo suo. Cristo, invece, vuole che noi amiamo non a modo nostro, ma a modo di Lui. La carità teologale, infatti, non è un amore qualsiasi, ma è la capacità di amare come ama Cristo. Questo concetto sarà più chiaro negli insegnamenti dell’Ultima Cena a proposito della lavanda dei piedi. Qui Cristo, anche se con parole dalle tinte molto forti, richiama Pietro al suo ruolo di discepolo: il discepolo non può pensare a modo suo, né può amare a modo suo. La traduzione greca più corretta di Mt 16, 23 non è “Lungi da me”, bensì “Vai dietro di Me”, al tuo posto di discepolo per imparare come si pensa e come si ama. Il discepolo non può insegnare al Maestro, ma ne dovrà soltanto seguire le orme, anche quando i passi del Maestro si dirigeranno verso il Calvario.
Il ridimensionamento del proprio “io”
L’errore di Pietro è stato insomma quello di avere innalzato gli impulsi del proprio “io” (anche buoni) al valore di regola. Questa disposizione di dare al proprio “io” un carattere di legislatore lo ha portato però a uscire dal discepolato, in una pericolosa inversione di ruoli, fino al punto di farsi maestro del Maestro. Gli inviti di Cristo a prendere le distanze e a svincolarsi dalla tirannide del proprio “io” sono molto frequenti nel vangelo.
I rischi conseguenti all’aver seguito il proprio “io” legislatore sono di grossa portata: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà” (Mt 16,25). Queste parole rappresentano l’avvertimento successivo ed esplicativo alla definizione dello statuto permanente del discepolo: “Se qualcuno vuol venire dietro a Me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24). Dopo la scelta libera e intenzionale di seguire Cristo (Se qualcuno vuol), occorre calarsi nella vera dimensione del discepolato (rinneghi se stesso, prenda la sua croce). Rinnegare se stessi equivale a non riconoscere le spinte autonome della propria personalità. Il discepolato è modellato su un progetto umano già incarnato da Cristo e incompatibile con qualunque altro progetto proveniente dal basso. Ciò significa che il discepolato non può realizzarsi senza lo svuotamento del proprio “io”. Né è possibile portare la propria croce continuando ad attribuire a se stessi un qualche merito. Altrimenti succede come a coloro che sciupano il valore della sofferenza, quando, a ogni piccola contrarietà della vita, vanno ripetendo a se stessi: “Non me lo meritavo! Io che ho sempre aiutato il mio prossimo!”.
Non bisogna però pensare che questo “svuotamento” di se stessi, di cui parliamo, abbia come punto di arrivo il nulla. Al contrario, ha come punto di arrivo una partecipazione più piena al Tutto: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; cosa dunque ne otterremo? Gesù disse loro: Quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni. Chiunque avrà lasciato case, fratelli, sorelle… riceverà cento volte tanto e la vita eterna” (Mt 19,27-29).
La correzione fraterna
La correzione fraterna è descritta in Mt 18,15-17. Il v. 18 riguarda invece il potere apostolico di sciogliere e di legare. Consideriamo, per adesso, i termini della correzione fraterna.
Nella prassi cristiana, Matteo prevede la legittimità di un richiamo al bene nei confronti del fratello che ha commesso un peccato. Un primo fraintendimento che va evitato è quello di pensare che l’evangelista qui si stia riferendo a quei disguidi quotidiani che si verificano in ogni comunità cristiana. Ciò va escluso considerando l’intera prassi della correzione fraterna suggerita dal nostro testo: si hanno infatti tre passaggi, di cui il secondo e il terzo richiedono l’intervento di testimoni o addirittura dell’assemblea (l’intera comunità o i responsabili di essa). Sarebbe un’esigenza esagerata, se lo sbaglio del fratello da correggere riguardasse le incomprensioni ordinarie della vita comune. Ancora più esagerata suonerebbe la prospettiva dell’esito negativo: “Se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano o un pubblicano” (Mt 18,17). Tutto questo ci porta a pensare che la correzione fraterna di cui parla Matteo, nel modo in cui ne parla lui, vada applicata solo nei casi di gravi mancanze che minacciano gli equilibri e la stabilità della comunità stessa; solo a questa condizione può essere ragionevole l’intervento dell’assemblea in ultima istanza. In tutti gli altri casi di quotidiane incomprensioni sarebbe una reazione davvero sproporzionata rispetto alla causa.
Fatta questa precisazione, si possono prendere in esame i tre passaggi suggeriti da Matteo per la correzione del fratello che ha sbagliato e, come sappiamo, ha sbagliato gravemente. La prima osservazione che ci viene spontanea è relativa alla prudenza e alla gradualità che caratterizza la prassi matteana. Il primo richiamo deve essere fatto in tutta segretezza, “fra te e lui solo” (v. 15). Il fratello che ha mancato, deve poter sentire un richiamo carico di affetto e di sollecitudine fraterna, unitamente alla garanzia della riservatezza.
Questa prima tappa della correzione evita l’umiliazione di un richiamo pubblico, che potrebbe portare la conseguenza del rifiuto e della ribellione. In un dialogo fraterno e riservato, qualunque uomo ragionevole è capace di tornare in se stesso e riconoscere i suoi sbagli. In questo caso, la prima tappa della correzione è anche l’ultima: “avrai guadagnato tuo fratello” (v. 15). Se il caso è particolarmente intricato e complesso, o se il fratello che ha mancato rifiuta la logica di chi lo corregge, allora subentra la seconda tappa: l’intervento e il giudizio oggettivo di due o tre testimoni può ricondurre alla ragionevolezza il fratello che ha mancato gravemente. La terza tappa subentra a causa di una persistenza nell’errore: l’intervento dell’assemblea cristiana diventa risolutivo, perché non ascoltare la Chiesa implica esserne fuori, come “un pagano e un pubblicano” (v. 17). L’intervento dell’assemblea viene poi giustificato alla luce del “potere delle chiavi”, che si esprime biblicamente nell’atto di sciogliere e di legare. Sono questi i due medesimi termini usati da Gesù a Cesarea di Filippo in riferimento al primato di Pietro: a lui Cristo conferisce l’autorità di sciogliere e di legare, ossia di governare legittimamente la Chiesa e di esercitare un magistero autentico. La comunità cristiana partecipa di questa autorità nei suoi gesti ufficiali: l’intervento della comunità cristiana nella sua totalità, o dei suoi responsabili, in risposta a un grave problema che la travaglia, è insomma un atto legittimo e risolutivo.
Questo tema non viene ulteriormente sviluppato da Matteo, visto che i libri sapienziali, ben noti alla comunità mattana, ne trattano ampiamente. Sarà forse opportuno riprenderne le linee essenziali, ampliando la prospettiva a tutto il NT. Per i libri sapienziali, la caratteristica principale dell’uomo stolto è quella di credersi saggio. Il libro dei Proverbi invita infatti la persona a non ritenere mai di avere il possesso di tutta la verità: “Confida nel Signore con tutto il cuore e non appoggiarti sulla tua intelligenza; non credere di essere saggio” (3,5.7). E ancora: “nella bocca dello stolto c’è il germoglio della superbia” (Prv 14,3); “piega il cuore alla correzione” (Prv 23,12). Ne consegue che solo il saggio, benché meno bisognoso, può accettare la correzione fraterna, mentre lo stolto, credendosi sapiente, rifiuta qualunque parola di consiglio: “gli stolti disprezzano la sapienza e l’istruzione” (Prv 1,7); “chi odia la correzione è stolto” (Prv 12,1). Prima di intraprendere la correzione fraterna bisogna perciò capire che tipo di uomo è colui che mi sta davanti e che, a mio modo di vedere, necessita di una parola di correzione.
Solo se è un saggio mi ascolterà. E mi ascolterà anche se io, nel correggerlo, sto sbagliando: “correggi il saggio ed egli ti amerà” (Prv 9,8). L’uomo saggio non si pone mai sugli scanni del giudice e perciò accoglie e ascolta tutti con sommo rispetto, come se tutti fossero sul suo stesso piano. In realtà molti gli sono inferiori nella statura morale. Il libro dei Proverbi aggiunge che “il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (3,12).
La correzione è amore. La nostra imperfezione e la nostra immaturità spirituale ci può portare a correggere gli altri nella maniera errata, con parole errate, con un tono di voce errato: “una risposta gentile calma la collera, una parola pungente eccita l’ira” (Prv 15,1), e in un momento inopportuno: “quanto i tuoi occhi hanno visto non metterlo subito fuori in un processo” (Prv 25,7-8); “hai visto un uomo precipitoso nel parlare? C’è più da sperare in uno stolto che in lui” (Prv 29,20); “c’è un rimprovero che è fuori tempo” (Sir 20,1); “l’uomo saggio sta zitto fino al momento opportuno; chi abbonda nel parlare si renderà abominevole e chi vuole assolutamente imporsi sarà odiato” (Sir 20,7-8).
Al tempo stesso, però, guardando le cose da un altro versante, è ancora la nostra imperfezione e la nostra immaturità spirituale ciò che ci fa prendere con le disposizioni d’animo sbagliate una correzione giusta. In definitiva, non capiamo che anche questo è amore.
Il libro dei Proverbi esorta a non correggere affatto una determinata categoria di persone: “Chi corregge il beffardo se ne attira il disprezzo, chi rimprovera l’empio se ne attira l’insulto; non rimproverare il beffardo per non farti odiare” (Prv 9,7-8). E ancora: “Se un saggio discute con uno stolto, si agiti o rida, non vi sarà alcuna conclusione” (Prv 29,9). Vi sono dunque persone la cui reazione è così negativa dinanzi a un consiglio correttivo, che è più dannoso correggerli che lasciarli andare per la loro strada. La correzione fraterna esige perciò grande discernimento e acuta analisi delle persone e dei loro caratteri: “Un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso” (Sal 64,7).
Il libro del Siracide, dal canto suo, ci avverte che non tutti coloro che ci si accostano per darci un consiglio devono essere ascoltati, perché non tutti sono abbastanza illuminati da poter dare una valida correzione: “siano molti coloro che vivono in pace con te, ma i tuoi consiglieri uno su mille” (Sir 6,6). Molti possono persino turbarci con le loro parole, pronunciate anche in buona fede per aiutarci. Ma non tutti sono in grado di compiere con esito positivo il difficile compito della
correzione fraterna. Certo, un neofita, e chiunque non abbia una sufficiente maturità di cammino, è bene che non si cimenti in un’opera così impegnativa e al tempo stesso delicata: “prima di parlare, impara” (Sir 18,19). Dall’altro lato, “chi si fida con troppa facilità è di animo leggero” (Sir 19,4), e perciò viene facilmente turbato dal primo che arriva e parla. Al contrario, “il consiglio del saggio è come una sorgente di vita” (Sir 21,13). Significa che chi riesce a distinguere la persona degna di ascolto e ne accoglie il consiglio, sta sicuro sulla via della vita: “chi trascura la correzione si smarrisce” (Prv 10,17). Se quindi dalla parte di chi viene corretto occorre prima saper distinguere bene uomo da uomo per capire chi, tra tutte le persone che parlano, è abbastanza santo da potermi dare un consiglio giusto, o una correzione illuminata, dalla parte di chi consiglia o corregge si richiede invece un grande controllo e sobrietà della parola: “recingi pure la tua proprietà con siepe
spinosa, lega in un sacchetto l’argento e l’oro, ma controlla anche le tue parole pesandole e chiudi la tua bocca con porte e catenaccio” (Sir 28,24-25). E ancora: “il molto parlare non è mai senza colpa” (Prv 10,19).
Nel NT il tema della correzione fraterna ritorna in diversi altri contesti. Nella lettera ai Romani, la prospettiva della correzione fraterna è subordinata a una formazione completa del cristiano: “Fratelli miei, voi pure siete pieni di bontà, colmi di ogni conoscenza e capaci di correggervi l’un l’altro” (Rm 15,14). Non vi è dunque alcun organismo preposto alla correzione fraterna, piuttosto essa si realizza negli ordinari dinamismi dei rapporti interpersonali, ma sulla base dell’amore e della conoscenza, ossia i due elementi chiave del cammino cristiano.
Nella lettera ai Galati il tema ritorna in questi termini: “Fratelli qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza” (Gal 6,1). Anche qui la formazione cristiana è il fondamento di ogni correzione fraterna: “voi che avete lo Spirito”, ovvero voi che vivete nella grazia dei cristiani maturi, “correggetelo con dolcezza”. Non chiunque deve assumersi il compito della correzione, ma i cristiani maturi, né esso deve essere realizzato con qualunque metodo ma solo con la dolcezza.
Una dolcezza che però non deve degenerare in debolezza (cfr. Tt 1,13). Se poi il fratello si indurisce e non ascolta nessuno, si segue il dettato dell’evangelista Matteo.
Talvolta le misure drastiche sono suggerite anche dall’Apostolo Paolo, specialmente a proposito dell’insegnamento apostolico: “Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, non trattatelo però come un nemico ma ammonitelo come un fratello” (2 Ts 3,14-15). L’Apostolo fa intendere pure che occorre un tatto pastorale idoneo alle diverse categorie di persone: “Non essere aspro nel riprendere un anziano; i giovani come fratelli…” (1 Tm 5,1); oppure, nel caso di gente amante di polemiche, non illudersi di cambiare il loro carattere a forza di parole: “dopo una o due ammonizioni, sta’ lontano da chi è fazioso” (Tt 3,10).
Il comandamento più grande
L’aspetto della carità come la disposizione del primato di Dio nel cuore umano, emerge in un dialogo, riportato dai Sinottici, tra Gesù e un dottore della Legge. Il dialogo è riportato in modo succinto da Matteo 22,34-40 e in modo leggermente più esteso da Marco 12,28-34. L’evangelista Luca riporta un dialogo il cui contenuto è lo stesso, anche se la risposta risolutiva è pronunciata dal dottore della Legge e non da Gesù. Il testo poi continua con una parte propria di Luca, che è la parabola del buon samaritano: Lc 10,29-37.
Leggiamo innanzitutto il testo di Marco, visto che Matteo vi è interamente contenuto. Alla domanda sul primo dei comandamenti, Gesù risponde che il primo è quello che comanda l’amore
assoluto e totalizzante per Dio. Ma va notato il modo in cui lo comanda: “Ascolta, Israele…” (Mc 12,29). In questa introduzione ci viene già detto in che modo Dio vuole essere amato: Dio si ama innanzitutto ponendosi in ascolto della sua Parola. Infatti, ascoltare è amare. Il secondo è simile al primo, e consiste nell’amare il prossimo come se stessi. Dal tenore dell’intero dialogo si comprende come Gesù stia rispondendo alla domanda del suo interlocutore ponendosi ancora dal punto di vista dell’AT. I due brani che Egli cita a sostegno della sua tesi appartengono entrambi al Pentateuco: rispettivamente Dt 6,4-5 e Lv 19,18.
Il fatto che Cristo consideri questi due testi basilari ma incompleti si vede anche dal seguito del discorso. Quando lo scriba replica, con un senso di ammirazione: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità…” (Mc 12,32ss), Gesù gli risponde: “Non sei lontano dal regno di Dio” (v. 34). Non essere lontano è cosa diversa che essere giunto alla meta. Cristo vede nella scriba un uomo senza dubbio retto nella coscienza, ma la comprensione e l’osservanza della Legge mosaica non possono portarlo se non nei pressi del regno. Per giungere al regno gli occorre ancora una ulteriore conoscenza che, a dire il vero, in questo momento, manca anche ai suoi discepoli. Si tratta di un “terzo” comandamento, ossia il “comandamento nuovo”, che non sarà rivelato se non durante l’Ultima Cena narrata dall’evangelista Giovanni. Ne faremo oggetto di analisi più avanti. Qui ci limitiamo a sottolineare che Cristo non mette sullo stesso piano l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo. Sono due grandezze diverse, anche se esprimono una realtà indivisibile. Le due affermazioni esistono già nella Scrittura, peraltro, come si è già notato, in due libri differenti del Pentateuco: “Amerai il Signore Dio tuo” e “Amerai il prossimo tuo”, ma è Cristo che le unisce stabilendo tra loro una gerarchia: “Il secondo è simile al primo” (Mt 22,39). L’amore verso il prossimo non solo è il “secondo” comandamento, ma è anche un comandamento “simile” al primo, e perciò non uguale. Dalle labbra di Cristo, ci vengono riproposte le medesime parole della Legge mosaica, ma con delle puntuali precisazioni. L’insegnamento molto chiaro di questa gerarchia che Cristo istituisce tra i due amori è che non può esistere amore di prossimo né autentico rispetto della persona umana, e dei suoi diritti fondamentali, laddove mancasse il primato di Dio. Si illudono perciò di dare culto a Dio, coloro i quali ritengono di poter sostituire la preghiera e l’ascolto della Parola con la carità assistenziale. Senza il primato di Dio, la carità assistenziale diviene pura filantropia, come quella che sono soliti avere gli atei dal cuore sensibile. Era proprio questo che Gesù voleva dire a Marta, allorché ella pensò di poter amare Cristo assistenzialmente, trascurando l’ascolto della sua Parola (cfr. Lc 10,38-42).
In Luca, il dialogo tra Gesù e il dottore della Legge considerato in se stesso è molto più stringato, ma si prolunga poi in un insegnamento riguardante l’amore del prossimo, mediante una parabola. Cristo risponde alla domanda del dottore della Legge, “E chi è il mio prossimo?” (Lc 10,29), con un racconto: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…” (v. 30). La domanda del
dottore della Legge suona alquanto strana, dal momento che il concetto di “prossimo” era molto chiaro per il giudaismo rabbinico. Nessuno dubitava che il “prossimo” fosse l’israelita, il parente del proprio clan familiare, o lo sconosciuto comunque discendente di Giacobbe. E’ vero che il Deuteronomio comanda di amare lo straniero (cfr. 10,19), ma rimane il fatto che egli è incirconciso e idolatra; e ciò scava una distanza incolmabile. Perfino nel NT abbiamo echi di questa disposizione mentale giudaica, nelle difficoltà che gli Apostoli incontrano nell’offrire i beni messianici ai gentili.
Quando Pietro, ispirato da Dio, battezza un centurione con tutta la sua famiglia, sente persino il bisogno di giustificarsi dinanzi alla comunità (cfr. At 10,44-48 e 11,1-18).
La risposta narrativa di Gesù fa saltare questo schema, insieme al significato che il linguaggio comune attribuisce alla parola “prossimo” anche oggi tra noi. Come gli ebrei, un po’ tutti siamo portati a pensare che il “prossimo” sia colui che mi è vicino. Del resto è la parola stessa che ce lo fa pensare: “prossimo” nella nostra lingua è sinonimo di “vicino”. L’idea è però quella dell’essere fermi in una determinata posizione. Se due persone stanno ferme, si può misurare la distanza che li separa; e se questa distanza è breve, diciamo che ciascuno dei due, rispetto all’altro, è “prossimo”. Questa concezione statica, che è sottesa anche alla domanda – probabilmente insidiosa; e ci spieghiamo così come mai una domanda su un’idea chiara per tutti - del dottore della Legge, non incontra il consenso di Cristo, il quale indica piuttosto una prospettiva e un significato dinamici: prossimo non lo si è, ma lo si diviene. E ciò non perché qualcuno mi è vicino, ma perché io mi faccio vicino a qualcuno (cfr. Lc 10,34). Le categorie consuete risultano così totalmente capovolte. La parabola intende esprimere proprio questa verità in termini narrativi.
Il dottore della Legge sapeva dell’annuncio di un amore universale insito nella dottrina di Cristo, e forse sperava di coglierlo in fallo, accusandolo di sottovalutare la distanza che l’elezione e la circoncisione hanno prodotto tra Israele e gli altri popoli. Dalla parabola, tuttavia, la verità e lo splendore di un amore “che si fa prossimo”, emergono in un modo così penetrante che l’osservanza meticolosa dei precetti mosaici appare perfino meschina. Le due figure rappresentative dell’Israele puro, il sacerdote e il levita, passano oltre senza curarsi del malcapitato, a motivo di una ostinata osservanza dei precetti mosaici, per i quali bisognava stare bene attenti a non contaminarsi con i
cadaveri; proibizione che per i sacerdoti era assoluta, con l’unica eccezione nel caso in cui il morto fosse un parente stretto (cfr. Lv 21,1-4). Quell’uomo definito da Gesù “mezzo morto”, e quindi svenuto (v. 30), è uno sconosciuto, per il quale vige la proibizione di non contaminarsi. Essi infatti non si avvicinano, per paura di scoprire, dopo averlo toccato, che si tratti di un cadavere. In questa maniera pongono il precetto della Legge al di sopra della persona e del suo bene, e decidono di conseguenza di passare oltre, senza appurare se quell’uomo sdraiato per terra sia morto o sia soltanto svenuto.
La figura che entra in scena successivamente, il samaritano in viaggio, che passa da quella medesima strada, è una figura di contrasto. Il levita e il sacerdote, di servizio al Tempio e a contatto continuo con le cose sacre, col pretesto di amare Dio non amano la persona umana; il samaritano, da essi considerato come un pagano, dimostra, pur senza saperlo, che l’amore è la legge superiore a tutte le altre leggi. Non vi è legge, per quanto santa, che possa autorizzare il disprezzo della persona umana. Ciò che distingue questo samaritano dagli altri due personaggi della parabola è “qualcosa” che gli succede nel cuore, alla vista di quell’uomo depredato e abbandonato a se stesso: “Lo vide e ne ebbe compassione” (v. 33), in contrasto con gli altri due, di cui si dice: “Lo vide e passò oltre” (vv. 31.32). Questo contrasto sembra voler dire che non è possibile rispettare contemporaneamente il primato di Dio e il primato dell’uomo, se il proprio cuore non è capace di compassione. E la compassione si manifesta sulla soglia dello sguardo. Non è un problema di ubbidienza a una legge: si tratta solo di avere un cuore umano. Quando questo manca, si cade nei due eccessi, entrambi erronei: o un amore a Dio che calpesta i diritti della persona umana, o un umanesimo eccessivo che calpesta i diritti di Dio.
Gli atteggiamenti del samaritano sono rivelativi delle esigenze della carità verso il prossimo. Il punto di partenza è il movimento interiore della compassione: “lo vide e ne ebbe compassione” (v. 33). Successivamente, l’altro diventa il mio prossimo, o, più precisamente, sono io che lo faccio diventare tale: “Gli si fece vicino” (v. 34). Infine, seguono due necessari atti di rinuncia: la rinuncia al proprio tempo; il samaritano quel giorno si ferma infatti con lui: “Il giorno seguente…” (v. 35); e la rinuncia a parte dei propri averi: “estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: quello che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno” (v. 35).
A questo punto Gesù si rivolge al dottore della Legge e gli chiede: “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?” (v. 36). Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui. E Gesù gli disse: Va’, e fai lo stesso anche tu” (v. 37).
La pericope successiva si inquadra perfettamente nell’insegnamento sulle caratteristiche peculiari dell’amore verso Dio e dell’amore verso il prossimo: la visita di Cristo a Betania. In un certo senso, è una ulteriore esplicazione narrativa, parallela alla parabola del buon samaritano: lì si descrivevano le caratteristiche del “prossimo”, insieme al modo di amarlo; qui si descrive come va amato Dio, ritornando così al vero significato del “primo comandamento”, introdotto da un imperativo: “Ascolta, Israele” (Mc 12,29). Marta e Maria entrambe accolgono Cristo e gli manifestano il loro amore, ma solo Maria lo fa secondo l’imperativo del Deuteronomio (6,5), sedendosi ai piedi di Gesù per ascoltare la sua Parola.
L’ultimo insegnamento del Maestro
L’attività di Gesù come Maestro si è conclusa con la fine del suo ministero pubblico, avendo chiarito al mondo ogni verità, ma l’insegnamento sull’amore non si è concluso e ha raggiunto il suo vertice sulla sua ultima cattedra: la croce, prolungandosi poi nelle parole e negli atteggiamenti del Risorto. Cercheremo adesso di ripercorrere queste ultime fasi del racconto evangelico, partendo dai dialoghi dell’Ultima Cena, per evidenziarne le allusioni alla carità teologale.
Il vertice dell’insegnamento di Gesù sulla carità teologale è raggiunto nell’enunciazione del “comandamento nuovo” (Gv 13,34). Nel suo dialogo col dottore della Legge, Gesù aveva parlato di “due” comandamenti, disposti gerarchicamente, così che si possa parlare di un “primo” e di un “secondo” comandamento. Nel corso dell’Ultima Cena, affidando ai discepoli le ultime istruzioni, Egli ritorna sul tema dell’amore, unificando i due comandamenti in uno solo. Non si tratta però di annullare o di sostituire quanto Egli stesso aveva detto al dottore della Legge, bensì di indicare la perfezione della carità; in fondo, anche col giovane ricco aveva fatto la stessa cosa: lo aveva approvato per la sua osservanza fedele del Decalogo (Mc 10,21), ma gli aveva indicato, al tempo stesso, l’esistenza di una meta più alta (cfr. Mt 19,21). Se l’AT stabilisce che la misura dell’amore verso Dio è data dall’ascolto della sua Parola (“Ascolta, Israele”) e la misura dell’amore verso il prossimo è data dal
bene che si desidera per se stessi (“Amerai il prossimo tuo come te stesso”), nell’ordine nuovo della perfezione c’è una misura che rappresenta il vertice assoluto per entrambi gli amori: il modo di amare proprio del Maestro: “come Io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,24).
Chi, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, supera le due misure precedenti e assume la misura nuova, che è Cristo stesso, compie in modo totalmente perfetto le due esigenze della Legge antica. E’ ovvio che non si arriva a questa nuova misura, senza avere attraversato le due precedenti. Ingannerebbe se stesso, chi volesse lanciarsi verso il troppo perfetto, senza essersi sufficientemente allenato in ciò che lo è meno. Questo livello del “comandamento nuovo”, rispetto ai due indicati da Gesù al dottore della Legge, può essere infatti identificato con quella che la terminologia della spiritualità suole definire “seconda conversione”. Vale a dire, lo stadio di una ulteriore maturazione delle virtù teologali, che si dispongono a crescere verso il loro livello eroico.
Il “comandamento nuovo”, prima di essere enunciato, viene rappresentato da Gesù con un gesto che scandalizza gli Apostoli: “Versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli” (Gv 13,5). Quel gesto, così strano ai loro occhi, ha un altissimo valore, tanto che Cristo richiama di proposito su di esso l’attenzione dei suoi discepoli: “Quando dunque ebbe lavato loro i piedi, sedette di nuovo e disse loro: Sapete ciò che vi ho fatto?” (Gv 13,12). E’ quindi vitale che essi capiscano il gesto del Maestro, perché d’ora in poi sarà proprio questa la misura della perfezione cristiana. Il cristiano insomma è perfetto, quando ha raggiunto la perfezione della carità nella sua duplice direzione; e Gesù ha voluto racchiudere in un’icona questa fondamentale verità. La lavanda dei piedi rappresenta la perfezione della carità, perché amare come Cristo significa essere
disponibili a morire per gli altri: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Il gesto stesso di deporre le vesti (Gv 13,4) e poi di riprenderle (Gv 13,12), è espresso dall’evangelista negli stessi termini della morte e della resurrezione: “Io offro (depongo) la mia vita per poi riprenderla di nuovo” (Gv 10,17). Affermare che un amore più grande di questo non possa esistere, equivale quindi a dire che tutte le misure possibili sono state superate dal suo modo divino di amare e che il limite massimo è stato toccato da Lui stesso. Dall’istante della sua morte di croce in poi, sarà possibile ai suoi discepoli giungere a questo confine, dopo un lungo cammino, ma nessuno lo potrà mai oltrepassare. In questo punto, l’uomo tocca perciò la dimensione della divina perfezione, identificata da Cristo nella sua autoconsegna alla morte. Infatti, se il Dio trascendente manifesta la sua perfezione donando la pioggia ai giusti e agli ingiusti (cfr. Mt 5,45-48), il Dio fatto uomo, la manifesta accettando di morire per il Padre e per l’umanità. Il “comandamento nuovo” non è altro che questa medesima misura applicata alla vita dei suoi discepoli di tutti i tempi.
Ci si può chiedere certamente in che modo, o per quali vie, possa tradursi in atteggiamenti pratici il modello divino della lavanda dei piedi. A questo genere di interrogativo, nessuno schema sarebbe mai sufficiente a rispondere in maniera piena.
Sarà lo Spirito di Dio, il Maestro interiore, a indicare al cristiano, di volta in volta, la giusta risposta dell’amore. Tuttavia, si può tentare di individuare qualche nucleo principale, o qualche denominatore comune, che possa ripresentarsi frequentemente.
Si potrebbe innanzitutto considerare Romani 12,1 come un testo chiave: “Vi esorto, fratelli, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio”. La qualità del rapporto con la propria vita fisica è un segno indicatore del livello della carità, intesa come applicazione del modello della lavanda dei piedi. La vita fisica contiene già tutti gli elementi per la ricerca di se stessi, ed è certo un segnale preoccupante quando la nostra unica reazione, agli eventuali disagi piccoli o grandi, sia l’impazienza, cioè l’incapacità di sopportazione di ciò che è sgradito. L’impazienza è un segno certo di non amore, se la carità si misura sulla disponibilità ad offrire se stessi. Del resto, la pazienza è la virtù sulla quale si può trasformare la propria vita quotidiana in una piccola eucaristia. Diversamente, si rischia di sciupare tutto. L’ambito privilegiato dell’offerta eucaristica di se stessi è il lavoro quotidiano, con il suo carattere di fatica e di logoramento della nostra resistenza. Per il cristiano è questa una partecipazione continua al mistero della croce. Infatti, oltre alla naturale fatica connessa al lavoro, vi sono in esso anche molteplici elementi di abnegazione e di rinuncia a se stessi. Almeno, quando il lavoro è concepito come un servizio alla comunità umana. E il cristiano certamente lo concepisce così. A questa costante e quotidiana eucaristia, si aggiungono l’invecchiamento e la malattia, che vanno vissuti come un sacrificio spirituale; e poi tutte quelle situazioni nelle quali una motivazione d’amore mi costringe a
rinunciare a qualcosa che avrei potuto avere, o di materiale o di morale. Anche qui il cristiano si sente chiamato dal suo Signore a chinarsi e a lavare i piedi al suo prossimo, quando le circostanze lo richiedano.
L’amore secondo lettere apostoliche
La prima lettera ai Corinzi: l’inno alla carità (1 Cor 13,1-13)
Il testo paolino più importante sul tema della carità è certamente quello della prima lettera ai Corinzi, all’inizio del capitolo 13. Qui l’Apostolo presenta una sorta di elenco di disposizioni interiori suggerite dalla virtù della carità teologale. Sarà opportuno mettere in evidenza le più significative.
I primi tre versetti focalizzano intanto una verità teologica di grande portata: il valore delle opere non risiede nelle opere stesse. Neppure tutti i doni di conoscenza e di profezia messi insieme riescono a raggiungere la soglia minima del merito davanti agli occhi di Dio, in assenza della carità teologale. Ma c’è di più. Il v. 3 suppone l’esistenza del paradosso che perfino le opere relative alla carità possano essere compiute senza la carità: “E se anche distribuissi tutte le mie sostanze… ma non avessi la carità, niente mi giova”. In definitiva: le opere sogliono esercitare una notevole fascinazione sulla nostra sensibilità, specialmente quando si presentano con la veste dell’eroismo. L’Apostolo sembra voler demolire alla radice quella che, nella seconda lettera ai Tessalonicesi, si presenterà come la strada maestra dell’inganno dell’Anticristo: il fascino delle opere (2,9-10). Qui viene rimarcato con forza il dato dell’autentica dottrina cristiana: agli occhi di Dio, le opere valgono in forza dello stato di grazia di colui che le compie. Diversamente, le opere acquisterebbero uno statuto indipendente dalla persona, e questo sarebbe del tutto irragionevole. Anzi, è proprio sulla base di questa dissociazione tra la persona e le sue opere, che lo spirito dell’anticristo può agire mediante i falsi profeti, generando inganno e menzogna. Per capire l’assurdità di una tale dissociazione, basti pensare a uno stesso gesto compiuto da due diversi soggetti: se vado a trovare un amico, al mio ingresso nella sua casa, egli mi verrà incontro facendomi festa, ma probabilmente anche il suo cane mi verrà incontro, facendomi festa. Il gesto è identico, ma il soggetto è diverso. Non c’è dubbio che anche lo scodinzolare del suo cane possa rallegrarmi, ma rimane il fatto che l’accoglienza personale del mio amico è di tutt’altra natura. Essa, ai miei occhi, riveste un valore incomparabilmente più alto. Così le opere compiute da chi vive in grazia di Dio, differiscono sostanzialmente, sul piano del merito, da quelle di chi è privo della grazia santificante.
Questa prospettiva paolina ci spinge a un’ulteriore riflessione: se le opere acquistano valore in forza della carità teologale, allora dobbiamo concludere che la virtù teologale della carità è il segnale visibile dello stato di grazia. Per tradurre l’enunciato in termini pratici, si potrebbe dire che si può dedurre quanto uno è in grazia da quanto egli ama. La qualità dell’amore, manifestato nel proprio stile di vita, rende visibile lo stato di grazia. Del resto, la dottrina che sta alla base dei processi di beatificazione è proprio questa: si indaga innanzitutto sulla eroicità delle virtù, e con la definizione “eroicità delle virtù” si intende dire che uno ha vissuto nella perfezione della carità. Infatti, quando la carità teologale raggiunge il suo massimo sviluppo, simultaneamente tutte le virtù della persona sono eroiche. Dopo avere accertato ciò in sede di tribunale ecclesiastico, si attende un primo miracolo per la beatificazione e un secondo miracolo per la canonizzazione.
Dal v. 4 l’Apostolo Paolo si sofferma su alcune disposizioni pratiche che si concretizzano negli atteggiamenti di chi vive sotto l’ispirazione della carità teologale. In cima alla lista, sta la pazienza: “La carità è paziente”. Il primo atteggiamento concomitante alla carità è la pazienza, perché chi non possiede questa virtù non può amare in senso cristiano. Non può amare né Dio né il prossimo. La carità teologale consiste infatti nell’amare, senza cercare un beneficio per sé; e ciò sia nei riguardi di Dio, sia nei riguardi dell’uomo. Chi manca di pazienza può amare solo quando l’atto di amore offre un ritorno simultaneo. E il motivo è molto semplice, persino ovvio per chiunque abbia un pizzico di maturità umana. Riguardo a Dio: se io prego e Dio mi consola interiormente, io sarò spontaneamente portato a pregare ancora; ma se Dio mi toglie la consolazione interiore, potrò perseverare solo se avrò la virtù della pazienza. Riguardo agli uomini: se io compio un gesto d’amore ed esso mi viene ricambiato, per me è facile riempire il mio animo di sentimenti positivi verso la persona da me beneficata;
ma se questo gesto presuppone delle rinunce o risulti privo di una risposta umana gratificante (come nella parabola del buon samaritano, dove il gesto d’amore è costoso e privo di gratificazione umana, visto che non si dice cosa quel malcapitato abbia fatto per il suo soccorritore), potrò continuare ad amare quella persona solo se avrò la virtù della pazienza.
La prima lettera ai Corinzi: l’inno alla carità (1 Cor 13,1-13)
Un esempio di pazienza come virtù è dato dalla seconda lettera ai Corinzi, dove l’Apostolo chiede a Dio di essere liberato da un inviato di Satana. In un momento di grande difficoltà e di rapporti piuttosto tesi con la comunità di Corinto, l’Apostolo risponde alle obiezioni che gli vengono mosse mediante una lunga riflessione sui caratteri propri del ministero apostolico. Essenzialmente, l’autenticità dell’apostolato si riconosce attraverso quei segni che costituivano un rimprovero lanciato contro di lui: uno stile dimesso, paziente, umile, alieno da pose da protagonismo. Paolo, però, per amore della verità, e data l’emergenza delle circostanze, vuole sottolineare che a lui non mancano né le rivelazioni né le grandi esperienze carismatiche, benché non è su questo che deve fondarsi la credibilità dell’apostolato. Se i corinzi le ignorano è perché lui non ama fregiarsene. Ma ci sono. Narrando una di queste esperienze mistiche - un rapimento il cui oggetto sembra che sia la visione beatifica - accenna a un particolare dal quale possiamo cogliere il senso della virtù della pazienza nelle cose che riguardano Dio: “Perché non insuperbissi per la grandezza delle rivelazioni, mi è stato messo un pungiglione nella carne, un messo di Satana che mi schiaffeggi... Tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me. Mi rispose: Ti basta la mia grazia” (2 Cor 12,7-8). Ci sembra di estremo significato questo decreto del Signore, che ha ritenuto opportuno agire in senso contrario rispetto alla richiesta del suo apostolo. In sostanza, Paolo gli chiedeva nella preghiera di essere liberato da questo misterioso messo di Satana che lo schiaffeggiava, ma Dio giudica opportuno che questo messo continui a schiaffeggiarlo. Il nostro bene, infatti, non sempre si identifica con la “liberazione” materiale da ciò che ci affligge. Le ragioni della santità sono superiori alle esigenze della nostra sensibilità. Talvolta, la santità si accresce proprio in forza di una afflizione fisica o morale, a condizione che Dio ci conservi nella sua grazia. Ed è questa la cosa più necessaria che Dio garantisce infallibilmente al suo apostolo: “Ti basta la mia grazia”. Tale grazia che trasforma l’afflizione in un potente trampolino verso le vette della santità, viene invalidata e resa inefficace dall’impazienza umana che, invece di abbandonarsi all’opera del vasaio, si irrigidisce impedendo all’artista di perfezionare ulteriormente la sua opera.
C’è però anche una virtù della pazienza nelle cose che riguardano gli uomini, e Paolo ne fa cenno nella lettera ai Galati. La Galazia era stata evangelizzata dall’Apostolo durante il secondo e il terzo viaggio missionario. Dopo la partenza di Paolo, però, si infiltrarono nella comunità dei predicatori giudaizzanti, screditando la dottrina aperta e di ampio respiro che Paolo vi aveva seminato. Questi negavano a Paolo il carisma apostolico e dicevano che la fede non basta per ricevere lo Spirito se non ci si sottopone anche ai precetti giudaici. Quando l’Apostolo viene a conoscenza di tutto questo, gli sembra che la sua opera di evangelizzazione in Galazia rischi di andare in fumo. Perciò scrive una lettera dai toni molto forti, per riaffermare che non esiste un vangelo diverso da quello annunciato da lui e che il carisma apostolico gli è stato conferito direttamente dal Risorto. L’amore verso il prossimo, in questo specifico episodio, assume per l’Apostolo Paolo i caratteri della virtù della pazienza, giacché sarebbe stato impossibile per un uomo dominato dalla impazienza, ricominciare da capo un’opera preziosa, dopo che sia stata guastata fino alle radici. Non a caso, nelle lettere a Timoteo e a Tito la virtù della pazienza è una di quelle più fondamentali nella personalità di un pastore: “Ma tu, uomo di Dio, tendi alla pazienza, alla mitezza” (1 Tm 6,11); e lo stesso Paolo, quasi a commento delle esigenze del proprio ministero apostolico, dice: “Sopporto ogni cosa per gli eletti” ( 2 Tm 2,10). La virtù della pazienza è dunque direttamente ispirata dalla carità.
La seconda disposizione della carità, secondo l’ordine presentato da 1 Corinzi 13, è la benignità (cfr. v. 4). La benignità è quella condizione interiore pienamente positiva che non lascia spazio a pensieri, sentimenti, idee e decisioni improntate a forme di ostilità verso il prossimo.
Questo non comporta però ingenuità infantile o cecità: “Siate bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi” (1 Cor 14,20). La benignità, ovviamente, non è il buonismo. Cristo non è mai buonista; anzi, Egli non teme di pagare di persona, quando si tratta di affermare i diritti della verità. Il buonismo, ossia quell’atteggiamento di chi, per amore di una fraintesa pace, chiude gli occhi sui mali reali del proprio ambiente, non è compatibile col cristianesimo. E’ solo vigliaccheria camuffata da virtù. Dall’altro lato, lo zelo per i diritti della verità non deve essere praticato contro i diritti dell’amore: “La libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne” (Gal 5,13). Anche la questione degli idolotiti si muove sullo stesso versante (cfr. 1 Cor 8,1ss).
La prima lettera ai Corinzi: l’inno alla carità (1 Cor 13,1-13)
La carità si presenta con un carattere fondamentalmente umile negli appellativi che seguono: “non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto” (vv. 4-5). Sono espressioni non bisognose di commento e che richiamano quelle, in certo modo parallele, della lettera di Giacomo: “La sapienza che viene dall’alto è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia” (3,17). Particolarmente degne di attenzione, in riferimento agli atteggiamenti specifici della carità teologale, sono due espressioni paoline del v. 5: “non cerca il suo interesse, non tiene conto del male ricevuto” e poi poco più avanti: “Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (v. 7). Tipico della carità teologale è la ricerca della felicità altrui e la dimenticanza del male ricevuto. I due atteggiamenti sono complementari e interdipendenti, dal momento che nessuno dei due è realmente autentico senza l’altro. Il modello dell’amore, che Gesù consegna ai suoi discepoli prima di lasciarli, consiste nell’icona della lavanda dei piedi; nel fatto di chinarsi a lavare i piedi ai suoi discepoli, Cristo visibilizza la disposizione perenne di Dio, nel suo instancabile servizio in favore della vita, ma rende anche visibile, in modo plastico, il suo stile di vita come uomo, continuamente proiettato nel donare la gioia agli altri, noncurante della propria. Non solo indifferente alla propria gioia, ma persino dimentico della persecuzione che non gli dà tregua dal grembo materno fino ai suoi ultimi istanti di vita. Muore, infatti, pronunciando parole di assoluzione per la durezza umana e rinunciando al giudizio (cfr. Lc 23,34), finché il Padre stesso non lo autorizzerà a sedersi sugli scanni dell’ultimo tribunale (cfr. Mt 25,31).
Anche il v. 7 indica delle disposizioni irrinunciabili per chi vuole vivere la carità teologale: dicendo che “la carità tutto copre”, l’Apostolo non ha certo voluto dire che la carità di un cristiano consiste nell’offrire copertura e falsa testimonianza ai malfattori; nessun uomo sano di mente lo penserebbe. E’ chiaro allora che il senso del “coprire tutto” non va letto nella linea della complicità col male, bensì nella linea di una custodia del buon nome di tutti, quando non sia né utile né necessario scoprire gli altarini altrui. Si può venire a sapere molto sugli sbagli altrui, ma a che giova farsene banditori? Diverso è il caso di chi, informato sui fatti, viene chiamato a rendere testimonianza in tribunale; lì non ha più senso “coprire” il colpevole, se a questa copertura può conseguire la condanna di un innocente. Ancora diverso è il caso, senza giungere all’esempio estremo dei tribunali, in cui, nel mondo del lavoro o nella vita sociale, sia opportuno manifestare una determinata colpevolezza solo a chi può porvi un rimedio senza creare scandali ed evitare così che la furbizia di un solo uomo possa danneggiare, nei loro diritti fondamentali, i colleghi leali o i cittadini onesti. All’infuori della custodia del bene comune – cioè quando la copertura di una colpa di un soggetto non genera un danno a terzi – il cristiano custodisce il buon nome della persona, se non ci sono gravi ragioni per renderla nota all’autorità costituita. Semmai, il cristiano ricorrerà, quando la sua prudenza glielo suggerirà, alla correzione fraterna o al dialogo privato, nella speranza di un miglioramento.
Si tratta comunque di indicazioni di principio, ma ciascuno, nella propria maturità umana e cristiana, saprà come applicarle alle molteplici situazioni particolari che la vita ci sottopone. Sulla carità che “tutto copre”, l’esempio più eloquente è rappresentato dal comportamento che Cristo tiene nei confronti di Giuda. Cristo non ignorava nulla delle macchinazioni del suo Apostolo.
Durante l’Ultima Cena, gli evangelisti riportano una dichiarazione di Gesù che scuote profondamente il gruppo dei Dodici: “In verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con Me, mi tradirà” (Mc 14,18). Matteo e Giovanni mantengono più o meno la stessa formulazione di Marco, mentre Luca si esprime con una leggera variazione: “Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito!” (Lc 22,22). Il particolare che in questa circostanza ci colpisce è il fatto che nessun Apostolo sospetta di Giuda. Pietro chiede a Giovanni di informarsi lui (cfr. Gv 13,24-25), mentre i Dodici, ora l’uno ora l’altro, chiedono a Gesù: “Sono forse io?” (Mc 14,19). Ma come? Uno dei Dodici ha tradito il Maestro e nessuno, nel gruppo apostolico, fino all’ultimo, ha sospettato niente? Inoltre, quando Gesù annuncia il tradimento, il nome di Giuda non viene in mente a nessuno dei presenti.
La prima lettera ai Corinzi: l’inno alla carità (1 Cor 13,1-13)
E’ un particolare senza dubbio strano e si può spiegare solo in un modo: Cristo ha nascosto agli altri Apostoli la verità inquietante di Giuda e il carattere sinistro della sua personalità. In questo caso, la conoscenza delle macchinazioni di Giuda avrebbe portato solo un male maggiore in seno al gruppo apostolico. E’ proprio questo il caso in cui il cristiano non divulga le colpe degli altri e non ne parla con le persone sbagliate: quando il parlarne non produce nulla se non un male che si aggiunge al male.
Inoltre, l’Apostolo dice che la carità “tutto crede” (v. 7), e ciò getta una grande luce sulla capacità o incapacità di credere e di fidarsi. L’eccessivo criticismo, che tanto piace agli uomini di mondo, e che per molti è una dimostrazione di intelligenza, tanto che non di rado la gente si gloria di non essere ingenua, in realtà, per la visione cristiana della cose, il più delle volte si radica nell’amor proprio e non nell’amore alla verità. Dire che l’amore “tutto crede” equivale a dire che, molto spesso, l’indisponibilità a credere, professata sotto l’aspetto nobile del raziocinio, nasconde la causa reale che è il non amore per la verità. Lo stesso vale per la speranza. Evidentemente, né la fede né la speranza possono esistere da sole, in assenza della carità. La carità, inoltre, “non avrà mai fine” (v. 8), vale a dire: l’amore teologale è la qualità dell’essere eterno. O per meglio dire, l’eternità si nutre d’amore, perché l’amore è Dio. Chi entra nella dimora dei santi, ossia nella Gerusalemme celeste, dove Dio dimorerà per sempre con l’umanità, entra nell’amore. Ma questo ci introduce già nella profonda riflessione teologica dell’Apostolo Giovanni nella sua prima lettera.
La prima lettera di Giovanni: alle sorgenti dell’Amore
Giovanni descrive l’amore teologale a partire dalla sua sorgente trinitaria: “La nostra comunione è col Padre e col Figlio” (1,3). Tale esperienza di comunione – che è cosa diversa dall’amicizia, dalla benevolenza o dalla simpatia, e da qualunque altro sentimento che lega umanamente due o più persone – è di origine divina e si realizza in forza della predicazione apostolica: “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1,3). La comunione fraterna, poi, è il luogo della guarigione totale della persona: “siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù ci purifica da ogni peccato” (1,7). La perfezione dell’amore si raggiunge nell’osservanza della Parola di Dio: “chi osserva la sua Parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto” (2,5) e si realizza nella misura in cui la propria vita è una replica di quella di Cristo: “chi dice di dimorare in Cristo deve comportarsi come Lui si è comportato” (2,6). Al contrario, chi conserva ancora nella propria personalità degli atteggiamenti di ostilità verso il prossimo, non è ancora pervenuto alla piena luce della carità teologale: “chi odia suo fratello è nelle tenebre” (2,11; cfr. 3,10). La cattiveria altrui, insomma, non è mai, per un autentico discepolo, una motivazione che possa giustificare qualsivoglia ostilità; potrà semmai giustificare la prudenza, ma non il malanimo. Un secondo segnale che testimonia contro la carità teologale è il grado di attaccamento al mondo: “Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (2,15).
Che cosa sia esattamente il “mondo”, viene subito dopo spiegato da Giovanni in termini di concupiscenza e di superbia (cfr. 2,16). Il fermento delle passioni umane e la tendenza a costruire un trono per il proprio “io”, tutto ciò è il “mondo” giovanneo, che è incompatibile con i sentimenti suggeriti dalla carità teologale. Di fatto, l’inclinazione verso queste disposizioni, frena lo sviluppo della carità e impedisce, di conseguenza, il cammino di perfezione.
La carità teologale crea, tra coloro che la possiedono, una intesa profonda e l’impressione di conoscersi al di là dell’esperienza. I figli di Dio si riconoscono tra loro in forza di un’intuizione divina che è amore soprannaturale, così come rimangono sconosciuti al “mondo”: “La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto Lui” (3,1). Ma ciò presuppone necessariamente che chi ha conosciuto Lui, conosca chi sono i suoi veri figli. E ciò, ripetiamo, non in forza dell’esperienza, ma in forza della luce del discernimento spirituale. L’Apostolo Paolo esprime lo stesso concetto nella prima lettera ai Corinzi: “L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio” (1 Cor 2,14). Ma chi vive nello Spirito distingue coloro che lo Spirito ha generato dall’alto.
La prima lettera di Giovanni: alle sorgenti dell’Amore
In 3,15 troviamo un singolare commento al quinto comandamento: “Chiunque non ama il proprio fratello è omicida”. Si tratta senz’altro di un’affermazione molto radicale, che va compresa all’interno del discepolato cristiano. Sembra riecheggiare l’insegnamento del Maestro nel discorso della montagna: “Avete inteso che fu detto: non uccidere; ma Io vi dico: chiunque si adira col proprio fratello…” (Mt 5,21-22). E’ tipica del discepolato cristiano la radicalizzazione del Decalogo e la sua comprensione secondo lo spirito, al di là della lettera. L’intenzione di Dio non è quindi soltanto quella di proibire l’assassinio, ma quella di tutelare la dignità della persona. Ma nelle parole di Giovanni sembra di cogliere anche un’altra sfumatura: l’amore è l’origine dell’uomo, ma è anche la sua destinazione: Dio ci ha creati per amore, ma ci ha creati anche per l’amore; di conseguenza, l’amore è l’unica atmosfera in cui la persona umana può vivere, e per questo sottrargliela è la stessa cosa che uccidere. Ma c’è un secondo motivo per il quale non amare è lo stesso che uccidere: chi non ama impedisce al prossimo di conoscere Dio. L’Apostolo lascia intendere che la conoscenza di Dio è possibile soltanto nell’esperienza dell’amore: “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi” (4,12). Il senso di questa espressione sembra andare in una linea rivelativa: nessuno in questo mondo può vedere Dio, eppure Lui è presente in una comunità dove regna l’amore. La presenza di Dio nel circuito dell’amore è dunque l’unica possibilità di conoscerlo in questo mondo. Al contrario, la negazione dell’amore rende impossibile a Dio il rendersi presente tra gli uomini; di conseguenza, il non amore sbarra la strada del prossimo verso Dio, impedendogli di accedere alla conoscenza di Lui, nella quale consiste la vita eterna (cfr. Gv 17,3). Impedire al prossimo di conoscere Dio è quindi la maniera più radicale e più sofisticata di ucciderlo; ed ecco il vero senso dell’espressione apparentemente iperbolica dell’Apostolo: “Chiunque non ama il proprio fratello è omicida” (3,15).
Per Giovanni, Dio entra nel circuito dell’amore umano, trasformandolo in “teologale”, in forza di un’iniziativa personale e preveniente: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi” (4,10). L’amore teologale è quindi possibile per la comunità cristiana solo dopo che Dio, per sua divina iniziativa, l’ha inserita nella comunione trinitaria: “se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (4,11). Tale espressione giovannea potrebbe riformularsi anche così: “il fatto che Dio ci ha amati, ci mette in grado di amarci gli uni gli altri in modo divino; il non farlo equivarrebbe a lasciare inerte la grazia dell’essere stati amati”. In altre parole, finché non abbiamo conosciuto Dio, e il suo amore preveniente, è impossibile amare gli altri con modalità “teologale”; ma dopo essere divenuti consapevoli che siamo stati amati da Dio, l’indisponibilità a entrare nelle divine energie della carità, avrebbe l’aspetto di una colpa. Che la non conoscenza del primato di Dio abbia come conseguenza l’incapacità di amare veramente il prossimo, si vede nell’episodio della visita di Gesù a casa di Marta e Maria:
Marta ferisce la sorella accusandola dinanzi a tutti di essere una perdigiorno, mentre ella sta seduta ad ascoltare il Maestro; e ciò avviene in concomitanza con un altro fatto estremamente significativo: Marta non solo non ama sua sorella, ma non ama neppure il Maestro, non sentendo il bisogno di fermarsi ad ascoltarlo. E’ vero che si prodiga in molti modi per accoglierlo in casa sua, ma come mai non capisce che l’unica accoglienza che avrebbe sollevato il Cuore di Cristo consiste nel consacrargli il proprio ascolto? (cfr. Lc 10,38-42). Marta non è in grado di amare sua sorella, perché in realtà non sta amando nel modo giusto neppure Dio. Maria, che ama Dio nel modo giusto, ama anche Marta nel modo giusto, sorvolando, come la carità esige, alle parole taglienti della sorella, che la ferisce in modo trasversale. Infatti, Gesù stesso si incarica di difenderla.
Avendo colto il cuore dell’insegnamento di Cristo, Giovanni ripresenta la prospettiva imitativa di tutto il NT: “l’amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, …perché come è Lui, così siamo anche noi in questo mondo” (4,17). La perfezione dell’amore non consiste quindi nella perfetta applicazione di un codice di buone maniere, bensì nella perfetta “personificazione” di Dio, al punto tale da rappresentarlo visibilmente in questo mondo. Era proprio questo che Cristo voleva dire a Filippo, quando gli rispose: “Chi ha visto Me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Dall’Incarnazione in poi, Dio si è reso visibile nell’umanità di Cristo e quindi nella visibilità della Chiesa.
La prima lettera di Giovanni: alle sorgenti dell’Amore
L’amore perfetto, a sua volta, si riconosce da una caratteristica inconfondibile, ossia l’abbandono fiducioso e totale di se stessi a Dio: “Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore” (4,18-19). Il timore servile, cioè quel timore determinato dall’aspettativa di un castigo, tradisce una vita spirituale ancora immatura, nonostante il fatto che la persona possa soggettivamente ritenere – e molti erroneamente lo ritengono - che questo “timore” di Dio sia una testimonianza della propria sensibilità spirituale. Sì, il timore di Dio è segno senz’altro di una sensibilità spirituale che si trova solo in chi cammina con Dio, però non è una sensibilità matura. Infatti l’Apostolo precisa che “chi teme non è perfetto nell’amore” (4,18-19). E’ un’affermazione che non sembra ammettere alcuna eccezione; la perfezione d’amore è anche il totale rasserenamento del cuore nel rapporto con Dio. L’Apostolo spiega questo atteggiamento, che i neofiti difficilmente possono capire, alla fine del capitolo terzo: “davanti a Lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (3,19-20). Poi aggiunge subito dopo: “Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio” (3,21). Si tratta di due situazioni interiori diverse, vale a dire: diverse per coloro che nell’amore teologale sono ancora immaturi, ma che non differiscono affatto per chi ha raggiunto la perfezione dell’amore. Non c’è dubbio che i vv. 19-20 descrivano una situazione contraddittoria per qualunque uomo normale: è infatti quantomeno strano rassicurare il proprio cuore davanti a Dio, mentre il cuore (cioè la nostra coscienza) ha qualcosa da rimproverarci. E’ invece logico quanto viene ipotizzato dal v. 21: “se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio”. E’ logico, è umano, è comprensibile. Però i vv. 19-20, nella loro apparente stranezza, affermano una verità teologica di grande portata: la santità se ne fa un baffo di ciò che è umanamente logico! Colui che ha raggiunto la perfezione dell’amore, ed è quindi entrato realmente nell’orbita della santità, non trova più che esista alcuna differenza tra i giorni in cui il suo cuore gli rimprovera qualcosa e i giorni in cui ha la sensazione di essere un giusto. Egli non capisce più che differenza ci sia, per il semplice fatto che la sua pace interiore non consiste in un autogiudizio positivo (del genere: oggi sei stato bravo, hai fatto il tuo dovere senza sbagliare), bensì in un riposo nel Cuore di Cristo, accettando su di sé il giudizio di Dio, qualunque esso sia. Il santo non guarda più verso se stesso e non si inquieta più quando deve constatare i suoi limiti umani, pochi o molti che siano. Per questo i vv. 19-20 parlano di lui e non del neofita, per il quale è sempre un dramma la coscienza di aver peccato in qualcosa.
Chi è maturo nell’amore teologale invece non ci bada più; è come uno smemorato, allo stesso modo di Maria ai piedi di Gesù, mentre Marta la rimprovera indirettamente. Maria non si ricorda più cosa sia stata nel passato, se peccatrice o innocente; se se ne ricordasse, non potrebbe più ascoltare serenamente il Maestro: si ripiegherebbe ai suoi piedi a piangere, come la peccatrice in casa di Simone (cfr. Lc 7,36-50). Maria non bada neanche a Marta e alle sue parole ingiuste; non mostra neppure di avvedersene. Contemplando Cristo, è come smemorata di tutto (cfr. Lc 10,38-42). La consapevolezza che “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (3,20) è la grande scoperta della maturità cristiana. Essa si collega inseparabilmente a un’altra scoperta: il giudizio che noi pronunciamo quotidianamente su noi stessi è falso. I neofiti si sentono tranquilli quando il loro cuore non rimprovera loro nulla, perché non hanno realmente chiaro che “Dio è più grande del nostro cuore”. Più grande del nostro cuore significa che vede molto aldilà di quel che vediamo noi; più grande del nostro cuore significa che spesso ci inquietiamo per le nostre infedeltà, perché proiettiamo in Dio la grettezza del nostro cuore che in quel momento ci sta rimproverando. Vale a dire: proiettiamo in Dio la nostra incapacità di perdonare a noi stessi, e non capiamo che anche questo è frutto dell’orgoglio ferito. L’Apostolo Pietro ha scoperto durante la Passione che “Dio è più grande del nostro cuore”. All’annuncio del rinnegamento egli aveva replicato a Gesù: “Signore, con Te sono pronto ad andare in prigione e alla morte” (Lc 22,33). Nessuno ha mai dubitato che in quel momento egli fosse sincero; era sincero nel senso che manifestava a Cristo ciò che pensava di se stesso. Gli eventi della Passione e il suo crollo davanti alla portinaia, lo renderanno consapevole che quello che pensiamo di noi stessi è falso e che solo Dio sa realmente chi siamo. Da qui nasce l’abbandono e il riposo della coscienza non in ciò che pensiamo di noi stessi ma nel Cuore di Cristo, l’Unico che ci conosce e ci perdona infinitamente.
La prima lettera di Giovanni: alle sorgenti dell’Amore
Anche Pietro apprende, dopo gli eventi della Passione, che Dio è più grande del nostro cuore e che la nostra opinione su noi stessi è falsa. Nell’apparizione sul lago di Tiberiade (cfr. Gv 21), alla domanda di Gesù: “Simone di Giovanni, mi ami tu?” ripetuta per tre volte, l’Apostolo non risponde più con l’eccessiva sicurezza di un tempo, ma si appoggia al giudizio di Cristo e non sul proprio: “Signore, tu lo sai” (cfr. Gv 21,15-17).
La visione giovannea della carità fraterna non riguarda tuttavia solo gli aspetti intimi e profondi dell’animo, nelle sue diverse disposizioni verso Dio e verso l’uomo; l’Apostolo afferma anche l’imprescindibile concretezza della carità: “Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il proprio fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (3,17). E ciò suona come una specificazione del v. 16: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”. Sembrerebbe che l’amore consista nel “morire” per gli altri, ma quando mai se ne avrà l’occasione? Era perciò necessario un versetto esplicativo per non cadere in questo disdicevole fraintendimento. Dare la vita per gli altri non significa morire “fisicamente” per qualcuno, ma significa essere capaci di cedere, per il bene degli altri, ciò che per noi è una risorsa vitale. Abbiamo “dato la vita” per qualcuno, tutte le volte che gli abbiamo permesso di usufruire di ciò che riempie la nostra vita. Giovanni fa l’esempio delle ricchezze di questo mondo, ma si potrebbe pensare a tutte le altre cose che ci arricchiscono anche nei settori dello spirito. In sostanza, nega l’amore, e non dà la propria vita per gli altri, colui che dichiara di sua proprietà esclusiva qualcuno dei beni materiali o morali che lo sostengono.
Le sezioni esortative dell’epistolario
I testi esortativi dell’epistolario sono abbastanza chiari e certamente non bisognosi di ulteriori spiegazioni, trattandosi di suggerimenti pratici. Tuttavia aggiungeremo solo qualche parola esplicativa in quei punti che ci sembrano particolarmente degni di attenzione.
“Amatevi cordialmente con l’amore di fratelli, siate solleciti e non pigri” (Rm 12,10-11).
Questa esortazione coglie un aspetto importante che solitamente sottovalutiamo nella vita quotidiana: il compimento sollecito e perfetto dei propri doveri quotidiani è amore. Pensiamo più comunemente che l’amore debba esprimersi in particolari occasioni e non pensiamo che è già amore
la sollecitudine nell’ordinario della quotidianità. La carità è dunque incompatibile con la pigrizia e con la noncuranza nelle cose che gli altri si aspettano da me.
“Invocate benedizioni su chi vi perseguita; benedite e non maledite; siate partecipi alla gioia di chi gioisce, al pianto di chi piange” (Rm 12,14-15)
Si tratta di due atteggiamenti diversi: il primo si inserisce nell’esperienza cristiana della riconciliazione; il secondo, descrive il movimento della solidarietà. Il fatto di rispondere alle persecuzioni con la benedizione e la preghiera di intercessione è una questione cruciale per il tema della carità: l’amore che il cristiano manifesta intorno a sé non è mai condizionato da qualcosa, ma è sempre, in un certo senso, un amore “assoluto”. Infatti, la misura dell’amore che viene dato non è mai calcolata su quella dell’amore che si riceve (o che non si riceve); da questo punto di vista è del tutto indifferente per il cristiano l’essere amato o meno. Più precisamente, la sua capacità di amare non deriva affatto dall’essere amato dal prossimo, in quanto essa deriva dall’essere stato amato da Dio: “Noi dobbiamo amare, perché Lui per primo ci ha amati” (1 Gv 4,19). Il cristiano è in grado di offrire un amore indipendente e libero da ogni aspettativa di ritorno, per il semplice fatto che, nell’essere stato amato da Cristo, egli ha ricevuto tutto ciò che dall’amore poteva attendersi. Da quel momento in poi nessun essere umano, per quanto mi possa amare, è in grado di aggiungere nulla alla pienezza con cui Cristo ha riempito e appagato il mio cuore. Per questa ragione, Cristo esige esplicitamente di essere amato più del proprio partner, più dei propri genitori e più dei propri figli, appunto perché il loro amore non può aggiungere nulla a quello che Lui mi ha già dato (cfr. Mt 10,37 e Lc 14,26). Ecco perché il fatto di non ricevere amore dalle creature, non mi rattrista più.
Le sezioni esortative dell’epistolario
C’è una seconda ragione per cui il cristiano perdona radicalmente i propri persecutori, ed è perché essi solo così possono essere perdonati da Dio. Cristo muore perdonando i suoi crocifissori (cfr. Lc 23,34) e così anche il primo martire della Chiesa (cfr. At 7,60). Ciò procede da una motivazione profonda. Quando Dio si pone come giudice delle azioni umane, Egli ci considera in stato debitorio verso la Giustizia, finché permangono le conseguenze negative dei nostri gesti peccaminosi. Ciò significa che io posso pentirmi del mio peccato, ma se esso ha danneggiato qualcuno, non posso pensare che il mio debito verso la Giustizia sia estinto se, oltre ad avere chiesto perdono a Dio, io non ho riparato il male che ho fatto. Nel caso in cui il danno che ho fatto è di ordine materiale o economico, posso ripararlo restituendo il mal tolto (cfr. Lc 19,8). Ma se il danno che ho fatto è di ordine morale o emozionale, poniamo il caso ad esempio di un mio atteggiamento che ha ferito qualcuno, allora la riparazione non potrà risolversi nel mio chiedere scusa. Il Giudice divino potrà considerarmi sciolto da ogni debito, quando la persona che ho ferito dirà al Signore, nella preghiera: “Signore, per me non esiste più alcuna conseguenza del male che il tal dei tali mi ha fatto”. Allora il Signore risponderà: “Poiché non esiste per te, non può esistere più neppure per Me”. A questo punto, chi mi ha ferito può essere perdonato da Dio in modo così pieno che non sarà necessario per lui passare dal Purgatorio. Diversamente, se io rimango crucciato verso il mio offensore, la Giustizia di Dio non lo potrà assolvere che dalla colpa, ma certo non dalla pena, perché la pena è costituita dal mio stesso cruccio.
“Se è possibile, per quanto dipende da voi, siate in pace con tutti. Non vi vendicate, carissimi, ma cedete il posto all’ira divina” (Rm 12,18-19)
Il tema della riconciliazione ritorna in questi due versetti, sotto due particolari angolature: la concretezza della riconciliazione e la rinuncia a farsi giustizia da sé. Quanto alla prima angolatura, non può sfuggire la duplice restrizione che l’Apostolo pone dinanzi alla prospettiva della riconciliazione come fatto concreto. Infatti, tutt’altra cosa è la riconciliazione come esperienza di perdono offerto a livello del cuore. Questo, il cristiano, è tenuto a farlo sempre. Il perdono offerto a livello del cuore nella preghiera è il primo perdono che Dio si aspetta da noi, come dimostra la morte di Cristo e del diacono Stefano.
Essi non hanno potuto smorzare l’ostilità dei loro nemici, che di fatto li hanno ugualmente giustiziati, ma hanno potuto eliminare di sicuro una parte del peccato (la pena) di chi li uccideva, dicendo a Dio: “Per quanto mi riguarda, non si tenga conto del male che mi fanno”. L’altra parte del peccato (la colpa) sarebbe stata eliminata dal pentimento, quando fosse sopraggiunto. Le due restrizioni: “Se è possibile, per quanto dipende da voi”, intendono sottolineare che, nella complessità degli eventi della vita, non si può pretendere di vivere in pace con tutti, dal momento che vi sono alcuni che possono ritenere giusto, dal loro punto di vista, esserci ostili e rimanerlo anche dopo i nostri tentativi di riconciliazione. Naturalmente, bisogna appurare bene che non siano i nostri atteggiamenti sbagliati ad alienarci il loro cuore. Vi sono infatti anche coloro che sogliono allontanare gli altri, ferendoli col loro modo di fare, e lamentarsi poi di essere rimasti soli.
La seconda esortazione, riguarda la coscienza cristiana circa il giudizio di Dio. Si può essere capaci di rinunciare alla vendetta solo a questa condizione: sapere che il giudizio su ciascuno è già stato pronunciato dalla Croce e che non occorre più aggiungere alcun altro giudizio, tanto meno il proprio, di noi che non siamo autorizzati a sentenziare su nulla: “Il Padre ha affidato ogni giudizio al Figlio... e gli ha dato il potere di giudicare perché è Figlio dell’uomo” (Gv 5,22.27).
“Dio lo ha accolto amichevolmente. E chi sei tu che giudichi un domestico altrui?” (Rm 14,3-4)
Il tema del giudizio ritorna nella sezione esortativa della lettera ai Romani. Qui in modo particolare nel quadro della vita interna della comunità cristiana. Con quali occhi bisogna guardare coloro che vivono accanto a me nella stessa comunità? L’Apostolo dice che bisogna guardarli come si guarda un domestico altrui. L’immagine ci sembra estremamente eloquente: rischiamo di sprecare energie mentali e tempo riflettendo e tormentandoci su “un domestico” che non è il “nostro”. Fuori della metafora: non bisogna lasciarsi trarre in inganno dal proprio senso di “giustizia”, che suole spingerci a occuparci di cose che vorremmo aggiustare, mentre la realtà è che rischiamo di superare i confini della nostra autorità, facendoci carico di ciò che non ci compete.
Le sezioni esortative dell’epistolario
“Se tuo fratello è addolorato a causa del cibo, tu non ti comporti più secondo l’amore” (Rm 14,15)
L’esortazione dell’Apostolo qui raggiunge toni di straordinaria delicatezza. Occorre però leggere il contesto per capire cosa esattamente l’Apostolo voglia dire. In sostanza, è la ripresa di un insegnamento che si trova in 1 Corinzi, a proposito della libertà cristiana: il cristiano maturo sa che la carne immolata agli idoli e poi venduta sui mercati non è nulla; tuttavia, chi è venuto alla fede da poco, potrebbe rimanere scandalizzato nel vedere un anziano nella fede mangiare quella carne. L’anziano allora si adatta al neofita e si priva della sua libertà (cfr. 1 Cor 8,1-13). La libertà di coscienza è indubbiamente un grande traguardo, ma perde tutto il suo significato nel momento in cui sia esercitata contro le esigenze dell’amore. Il principio generale è insomma che la carità è la vera e suprema legge a cui deve riferirsi qualunque gesto o decisione del cristiano.
“Accoglietevi a vicenda come Cristo accolse noi a gloria di Dio” (Rm 15,7)
L’amore fraterno è riportato dall’Apostolo alle sue sorgenti divine che sgorgano dal mistero dell’Incarnazione. L’amore fraterno non ha per il cristiano una ragione superficiale quale potrebbe essere il generico desiderio di andare d’accordo con tutti. Niente a che vedere col gratuito irenismo del “vogliamoci bene”. Al contrario, la ragione della fraternità e dell’accoglienza incondizionata del prossimo è squisitamente teologica: dal momento in cui Cristo mi ha accolto e accettato così come sono, non posso più permettermi di escludere alcuno dalla mia vita, senza il rischio di perdere Cristo stesso.
“Per mezzo della carità siate schiavi gli uni degli altri” (Gal 5,13)
E’ un’esortazione direttamente parallela a quella che figura in Efesini: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5,21). Con parole diverse, infatti, dicono le stesse cose. Il cristiano può permettersi di parlare di “schiavitù” o di “sottomissione” conferendo a queste parole un significato assolutamente nuovo.
Intanto, il contesto umano ben preciso nel quale si adoperano questi termini è quello della comunità cristiana, dove la suprema legge è la carità. Mentre nel mondo esterno si conosce solo la sottomissione o la schiavitù determinate dai rapporti di forza, nella comunità cristiana – e nella piccola comunità domestica che è la famiglia (cfr. Ef 5,21-33) – si conosce una sottomissione nobile, non determinata da una sconfitta ma da un movimento ispirato dall’amore. Nel mondo esterno, la sottomissione è il frutto di una costrizione, nella comunità cristiana è invece il risultato di un libero dono di sé, in vista della felicità altrui. In altre parole, l’Apostolo riprende il medesimo insegnamento nella sezione esortativa della lettera ai Galati: “Portate gli uni i pesi degli altri” (Gal 6,2). E’ in fondo l’immagine del dono di sé per la felicità degli altri.
“Dalla vostra bocca non escano parole scorrette” (Ef 4,29)
La purificazione del linguaggio ha una sua parte considerevole nel processo della maturazione dell’amore. Già nei libri sapienziali la parola umana, e il modo di conversare, appaiono come la rivelazione del mondo interiore della persona. Sarà opportuno richiamare qualche testo: “Nel parlare ci può essere onore o disonore” (Sir 5,13); “Una parola pungente eccita l’ira” (Prv 15,1); “Non lodare un uomo prima che abbia parlato” (Sir 27,7). “Anche lo stolto, quando tace, passa per saggio” (Prv 17,28). E l’Apostolo dice ai Colossesi: “Il vostro parlare sia sempre con grazia” (4,6). La nostra identità di figli di Dio, e la conseguente dignità principesca che ci è stata conferita nel battesimo, si manifestano quindi nella signorilità del tratto e nella scomparsa di ogni forma di asprezza e di grossolanità dal nostro linguaggio come dal nostro comportamento.
“Non soltanto sotto i loro sguardi, perché volete piacere agli uomini... Qualunque cosa facciate, fatela di cuore, come per il Signore e non per gli uomini” (Col 3,22-23)
Il punto focale di questo insegnamento sulla carità è tutto nelle parole “come per il Signore”. Chi cammina nella maturità dell’amore, non vive più come due cose separate l’amore di Dio e l’amore del prossimo, come se ci fossero delle circostanze nelle quali si ama Dio (Liturgia, preghiera, catechesi…) e altre nelle quali si ama l’uomo (carità assistenziale, volontariato…). I due amori si congiungono e si fondono in uno solo, perché Dio è amato sia in se stesso sia nell’uomo. Più precisamente, pregare e crescere nella conoscenza di Dio è amore verso il prossimo, perché quando io cresco nello Spirito tutta la Chiesa cresce con me; e servire il prossimo è amore verso Dio, dal momento che Cristo considera fatto a se stesso quel che, in bene o in male, si fa al prossimo. Per questa ragione, non è più possibile un servizio al prossimo compiuto con approssimazione e svogliatezza: dietro il bisogno del prossimo c’è infatti un appello di Dio, e nessuno può permettersi di rispondere a Dio approssimativamente. Quel Giuseppe venduto dai fratelli, aveva capito questa profonda verità: tutto quello che faceva, lo faceva con somma perfezione, perché non lo faceva per un uomo, ma intendeva servire Dio nell’uomo, e questa è perfezione d’amore.
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