martedì 29 marzo 2011

LA PRUDENZA (PARTE III)

Nella seconda a Timoteo, ritorna con maggiore intensità lo stesso insegnamento: Timoteo come pastore deve scongiurare tutti davanti a Dio "di evitare le vane discussioni, che non giovano a nulla, se non alla perdizione di chi le ascolta. Sforzati di presentarti… come uno scrupoloso dispensatore della parola di verità. Evita le chiacchiere profane" (2 Tm 2,14-16). "Un servo del Signore non deve essere litigioso ma mite con tutti" (2 Tm 2,24). Anche a Tito vengono dati pressoché gli stessi insegnamenti, di essere cioè "attaccato alla dottrina, secondo l'insegnamento trasmesso" (Tt 1,9), e guardingo circa le "questioni sciocche, le genealogie, le contese intorno alla Legge, perché sono cose inutili e vane. Dopo una o due ammonizioni sta' lontano da chi è fazioso, ben sapendo che è gente fuori strada e che continua a peccare condannandosi da se stessa" (Tt 3,9-10). Il pastore deve quindi evitare le dispute sciocche e la febbre dei cavilli e non andare oltre le due ammonizioni o richiami, perché l'insistenza sarebbe già una forma di partecipazione all'inutile disputa. Un altro grande settore in cui la prudenza si rivela come la virtù guida della santità cristiana è l'ambito delle decisioni. E' certamente deleterio non decidere mai nella vita: ciò equivarrebbe a far decidere sempre gli altri o, peggio ancora, a far decidere le circostanze. Più deleterio è decidere in maniera sconsiderata e stolta. L'ambito delle decisioni è ciò che determina nella vita di una persona la felicità o l'infelicità, l'adesione alla volontà di Dio oppure una corsa pazza lontano da Lui. Per questo la Bibbia dedica una grande attenzione ai criteri di una prudenza illuminata dalla fede. Può essere utile osservare in quali atteggiamenti la Scrittura identifica la virtù della prudenza del credente.Uno degli aspetti pratici di questa virtù, dal punto di vista biblico, è la capacità di ascoltare i consigli. Molto chiaramente il libro dei Proverbi afferma che "la sapienza si trova presso coloro che prendono consiglio" (13,10). E il libro di Qoelet preferisce un ragazzo a un re anziano che però non sa ascoltare i consigli (cfr. 4,13). Prendere delle decisioni importanti e non ascoltare chi fosse eventualmente in grado di dare un consiglio luminoso è certamente sinonimo di imprudenza. Dall'altro lato, vi sono alcuni da cui non bisogna prendere consiglio. La Scrittura si premura di avvisarci anche su questo: "Ogni consigliere suggerisce consigli, ma c'è chi consiglia a proprio vantaggio" (Sir 37,7). Da questa categoria di consiglieri bisogna guardarsi. Prima di accettare un consiglio è necessario accertarsi che il nostro interlocutore non abbia interessi personali e non sia un uomo dalle vedute ristrette. In questo senso vanno compresi i detti del v. 11: "Non consigliarti con una donna sulla sua rivale, con un pauroso sulla guerra, con un mercante sul commercio… non dipendere da costoro per nessun consiglio".Ancora: "Non consigliarti con chi ti guarda di sbieco" (Sir 37,10); vale a dire: non prendere consigli da chi non ti ama. La prima caratteristica che deve avere chi ci consiglia è l'amore. Il consiglio di chi ama il suo prossimo è spesso ispirato da Dio e meritevole di fiducia, come si legge in Sir 39,7: "Il Signore dirigerà il consiglio del saggio". E qui entriamo in pieno nella categoria dei consiglieri lodati dalla Scrittura: "Frequenta spesso un uomo pio che tu conosci come osservante dei comandamenti e la cui anima è come la tua anima" (Sir 37,12). Il tuo consigliere deve quindi essere un uomo sottomesso a Dio, ricercatore della volontà di Dio e, al tempo stesso, sia nel suo animo in qualche maniera simile a te. La Scrittura ci invita anche a non illuderci, perché uomini siffatti sono pochi: "Siano molti a vivere in pace con te, ma i tuoi consiglieri uno su mille" (Sir 6,6). La capacità di ascoltare il consiglio di uomini saggi non deve essere disgiunta dalla capacità di ascoltare il proprio cuore, ossia la propria coscienza: "Segui il consiglio del tuo cuore, perché nessuno ti sarà più fedele di lui. La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire meglio di sette sentinelle collocate in alto" (Sir 37,13-14). Questo medesimo insegnamento si è senza dubbio personificato in pieno nella figura di Giuseppe, sposo di Maria, allorché si accorse che la sua fidanzata era incinta, sapendo di non essere lui il padre di quel Bambino (cfr. Mt 1,18-21). Egli si sprofonda nel silenzio e ascolta la risposta divina che sale dall'intimo del suo spirito di uomo giusto. In realtà è questo l'elemento più determinante: qualsiasi consiglio ottimo noi possiamo ricevere dall'esterno, non può avere validità se non quando diventa veramente nostro, perché lo abbiamo riconosciuto veritiero nell'intimo della nostra coscienza. Non è il consiglio, anche buono, degli altri che deve dirigerci, ma è la nostra coscienza che, esaminati tutti i consigli provenienti dall'esterno, giudica e sceglie quello che le appare più conforme alla volontà di Dio.Per la Scrittura è prudente anche l'uomo che non attende risultati immediati dalle sue opere. Questo concetto è espresso in maniera allegorica dal libro dei Proverbi: "Le ricchezze accumulate in fretta diminuiscono, chi le raduna a poco a poco le accresce" (13,11). E ancora: "Chi va a passi frettolosi inciampa" (19,2). Il NT applica questa idea ai tempi lunghi che sono necessari al cammino del cristiano per poter vedere qualche frutto nello Spirito: "Guardate l'agricoltore: egli aspetta il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d'autunno e le piogge di primavera" (Gc 5,7).

LA PRUDENZA (PARTE II)

Nel NT la prudenza, e l'uso moderato della parola, hanno una sapore fortemente cristologico e rappresentano senza dubbio uno dei vertici della perfezione cristiana: "Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto" (Gc 3,2). Inoltre, dal momento che il Vangelo può diffondersi soltanto mediante la parola umana, il linguaggio ha acquistato una serietà e un valore che prima non aveva: "La fede dipende dalla predicazione" (Rm 10,17), e ancora: "E' piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione" (1 Cor 1,21). La parola umana è quindi strumento privilegiato nel disegno divino di salvezza, in quanto che essa può essere abitata dalla Parola di Dio, partecipando così di una misteriosa forza di salvezza. Ma la Parola di Dio non può dimorare in chi fa cattivo uso della facoltà della parola o in diverse maniere la banalizza. Da quando la Parola eterna si è fatta carne, la parola umana merita il massimo rispetto, sia nel suo valore sia nel suo uso. Cristo stesso, nel Vangelo, applica alla perfezione il detto di Qoelet, secondo cui C'è un tempo per parlare e un tempo per tacere. Lui, che è la Parola, osserva lunghi tempi di silenzio. Spesso, tra un'attività e un'altra, si ritira in luoghi solitari: dopo il battesimo, prima di iniziare la sua missione (cfr. Mt 4,1); nella sua vita ordinaria evitava il tumulto cittadino e "se ne stava fuori in luoghi deserti" (Mc 1,45); scandiva il suo ministero pubblico con parentesi di solitudine: dopo i suoi miracoli la folla lo cercava, "ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare" (Lc 5,16) e insegnava ai suoi discepoli a fare altrettanto: "Venite in disparte, in un luogo solitario" (Mc 6,31); infine, durante la Passione, Gesù pronuncia pochissime parole in risposta alle domande di Pilato e del Sommo Sacerdote, e rimane addirittura in totale silenzio dinanzi alle numerose domande di Erode (Lc 23,9). Anche in Maria possiamo ravvisare una notevole sobrietà di linguaggio. Il Vangelo non riporta di Lei nessuna parola non necessaria. Lo stesso può dirsi di Giuseppe, un uomo che non cede neanche per un momento ai suggerimenti dell'impulso, ma si raccoglie in una lettura profonda delle situazioni prima di decidere il da farsi. L'uso sobrio della parola umana è pure oggetto dell'insegnamento parenetico dell'Apostolo Paolo. Nella lettera agli Efesini i cristiani sono invitati a utilizzare un linguaggio veritiero per il fatto di essere stati istruiti nella verità che è in Gesù e di essere stati rinnovati nello spirito della mente (cfr. 4,21-23). Il linguaggio dei cristiani deve perciò essere abitato dalla verità e non deve avere altra finalità che quella di giovare a coloro che ascoltano: "Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano" (4,29). Il versetto successivo esorta a non rattristare lo Spirito Santo, lasciando intendere chiaramente, in base al contesto, che proprio uno dei modi con cui una persona limita in se stessa l'azione dello Spirito è l'uso disordinato del linguaggio. Nella lettera ai Colossesi ritorna l'esortazione "non mentitevi gli uni gli altri" (3,9), ma con maggiore chiarezza che in Efesini ci viene detto dall'Apostolo quale debba essere l'argomento abituale della conversazione dei cristiani: "La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali" (3,16). In sostanza, Paolo vuol dire che i cristiani, nelle circostanze in cui si trovano a parlare di cose serie tra loro, mediante la loro stessa conversazione crescono nella conoscenza di Cristo. Quando invece si intrattengono insieme nella gioia, sogliono cantare inni.Il tema dell'uso del linguaggio e della sobrietà della parola viene ripreso nell'insegnamento dell'Apostolo anche a proposito del ministero pastorale: Timoteo e Tito, pastori delle comunità cristiane di Efeso e di Creta, si sentono indirizzare alcuni consigli pratici su come un pastore debba vigilare anche sul proprio modo di parlare. Innanzitutto, i falsi dottori sono identificati da Paolo attraverso l'uso della parola. La caratteristica dei falsi dottori è quella di lanciarsi in dispute e in costruzioni di ragionamenti per dimostrare di avere ragione. Timoteo potrà capire di trovarsi di fronte a un falso dottore, quando i suoi interlocutori si volgeranno "a fatue verbosità, pretendendo di essere dottori, mentre non capiscono né quello che dicono, né alcuna di quelle cose che danno per sicure" (1 Tm 1,6-7). Insomma, il falso dottore si riconosce mediante due caratteristiche: la pretesa di essere uno che sa e l'eccessiva quantità di parole, sotto cui sommerge il suo interlocutore. Più avanti specifica, ancora a proposito del falso dottore, che chi non segue la sana dottrina: "è accecato dall'orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose" (1 Tm 6,4). A Timoteo, invece, Paolo suggerisce di rimanere attaccato al deposito della fede e di studiarlo per averne una conoscenza sempre più profonda, così da poter nutrire la sua comunità con il suo insegnamento: "Fino al mio arrivo dedicati alla lettura, all'esortazione e all'insegnamento" (1 Tm 4,13); "O Timoteo, custodisci il deposito; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza" (1 Tm 6,20). Timoteo deve quindi approfondire personalmente la dottrina della fede ma non deve lasciarsi trascinare in dispute, verbosità e cavilli che nascono dalla "cosiddetta" scienza. Paolo vuole dire che le dispute umane sulla verità di Dio non sono "scienza", ma soltanto chiacchiere. La vera scienza non è mai parolaia ed è sempre aperta al confronto sereno della ricerca.

LA PRUDENZA (PARTE I)


Secondo Tommaso d'Aquino, fra queste quattro virtù, il primato spetta alla prudenza, in quanto rappresenta la retta norma di tutte le azioni. Ciò significa che un atto umano, per essere compiuto secondo la perfezione cristiana, non basta che sia in se stesso buono, se non è anche equilibrato. Facciamo un esempio. Il Vangelo chiede al cristiano la capacità della correzione fraterna in entrambe le direzioni, vale a dire, tanto di correggere quanto di essere corretto. Non c'è quindi alcun dubbio che la correzione fraterna sia un atto voluto da Dio e in se stesso è buono. Se però è compiuto da una persona priva della virtù della prudenza, rischia di creare fratture e conflitti, laddove essa avrebbe voluto portare luce ed edificazione. La virtù della prudenza, a chi sta per compiere una azione buona e difficile, suggerisce restrizioni di questo genere: "non è questo il momento opportuno, non sono queste le parole da usarsi, non è questo il tono della voce, il tuo interlocutore non è ancora in grado di dialogare serenamente, aspetta che gli passi il turbamento e poi gli parlerai…" e molte altre cose simili che conferiscono al gesto che uno sta per compiere la massima perfezione di tutti gli equilibri personali e relazionali. Allora il gesto porterà gli effetti positivi che si desiderano. Con questo intendiamo dire che se uno non ha la virtù della prudenza rischia di snaturare anche le altre virtù che potrebbe avere, appunto perché le eserciterebbe in maniera squilibrata. Il Catechismo della Chiesa Cattolica aggiunge: "Grazie alla virtù della prudenza applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare" (n. 1806).La Scrittura presenta la virtù della prudenza sotto diverse angolature. Innanzitutto la prudenza, anche se è una virtù umana, ha bisogno di una particolare luce dello Spirito, quando si tratta di "prudenza cristiana". Se una persona non supera mai i limiti di velocità nella guida, oppure esce sempre col cappotto quando fa freddo, diciamo che questa è una persona "prudente"; si tratta però di prudenza puramente umana. La prudenza cristiana è invece quella che un battezzato ha bisogno di applicare nelle circostanze delicate o difficili del suo cammino di fede. La prudenza "cristiana" non è quella che custodisce la vita fisica della persona, ma quella che custodisce il suo cammino di fede insieme ai suoi equilibri spirituali e morali. Questo tipo di prudenza non può esistere senza un dono di discernimento proveniente da Dio e non dal semplice buon senso umano. In questo senso va compreso i testo di Gb 12,13: "A Dio appartiene il consiglio e la prudenza". Nella stessa linea si muove anche il libro della Sapienza: "Pregai e mi fu elargita la prudenza" (7,7). Un primo modo di esercitare la prudenza, su cui la Bibbia insiste parecchio, è la prudenza del linguaggio e dell'uso della parola. L'uomo prudente è descritto, sia nell'AT che nel NT, come uno che usa la parola tanto quanto basta. Non si tratta solamente di evitare la maldicenza, ovviamente anche questo, ma si tratta anche di mantenere l'uso della parola in un regime di sobrietà. L'uomo prudente non fa mai abuso del linguaggio, così come non fa abuso di nulla, usando tutto secondo quello che serve. Il libro di Qoelet presenta la prudenza del linguaggio come una capacità di distinguere i tempi opportuni da quelli che non lo sono: "C'è un tempo per parlare e un tempo per tacere" (3,7). E più avanti aggiunge: "Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire parola davanti a Dio… perché dalle molte preoccupazioni vengono i sogni e dalle molte chiacchiere il discorso dello stolto" (5,1-2). L'insegnamento sulla prudenza del linguaggio abbonda nella medesima linea nel libro del Siracide: "Sii pronto nell'ascoltare e lento nel proferire una risposta… nel parlare ci può essere onore e disonore; la lingua dell'uomo è la sua rovina" (5,11.13). Il Siracide indica pure alcune circostanze in cui è opportuno che le parole siano poche: quando qualcuno ci rivolge una domanda e noi non conosciamo esattamente la risposta: "Se conosci una cosa, rispondi al tuo prossimo; altrimenti mettiti la mano sulla bocca" (5,12). Prudenza del linguaggio però non implica un totale silenzio: "Non astenerti dal parlare al momento opportuno, non nascondere la tua sapienza" (Sir 4,23). E' invece inopportuno parlare eccessivamente quando ci si trova dinanzi ai grandi della terra o a chi è rivestito da autorità istituzionale: "Non parlare troppo nell'assemblea degli anziani" (7,14), e ancora: "Non fare il saggio davanti al re" (7,5). Altre occasioni in cui bisogna controllare la parola sono inoltre quelle in cui ci si trova a discutere con un uomo irascibile o con una persona che non si conosce ancora bene (cfr. Sir 8,16.19). In questi casi bisogna saper controllare le parole e non aprire il cuore a chiunque. Altro caso del dominio della parola è quello in cui va custodito un segreto confidato dall'amico: "Chi svela i segreti perde la fiducia e non trova più un amico per il suo cuore" (27,16).

lunedì 28 marzo 2011

IL DONO PIU' GRANDE


Premessa
Con questo opuscolo vogliamo provare a spiegare ciò che i Cristiani chiamano "Salvezza" (o Vita eterna) di Gesù Cristo e come riceverla. Useremo alcuni testi tratti dalla Sacra Bibbia. Puoi procurartene una e controllare personalmente.
I testi principali sono i seguenti:
"Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene." (EFESINI 2,8-9)
"Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna." (6iov. 3,16)
Tutto l'amore di Dio per gli uomini è espresso in queste parole. Il dono più grande che Dio ha fatto agli uomini è GESÙ'. Gesù Cristo è nato, morto e risorto per salvarci. Ma non tutti capiscono esattamente cosa ciò significhi...

Introduzione:
Un uomo cammina lungo un sentiero panoramico, sull'orlo di un precipizio. Distrattamente mette un piede troppo vicino al margine e scivola nel  burrone. Sembra finita per lui, ma si aggrappa, cadendo, ad una radice (sporgente. Sente che le sue forze non basteranno a lungo per sostenerlo e grida aiuto. Un attimo prima di mollare la presa, la mano di un benefattore si ! tende verso di lui e lo tira fuori, salvandolo. Alto stesso modo tutta l'umanità, individualmente, è sul punto di perdersi. Ha bisogno di un Salvatore, urgentemente! Molte volte l'uomo, nel  corso della sua storia, ha provato a cancellare il pensiero di Dio e dell'eternità dalla mente dei popoli attraverso la filosofia, la scienza e la "cultura". Non ci è mai riuscito per un semplice motivo, spiegato nella Sacra Bibbia: essa dichiara che Dio stesso, creatore del cielo e della terra, ha messo nel nostro cuore, e non nella mente, il pensiero dell'esistenza di un Dio immenso a cui bisogna presentarsi, dopo la morte fisica, per dare conto della propria vita               Così tutti sanno nel proprio "cuore" che un Dio giusto e Santo esiste; molti lo ammettono senza problemi, pochi lo negano. Soltanto "Lo stolto pensa: «Non c'è Dio».." (Salmo 14,1)

I - Perché è necessaria la salvezza?
Per tre motivi:
A - Per la condizione in cui noi ci troviamo
1- Perché la Bibbia rivela chiaramente la condizione in cui tutti eravamo prima di conoscere Cristo. Efesini 2,1 : "Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati ".

Alla luce di questo verso si può osservare che l'uomo è morto "spiritualmente" a causa del suo peccato. Per il peccato, tutti gli adulti senza Cristo sono condannati a vivere il futuro eterno lontani da Dio . Infatti : "In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati». ." (Atti 4.12)
2- Nella lettera ai Romani 3,23 è scritto: "... non c'è distinzione. Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio ."
Molti desiderano vivere una vita giusta, fare del bene senza peccare. Alla fine, scoprendo di non riuscirci, si convincono che, In fondo, non sono poi tanto cattivi; oppure diventano cinici e spietati nel donarsi al male. L'apostolo Paolo diceva, parlando di questo conflitto: "infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? " ( Romani 7,19.24)
B-   Perché non siamo capaci di salvarci da soli. 
Molti cercano il modo di procurarsi la salvezza. Infatti tutti coloro che riconoscono che c'è Dio, sentono anche, nella loro coscienza, di essere In pericolo. Cercano di guadagnarsi la Salvezza con le opere, come fare del bene, assistere una chiesa, compiere riti religiosi, essere buoni o altre cose adatte a farli sentire meritevoli davanti a Dio. Ma secondo la Bibbia queste cose non possono salvare. Le opere religiose somigliano all'azione di quell'uomo che scopre di essere in imminente pericolo di vita, sospeso nel vuoto ed usa le proprie forze per salvarsi. Quanto può resistere? Efesini 2,9 : "(La salvezza )né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene ".
Le opere però saranno la diretta conseguenza di una vita salvata da Cristo e perciò riconoscente. Quindi: opere non per ESSERE salvati ma perché SIAMO STATI salvati.
C- Per evitare la condanna eterna
In Romani 6,23 è scritto che il risultato del peccato è la morte. Che significa la parola morte?   Un significato di morte è: "separazione".
La Bibbia presenta tre classi di morte.
1 - la morte spirituale : è la condizione in cui si trova l'uomo senza Cristo. Questo tipo di morte è sopraggiunta fin dalle origini dell'umanità, quando l'uomo disubbidì a Dio. All'inizio "tutto era buono" (Genesi 1,31), ma Dio aveva detto: ( Genesi 2,16-17)  "Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti»."
In Romani 5,12 è anche scritto: "Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato."
2- La morte fisica : si riferisce alla separazione dell' "anima -spirito" dal corpo carnale. Il vero "io" esce dal corpo, lasciandolo senza vita. ( I Tess.5,23 - II Pietro 1,14)
3- La morte eterna : significa che l'uomo morto senza aver creduto in Cristo Gesù è separato per sempre da Dio. Passerà l'eternità in un luogo di punizione eterna in compagnia di satana e dei suoi angeli. ( Marco 16,16 -Matteo 25,46 - Apocalisse 20,10 e 20,14.15)
Quest'ultimo tipo di morte è quella che determina la condanna eterna. E' la morte che stabilisce il destino definitivo di tutti quelli che non conoscono Cristo come Salvatore


II- Come Dio provvede alla Salvezza Eterna?
La volontà di Dio è che nessuno si perda. ( I Timoteo 2,4). Egli ha provveduto tutto il necessario per salvare il peccatore:
A- Mostra il suo amore verso di noi.
Nonostante il nostro peccato e la nostra ribellione. Dio ci ha amati. Romani  5,8 : " Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo (e nessun altro!) è morto per noi."
"Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (e non un altro), perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. (Giov. 3,16)
B- Mostra l'Opera perfetta'- il sacrificio di Cristo.        
(Romani 5,8) mostra anche come Dio ci ha amati : Mandando il Suo figlio a morire al nostro posto. Noi dovevamo morire perché il " salario del peccato è la morte" (Romani 6,23) ma Gesù, come spiega Isaia 53,5 "... Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti."                                                  (Leggi anche Luca 24,25,26 - Ebrei 9,14). Quindi la salvezza eterna si trova soltanto in Gesù. Questo esclude categoricamente ogni altro mediatore o mediatrice fra noi e Dio. "Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù," (I Timoteo 2,5) Altre cose che non possono dare la salvezza eterna sono: la Chiesa, le varie religioni, la Conoscenza, la Scienza, la Filosof ia.ecc.
C -Mostra la sua grazia sufficiente.
La salvezza non è qualcosa che possiamo meritare per quello che siamo. In realtà meritiamo condanna, perché è scritto che tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23). Ma Dio ha provveduto, per amore, una soluzione per noi che siamo disposti a rinunciare al peccato. La salvezza quindi è un dono di Dio:  “Perché è per grazia che siete stati salvati…” (Efesini 2,8).

 
III - Come si ottiene la salvezza?
A-   Non per opere.ma...
Ancora Efesini 2,8 indica due cose che non possono salvarci. Vediamo quali sono. " Perché è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede. E ciò non viene da voi. E' il dono di Dio. Non è in virtù di opere, affinchè nessuno se ne vanti.
Osserviamo quindi che la salvezza non è ottenuta per di ciò che uno è oppure fa, ma è ottenuta...
B -   ...per fede.
Efesini 2,8 indica che è la fede , il mezzo, il veicolo per arrivare alla salvezza. La fede deve muoversi verso Gesù Cristo. " Io sono la via, la verità e la vita!", proclamò Gesù. Questo significa confidare in Cristo Gesù come personale Salvatore. La fede viene dal sapere che Egli è morto e risuscitato per perdonare i nostri peccati e darci Vita eterna. Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede.
IV - Quali sono i risultati della salvezza?
Quando una persona ha ricevuto Cristo per fede, si producono certi cambiamenti nella sua vita. Alcuni di questi cambiamenti sono:
A- Una nuova vita.
Secondo Efesini 2,5. nel nostro vecchio modo di vivere noi eravamo morti. Ora in Cristo abbiamo vita. Una nuova vita.
Gesù spiegò a Nicodemo (Giovanni 3,3-7) che bisognava nascere “di nuovo”, cioè d'acqua (La Parola di Dio che lava i peccati) e di Spirito Santo ( Lo Spirito di Dio che rinnova e rigenera)) per vedere (Giov.3,3) e per entrare (Giov.3,5) nel regno di Dio.


Con la salvezza una nuova persona spirituale nasce e comincia a formarsi in noi, proprio come accade con la nascita di un bambino: giorno dopo giorno cresce, cammina ed impara, seguendo le tappe della vita. Allo stesso modo noi entriamo nella famiglia dove Dio regna (la chiesa locale, formata da tutti i veri discepoli di Gesù), e come bambini spirituali cominciamo il nuovo cammino con il Maestro.
"Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco sono diventate nuove." (II Corinzi 5,17):
B- Una nuova relazione con Dio.
Prima io ero figlio del diavolo, vivevo in disubbidienza e meritavo l'ira di Dio (Efesini 2,2-3). Però, quando confidai in Cristo come mio Salvatore, Dio mi diede una nuova relazione con Lui. Osserva questa nuova relazione in Giovanni 1,12: "A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome". Nota bene, da questo verso, che Figli di Dio sì diventa, non si nasce (come molti credono!). Nel momento in cui ricevo Cristo per fede e credo in Lui per la mia personale salvezza ho un nuovo Padre, Dio in persona. Prima ero solo una creatura, figlio/a dell'umanità decaduta per il peccato del primo uomo, Adamo, ora, in Gesù, ho il diritto di essere parte di una nuova famiglia; i miei nuovi fratelli sono gli altri figli di Dio, i fratelli della chiesa. Insieme a loro gusterò il dono della Vita eterna e l'immensa profondità dell' amore di Dio. (Efesini 1,16-19)
C -   Una nuova capacità di fare la volontà di Dio.
Dopo aver ricevuto Gesù scopriamo la possibilità di riuscire a fare la volontà di Dio, mediante il cambiamento soprannaturale che Cristo compie, giorno dopo giorno, nella nostra vita. " perché in questo consiste l'amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi.." (I Giovanni 5,3) Scopriamo come essere liberati da "questo corpo di morte", cioè dalla schiavitù del peccato. Questo mi conferma che ora io sono una nuova persona. Dio mi ha dato una vita differente, una vita di buone opere (Efesini 2,10) fatte come risultato dell'Opera di Gesù in noi.

Riassumendo:
L'uomo senza Cristo si trova perduto per l'eternità. Egli non può salvarsi da se stesso. Dio ha fatto tutto il necessario per salvarci: mandò suo Figlio Gesù Cristo per morire al nostro posto. La salvezza si riceve quando confidiamo in Cristo. Non dipende dalle nostre opere. Come risultato di questa salvezza, abbiamo vita eterna, legalmente diveniamo figli di Dio e riceviamo la capacità di fare la volontà di Dio per vivere una vita di progressiva santificazione.
Perciò: "Come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato...
Come con una sola trasgressione (quella di Adamo ed Eva) la condanna si è estesa a tutti gli uomini, così pure, con un solo atto di giustizia (la morte di Gesù sulla croce), la giustificazione che da la vita si è estesa a tutti gli uomini che credono in Lui. ( Romani 5,12,18,19)
V -   Come ricevere la Salvezza oggi.
A questo punto dovresti chiederti:
" Cosa fare, quindi, per ricevere in dono questa meravigliosa ed indispensabile Salvezza eterna?"
Se ha seguito attentamente questo breve studio biblico avrai iI desiderio di conoscere la risposta a questa domanda. Ti risponderà nel modo più semplice possibile offrendoti una sigla facile da memorizzare, per tre passi da compiere:
"C- R- C ", cioè:    Credere - Ravvedersi- Chiedere.

1) Credere nell'opera di Gesù morto e risorto per il perdono dei tuoi peccati ed in ciò che dice la Sacra Bibbia riguardo alla nostra condizione di peccato.
2) Ravvedersi  cioè cambiare radicalmente opinione su te stesso, smettendo di confidare nella tua presunta giustizia, nei tuoi convincimenti religiosi tradizionali ma senza fondamento di Verità, e, principalmente, riconoscendo senza scuse e senza attenuanti che sei degno, nella tua condizione di peccato, di condanna eterna.
3) Chiedere a Gesù Cristo ora, li dove sei, di perdonarti e salvarti.
Ciò vuoi dire inginocchiarsi e pregare. Si, proprio ora, spegni il Pc e trova un posto per inginocchiarti. Usa la parole che hai. Non dire: " non so pregare", ma rivolgiti a Dio Padre nel nome del Suo figlio Gesù Cristo!
Fatti forza!...Gesù ti incoraggia: " Io sono la via, la verità e la vita,
nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (Giov 14,6)"
Se proprio non trovi le parole ti posso aiutare. Potresti pregare così:
"Signore Gesù, grazie per il Tuo sacrificio sulla croce. Grazie per il Tuo Sangue, attraverso il quale hai pagato per i miei peccati. Io credo in Te, credo nel perdono che mi dai, credo nella tua salvezza e ti accetto come mio unico personale Salvatore e mediatore. Aiutami a fare la Tua volontà, a realizzare un cambiamento nella mia vita, nelle mie abitudini sbagliate. Mi pento dei miei peccati.
Dio, grazie per avermi dato Gesù, il Tuo Figlio, affinché io potessi entrare nella tua famiglia. Adesso sono sicuro che mi hai ascoltato, perché ho pregato nel Nome Benedetto del Tuo figlio Gesù Cristo. Adesso ho il dono più grande: la Salvezza e la vita eterna in Cristo nostro Signore. Amen.

 
Sei hai creduto con tutto il cuore al messaggio che hai ricevuto e  hai pregato, confessando i tuoi peccati, a voce alta, parlando con Dio (ciò dimostra che sei stato veramente convinto che Gesù vive ed era vicino a te, proprio mentre pregavi, anche se non lo vedevi), tu ora puoi gioire per il Suo dono, e la Sua opera. Il Suo sangue versato, le sue lividure, la sua morte sulla croce per te, ti danno la certezza che in questo momento sei stato perdonato, sei stato salvato. E' il dono del Suo immenso amore!
Infatti è scritto: " col cuore si crede per ottenere la giustizia (cioè il perdono dei peccati) e con la bocca si fa confessione per ESSERE SAL VA TI. " (Romani 10,10)
Da questo momento, per fede, sei un figlio di Dio/ Ora Dio è divenuto il tuo Padre celeste. Ora puoi chiamarlo così, ed Egli ti risponderà.
Il tempo che hai usato per leggere questo link e credere in Gesù è certamente un tempo di eterno valore, che ricorderai per sempre!  Oggi è stato il giorno più importante della tua vita! Oggi hai ricevuto il Dono più grande: La salvezza di Gesù Cristo.
Dio ti benedica nel tuo cammino con Lui.
Vorrei darti, se me lo consenti, un ultimo consiglio. Cerca altre persone che hanno fatto la tua stessa esperienza per condividere la tua fede in Gesù e nella Sua Parola. Insieme vi renderete forti nella fede fino al giorno in cui vedremo iI Signore faccia a faccio come Egli è. Dio ti benedica!

E NOI ABBIAMO DETTO OK ! ! !

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…………E…………………………………………………………………………………………………………………………………………
……………………..NOI……………………………………………………………………………………………………ABBIAMO………………………………………….....................
………………..............…………………………..DETTO……………………………
…………………………………………………
…………………………………………………
………………………………………OK

Perché Signore?

Le considerazioni che seguono sono di un ignoto americano. Sono considerazioni fatte alla luce dei recenti tragici eventi: gli attacchi terroristici, le sparatorie nelle scuole e altra cronaca nera. Credo che abbia avuto inizio con la protesta di Madeline Murray O’ Hare ( è stata assassinata) che non voleva la preghiera nelle nostre scuole.

E noi abbiamo detto OK.

Allora qualcuno ha detto che è meglio non leggere la Bibbia nelle scuole… La Bibbia dice: “ Non uccidere, non rubare, ama il tuo prossimo come te stesso”.

E noi abbiamo detto Ok.

Poi è venuto il Dott. Benjamin Spock e ha detto che non dovremmo sculacciare i nostri bambini quando si comportano male, perché la loro piccola personalità sarebbe traumatizzata e potremmo danneggiare la loro autostima. allora abbiamo detto “ Il dott. Spock ( suo figlio si è suicidato ) è un esperto e sa certamente di che cosa parla”.

E noi abbiamo detto OK.

Poi qualcuno ha detto che e’ meglio se gli insegnanti e i presidi delle scuole non correggano i nostri  figli quando si comportano male. Allora gli amministratori scolastici hanno detto che in questa scuola nessuno tocchi uno studente quando si comporta male; non vogliamo cattiva pubblicita’, e nemmeno essere citati in giudizio. (C’e’ una differenza fra disciplinare e toccare, picchiare, umiliare, prendere a calci).

E noi abbiamo detto OK.

Poi qualcuno ha detto: ”Facciamo abortire le ragazze se lo vogliono. E non è necessario che i genitori lo sappiano”.

E noi abbiamo detto OK.

Poi sono venuti dei saggi membri dell’amministrazione scolastica e hanno detto: “Visto che i ragazzi lo fanno comunque, diamogli i preservativi che hanno bisogno. Così possono divertirsi come vogliono, e non c’è bisogno che diciamo ai loro genitori che li hanno ricevuti a scuola”.

E noi abbiamo detto OK.

Poi alcuni dei nostri governanti eletti hanno detto che non c’entra cosa facciamo in privato, purché facciamo bene il nostro lavoro. E noi, essendo d’accordo abbiamo detto che non ci interessa cosa fanno i nostri dirigenti nella vita privata, compreso il Presidente, purché io abbia un lavoro e l’economia sia buona.
E poi qualcuno disse: “Stampiamo  delle riviste con delle fotografie di donne nude, e diciamo che cio’ fa bene, è l’apprezzamento realistico della bellezza del corpo femminile”.

E noi abbiamo detto OK.

Poi, nell’apprezzamento, qualcun altro ha fatto un passo in più e ha pubblicato foto di bambini nudi, e poi ancora un passo, rendendole disponibili su internet. E noi abbiamo detto OK, hanno diritto alla loro libertà di espressione.

E poi l’industria del divertimento ha detto: “Perché al cinema e alla televisione non facciamo dei film blasfemi e profani, con occultismo, stregoneria, sesso illecito e violenza? Poi registriamo della musica che incoraggi lo stupro, le droghe, il suicidio, l’omicidio e i riti satanici”.

E noi abbiamo detto OK.

Abbiamo detto che è solo per divertirsi, non avrà certamente effetti secondari, e comunque nessuno avrebbe preso sul serio queste cose. Dunque fate pure!
Ora ci chiediamo perché i nostri figli non hanno coscienza, perché non sanno distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, perché non gli dà fastidio uccidere degli estranei,  i compagni di classe, i genitori e sé stessi.
Magari, se ci riflettiamo a lungo e profondamente, possiamo intuirlo. Penso che abbia qualcosa a che vedere con il proverbio “Come avrai seminato, così raccoglierai” (Marco Tullio Cicerone, 106-43 a.C. e Paolo di Tarso, 10-62 d.C.).

“Caro Dio, perché non hai salvato la bambina che è stata uccisa a scuola? Cordialmente, uno studente turbato…”
Risposta: “Caro studente turbato, non sono ammesso nelle scuole. Sinceramente, Dio”.

E’ strano come la gente rifiuta Dio e poi si meraviglia perché il mondo va all’inferno.

E’ strano come crediamo a quanto sta scritto nei giornali e poi mettiamo in dubbio quanto sta scritto nella Bibbia.

E’ strano che tutti vogliano andare in cielo, ma solo a condizione che non debbano credere, pensare, dire o fare quanto la Bibbia afferma.

E’ strano come uno possa dire: “Credo in Dio” e seguire satana, che, fra l’altro, “crede” pure lui a Dio.

E’ strano come siamo lesti a giudicare e lenti a lasciarci giudicare.

E’ strano come possiamo mandare in giro migliaia di barzellette tramite e-mail, e si propagano a dismisura in un baleno…ma se mandiamo dei messaggi sul Signore, la gente esita a condividerli.

E’ strano come lo scurrile, il volgare e l’osceno passano liberamente in tutto il ciberspazio, e le discussioni su Dio vengono soppresse sia nelle scuole che sul lavoro.
E’ misterioso come qualcuno possa essere entusiasmato per Cristo la domenica, e divenire un cristiano invisibile per tutto il resto della settimana…


STAI  PENSANDO?

Questo articolo, passalo ad altri, per e-mail o fotocopia se pensi sia utile. Se no, semplicemente cestinalo…nessuno saprà mai che lo hai fatto. Ma se lo butti, allora non ti mettere appoggiato sulla sedia a contemplare in che situazione miserabile si trova il mondo oggi!

Famiglia, non lasciarti distruggere...

Etttccccì!... SALUTE! 
Famiglia,
  non lasciarti distruggere...
quando il mondo vuole dividerti e ti indica la via dell'egoismo, del successo ad ogni costo, della realizzazione forzata con criteri e modelli non "tuoi" e non scelti... Non lasciarti annientare dalle false logiche del mondo, non lasciare che si spenga il fuoco che Xto è venuto a portare sulla Terra e che da una famiglia è stato custodito!... Vivi come a Nazareth, impara da Nazareth, respira l'atmosfera di quella casetta nello scambio quotidiano d'amore. L'Ossigeno della vera Vita ti farà condurre un'esistenza terrena sana e fruttuosa, in attesa di tornare a casa, dal Padre...

 E se a volte sentirai di respirare male, sali sul Monte del dialogo con Dio (cos'altro è, secondo te, la preghiera?...); cerca il silenzio: come puoi riuscire a sentire Dio nel brusio del quotidiano e nel baccano della tua voce che parla, parla e straparla?...; prendi il tempo per una ... passeggiata con Lui, cuore a cuore, nel silenzio di un tramonto, di un'ora vespertina in una chiesa solitaria o semplicemente "rinchiudendoti" nella cella del cuore, in casa: chiudi gli occhi, respira profondamente, poi riaprili cercando di guardare il mondo con le lenti dell'Amore... Osserva le meraviglie della natura... Guarda gli occhi di un bimbo ed attingi da essi l'innocenza e la semplicità di cuore: abbandonati e dì "Gesù, vieni in me!  Gesù, resta, con me! Gesù, lavora con me, opera in me..." Ti manterrai in forma,  e forte, nel cammino... La strada è lunga, i sentieri talvolta impervi, e le insidie spesso dietro l'angolo.... Il Principe della Menzogna (maiuscolo, perché è veramente il non plus ultra della falsità e della vana luce che acceca senza condurre in alcun porto sicuro!!!...) è da te che vuole cominciare ad annientare l'amore, perché ha capito che uomini e donne nuovi ci si forma nel tuo meraviglioso ambito quotidiano, fatto di ascolti, di sguardi, di attese gli uni degli altri nei personali percorsi di crescita... Non senti la nostalgia della tua vera casa?... non senti il cuore dilatato quando per un attimo fai silenzio nella tua vita e senti odore di Pane buono, e senti la voe amorevole di una Madre che ti chiama e ti richiama, con la Sua delicata premura, a lavarti le mani, perché è ora del banchetto celeste ed è tempo di presentarsi al Padre puliti ed ordinati, della pulizia e dell'ordine dei veri Figli di Dio? Non senti il cuore contrarsi e l'angoscia serrare la gola quando osservi negli occhi di un bimbo che muore, in quelli serrati dalla morte di un soldato colpito da un gelido vento di guerra inutile (perché la guerra è sempre inutile, se muore anche solo un essere umano!...) che non è lontano milioni di anni luce, è parte di te, è cellula come te, soffio vitale come te, figlio come il tuo, marito come il tuo, umanità come la tua... Perché te ne accorgi soltanto quando la distanza sembra accorciarsi perché una calamità, una tragedia, un fatto di cronaca sfiorano topograficamente il tuo territorio, tracciato e segnato da tanti tentativi di autoprotezione -  sempre e solo povera cosa umana, se non è Dio ad averla costruita con l'ingegno della Sua sapienza!!! .. -  e tenere a bada persone, eventi naturali o disagi fisici o psichici; dalla chiusura degli infissi del cuore con collanti e traverse di legno a prova di uragano Amore?
Hai paura anche tu di amare, di lasciarti andare, perché non pochi venti gelidi - quelli dell'egoismo, dell'indifferenza, dell'opportunismo... - hanno raffreddato anche te... Lo so, lo capisco... Ma non è starnutendo sull' "altro" la tua rabbia (perché "non è giusto che tocchi solo a me a me!!!") che arriverai a guarire e ti sentirai meglio perché non sarai il solo  ad essere ammalato! "Mal comune mezzo gaudio" val la pena dirlo soltanto quando ci si impegna sul serio a combattere il batterio dell'infelicità, contagioso per trasmissione di odio ed egoismo! Quando si accetta di curarsi tutti insieme, in una sforzo comune e costruttivo, con il farmaco del perdono reciproco e del rispetto  dell'altro, per diverso che possa essere o "minaccioso" per il nostro egocentrico concetto di salute... Mi piace il termine francese "salut", perché indica al contempo "salute" e "salvezza".... E' impiegato anche come saluto... Avete notato come camminando per le nostre strade si sia sempre meno a guardarsi ed a scambiarsi un cenno di saluto, che può voler dire comunicazine, incontro, solidarietà nel cammino?.... Al povero che tende la mano, poi!... non uno sguardo, un cenno fra "vivi", uno scambio di sguardi seppur minimo per dare calore, compassione... E Dio solo sa se più di una moneta non avrebbe bisogno di una parola, di un tocco lieve sulla spalla per sentirsi vivo e parte di un mondo che invece è sempre più chiuso in miliardi di monocellule incapaci di costruire "tessuto" (scienza?... fantascienza?!....) ed impazziscono incancrenendosi in un'esistenza a senso unico!!!...
Già, non è facile  per nessuno ... Dobbiamo piuttosto sforzarci di  stringere vincoli di solidarietà fra famiglie e ripartire, ricominciare da una porta aperta, da  una finestra sul cortile del prossimo non per giudicarne l'operato od invidiarne i successi, ma per ricostruire un tessuto sociale di vita vera, costruttiva, fiduciosa, affondando le nostre radici nel solco già tracciato da quelle di quanti ora contemplano la luce del Volto di Dio, ma che nel corso della loro esistenza terrena le hanno affondate per noi nell'unico terreno fertile: la fede in Xto Gesù, Figlio di Dio, fatto carne e morto per la nostra salvezza! RISORTO!.. sì, risorto, poiché altrimenti la nostra fede non avrebbe motivo di essere... Perchè - riflettiamo!... - molti sono stati i tentativi di annunciare clamorosi ritrovamenti del corpo di Xto, nel corso dei secoli, affinché si potesse arrivare a rendere vane eroiche dichiarazioni del tipo di quella di Padre Ragheed Ganni, segretario del vescovo di Mosul - nord Iraq - quando afferma “Abbiamo attraversato il 2004, il nostro Calvario, tra dolori e distruzione, ma c’è ancora vita, non siamo fuggiti, siamo ancora qui, perché siamo certi della Resurrezione”. (tanto per essere attuali!....). La speranza, non lasciar spegnere in te la speranza, non cedere agli inganni del tristemente noto Principe menzognero,  invidioso dell'Onnipotenza divina, che cerca di scoraggiarti e portarti per mari - attratto dalla falsa luce del faro del "tutto e subito"... - nelle cui acque ti fa cozzare soprattuto contro gli scogli della tua povertà, della sfiducia e del "tanto Dio non può amare uno come me!"... Dio ti ama, ah, se ti ama!!!.... Ma se non fai silenzio nella tua vita per ascoltarne l'eco nel tuo cuore, e l'eco rimbalza e torna indietro senza che dalle orecchie sia sceso al cuore per portarvi musica nuova, come potrai "gustare e vedere quanto è buono il Signore"?  (la melodia soave dell'Amore di un Dio che ha creato il mondo per Amore, per Amore ha mandato il Suo Figliolo Unigenito per la nostra Salvezza e che con Amore continua a guardarci vivere da dietro le persiane del Cielo, scuotendo sì, a volte il capo per le nostre nefandezze, ma che confida di vederci tutti seduti a tavola, all'ora di cena,, TUTTI, perché nulla della Redenzione vada perduto!!!...) Apri l'ombrello della fede!... Con l'aiuto e la grazia divina (Dio guarda alla buona volontà ed al desiderio di amare, che è già amore...) sarà efficace anche se non proprio integro ed un tantino tarlato da ripetuti errori di conservazione (spesso l'hai lasciato esposto, non hai badato a conservarlo dagli attacchi di tarme insidiose e dalle fatiche quotidiane non trasfigurate dall'amore, sempre allerta, nelle praterie dove il Buon  Pastore ti porta...).... Abbi fiducia in Lui, è un Re che invece dello scettro ha scelto il vincastro del Pastore!... Famiglia non lasciarti distruggere, diventa ciò che sei:

La famiglia ha la missione di diventare sempre più quello che è, ossia comunità di vita e di amore, in una tensione che, come per ogni realtà creata e redenta, troverà il suo compimento nel Regno di Dio
                                   Giovanni Paolo II

Poiché le tue parole, mio Dio, non son fatte per rimanere inerti nei nostri libri, ma per possederci e per correre il mondo in noi Permetti che, da quel fuoco di gioia da Te acceso, un tempo, su una montagna e da quella lezione di felicità, qualche scintilla ci raggiunga e ci possegga, ci investa e ci pervada. Fa' che, come "fiammelle nelle stoppie", corriamo per le vie della città, e fiancheggiamo le onde della folla,contagiosi di beatitudine, contagiosi della gioia...( E saremo contagiosi della gioia (Madeleine Delbrêl )

sabato 26 marzo 2011

APOSTOLI DEL SIGNORE

Per ciò che riguarda il ministero di apostolo, bisogna dire che l’apostolo è l’inviato, cioè colui che viene mandato dallo Spirito Santo a predicare la Parola di Dio ad un popolo.
Prendiamo per esempio i dodici discepoli di Gesù che furono da lui stabiliti apostoli e mandati da lui a predicare il Regno di Dio ad Israele.
Luca dice: In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato Zelota, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore. (Luca 6,12-16); come potete vedere i dodici non si presero da loro stessi l’onore di essere chiamati apostoli, ma l’ebbero da Cristo Gesù. Notate anche che non tutti quelli che erano diventati discepoli di Gesù furono da lui costituiti apostoli perchè questo conferma che non tutti nella chiesa possono essere chiamati apostoli, ma solo coloro che hanno ricevuto questo ministero dal Signore. Gesù costituì i dodici apostoli per mandarli a predicare, e difatti li mandò a predicare il Regno di Dio con il potere e autorità di cacciare i demoni e di sanare qualunque malattia, potere che lui stesso diede loro, secondo quel che è scritto: Egli allora chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demòni e di curare le malattie. (Luca 9,1).
Dopo che lo Spirito Santo discese sui discepoli il giorno della Pentecoste, vi furono altri uomini che furono stabiliti apostoli dal Signore, tra i quali Paolo e Barnaba. È scritto: C 'erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirène, Manaèn, compagno d'infanzia di Erode tetrarca, e Saulo. Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati». Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono. Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo, discesero a Selèucia e di qui salparono verso Cipro…” (Atti 13,1-4); notate che Paolo e Barnaba esercitavano già un ministero nella chiesa d’Antiochia, quello di dottore e questo è confermato anche dalla Scrittura che dice: Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani. (Atti 11,26).
 Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati». (Atti 13,2); questo ordine fu rivolto a coloro che erano riuniti con Barnaba e Saulo, i quali obbedirono, appartandoli. Tra quei cinque ministri di Dio, lo Spirito Santo scelse solo Barnaba e Saulo per quella determinata opera, benchè fossero tutti e cinque ministri di Dio, e questo ci fa comprendere che il Signore opera le sue scelte secondo il consiglio della propria volontà, affidando a chi vuole lui una determinata opera da compiere.
Un’altra cosa che vorrei che notaste è che Barnaba e Saulo sono chiamati apostoli (secondo che è scritto: “Gli apostoli Barnaba e Paolo” [Atti 14,14]) proprio perchè essi furono mandati dallo Spirito Santo” (Atti 13,4) a predicare il Vangelo. Per ciò che concerne Paolo, bisogna dire che Gesù Cristo, quando tempo prima gli era apparso in visione mentre pregava nel tempio, gli aveva detto: Allora mi disse: Và, perché io ti manderò lontano, tra i pagani». (Atti 22,21); vi ricordo questo affinchè riconosciate che fu mentre Paolo era ad Antiochia che si adempirono queste parole che il Signore gli aveva rivolto tempo addietro, infatti il Signore mandò Paolo ai Gentili proprio mediante quella rivelazione data in Antiochia. Gli apostoli Paolo e Barnaba fondarono diverse chiese durante quel loro viaggio, molti furono salvati, molti furono battezzati con lo Spirito Santo e Dio rese testimonianza alla Parola della sua grazia, concedendo che per le loro mani si facessero segni e prodigi. Dopo molto tempo, essi tornarono ad Antiochia e Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede. (Atti 14,27).
Questo viaggio di Paolo e Barnaba, così come ci è stato riferito da Luca, ci fa capire bene quale sia l’opera che compie un apostolo.
Tra gli altri apostoli menzionati dalla Scrittura vi sono pure Silvano e Timoteo che erano collaboratori di Paolo; che pure loro erano apostoli di Cristo, lo si capisce da queste parole di Paolo ai Tessalonicesi. Paolo, dopo aver detto all’inizio della sua prima epistola: Paolo, Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi …” (1 Tess. 1,1), disse a quei credenti:E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo.…” (1 Tess. 2,6).
Paolo disse ai santi di Roma: Salutate Andronìco e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli insigni che erano in Cristo gia prima di me (Rom. 16,7), quindi anche questi due fratelli erano degli apostoli. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli... (1 Cor. 12,28), perciò noi dobbiamo riconoscere il ministerio di apostolo.
Termino di parlarvi di questo ministero, dicendovi che oggi come ci sono gli apostoli di Cristo così ci sono anche i falsi apostoli che si travestono da apostoli di Cristo. In seno alla chiesa di Corinto si erano insinuati dei falsi apostoli, infatti Paolo, scrivendo a quella chiesa, disse di costoro: Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere.(2 Cor. 11,13-15). I falsi apostoli non sono dei ministri di Cristo, ma dei ministri di Satana, quindi odiano la giustizia; ma nonostante ciò, riescono a presentarsi ai fedeli come delle persone giuste perchè si travestono da servi di giustizia. Le loro opere però, essendo opere d’iniquità, testimoniano contro di loro; sappiate che questi falsi apostoli, quando vengono messi alla prova, vengono trovati mendaci e che il Signore renderà loro secondo le loro opere.
Umberto Amoroso

venerdì 25 marzo 2011

LINEE CARATTERISTICHE DI CHI FA PARTE DELLA COMUNITA’ “APOSTOLI DEL SIGNORE”

IL RITRATTO DEL DISCEPOLO 



Introduzione
Il cosiddetto “discorso della montagna” è riportato dall’evangelista Matteo in tre capitoli (capp. 5-7) e rappresenta quel che potremmo definire come la totale radiografia del discepolato. Sarà perciò opportuno dedicarvi una particolare attenzione. I nuclei principali di questo lungo insegnamento possono sintetizzarsi come segue:
1.   Le beatitudini
2.   Una giustizia superiore a quella dei farisei
3.   Il nascondimento della virtù
4.   La preghiera cristiana
5.   La fiducia incondizionata nella Provvidenza
6.   L’affidamento della propria causa a Dio (vale a dire: rinuncia al giudizio)
7.   Il discernimento sui falsi profeti

Capitolo 1
Art.1   Le Beatitudini
(1)Lo schema delle beatitudini segue una sequenza di 8 + 1: si tratta di otto beatitudini con un ampliamento dell’ultima (vv. 10 e 11). La prima e l’ottava beatitudine promettono come ricompensa il Regno dei Cieli, e sono le uniche a contenere una promessa formulata al presente. Il Regno dei Cieli non è una consolazione “da attendere” nel futuro: il discepolo vive già nel Regno. Le condizioni che introducono il discepolo nella novità del Regno sono due: la povertà di spirito e la persecuzione a motivo della giustizia.

(2)La povertà di spirito. Questa disposizione d’animo, o virtù, apre la serie delle beatitudini, e ciò significa che ne è, per così dire, la porta di ingresso. La povertà di spirito non va confusa con la povertà materiale: la specificazione “di spirito” intende indicare proprio il fatto che non è in questione la quantità di cose che si possiedono. E’ in ballo piuttosto il valore che si attribuisce alle proprie risorse umane, materiali e morali. La mancanza di povertà di spirito impedisce il discepolato, sia che essa si collochi nella sfera dei beni materiali, sia che si collochi in quella dei beni di ordine morale. Ne abbiamo diversi esempi nel Vangelo: il giovane ricco è impedito nel discepolato dal fatto di avere sopravvalutato la sua condizione economica, insieme alla rispettabilità sociale che ne deriva: cfr. Mt 19,16-22; i Farisei, invece, sono impediti nel discepolato dal fatto di avere sopravvalutato la loro cultura e la loro autorità in campo religioso: cfr. Gv 9,30-34. Al cieco nato che tenta di spiegare loro il mistero della sua guarigione, rispondono: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?”. Ormai essi sono giunti all’apice della sapienza e pensano di non avere più nulla da imparare. Sotto questo punto di vista, la povertà di spirito coincide con la verginità mentale. La verginità della mente, infatti, è una delle possibili realizzazioni della povertà di spirito, che invece è un concetto più ampio e più inclusivo.
(3)I due aspetti della povertà di spirito si realizzano in pieno, anche se in modi ovviamente diversi, nei modelli umani di Cristo e di sua Madre.
La Seconda Persona della Trinità, ossia la Parola del Padre, ha fatto delle scelte ben precise circa le risorse terrestri, fin dal primo istante della sua Nascita umana. I Vangeli dell’infanzia ne sono una impressionante testimonianza. Fin da quando si trova nel grembo della Madre “non c’era posto” (cfr. Lc 2,7) per Lui in questo mondo. La sua nascita è quindi sprovvista delle risorse normali che sono a disposizione di tutti, sia ricchi che poveri. Da adulto, durante il ministero pubblico, “non ha dove posare il capo” (cfr. Mt 8,20) e si ferma laddove viene ospitato (cfr. Lc 10,38 e 22,11). Cristo tende in sostanza a utilizzare le risorse terrestri, senza tuttavia farne un assoluto. Come uomo, l’unico elemento a cui attribuisce un carattere assoluto è la Parola che, udita dal Padre nelle sue notti di preghiera, Egli trasmette alle folle che si radunano per ascoltarlo come Maestro (cfr. Gv 5,19-30 e Lc 10,21-22). Come uomo, in certo qual modo, anche Lui vive “un suo discepolato” nei confronti del Padre che gli indica costantemente cosa deve fare e cosa deve dire. Ciò avviene in Lui sulla base di una mente perfettamente vergine e libera dagli ingarbugliamenti umani.
(4)Lo stesso avviene nel discepolato di Maria. Ella vive realizzando la Parola, e la Parola si realizza in Lei. Per il resto, la vita quotidiana scorre sui binari di ciò che è essenziale, senza strane ambizioni, e senza illusioni su se stessa, sapendo di essere, davanti a Dio, soltanto la “sua serva” (cfr. Lc 1,48). Questa capacità di usufruire di tutte le cose create, senza assolutizzarne alcuna, cioè senza far dipendere la propria felicità o infelicità da alcuna cosa creata, e nello stesso tempo percepire la realtà del Regno di Dio come unico assoluto, si chiama evangelicamente “povertà di spirito”, ed è un atteggiamento che rende beati coloro che vivono così.

(5)La persecuzione a causa della giustizia. Questo aspetto non si può mai separare dal cammino del discepolato. Il discepolo è sempre oggetto di ostilità sotto diverse angolazioni. Si può dire che tutta la Bibbia è una dimostrazione di questa verità. In particolare la seconda lettera a Timoteo si esprime con termini molto precisi a questo riguardo: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (3,12). Il testo non sembra ammettere eccezioni di tempo o di luogo o di circostanze: il fatto di vivere in Cristo costituisce già un reato perseguibile in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Il Nemico che si oppone al cammino del discepolo è Satana, e lo fa in molte maniere, sia alleandosi con gli uomini che gli danno spazio, sia agendo da solo. Le Scritture testimoniano entrambe le strategie di attacco. Satana agisce da solo, ossia senza servirsi di strumenti umani, quando ad esempio suggestiona la mente di Eva (cfr. Gen 3,1ss), o quando colpisce Giobbe (cfr. Gb 1,9-12), oppure nelle tentazioni del deserto, in cui Gesù viene fortemente suggestionato dallo spirito del Male (cfr. Mt 4,1ss). In altri casi, lo spirito del male cerca alleati umani: nel momento in cui Satana prende coscienza del fatto che le sue suggestioni non sono capaci di far deviare Cristo dalla sua missione, allora cambia strategia e lo colpisce attraverso il Sinedrio. E’ ciò che si è poi ripetuto regolarmente nella storia della Chiesa; a molti santi è accaduto questo: quando Satana non è riuscito a farli deviare mediante la suggestione e l’inganno, allora ha iniziato a tormentarli attraverso le autorità o civili o ecclesiastiche. Insomma, in un cammino evangelico profondo, prima o poi ci si imbatte nel mistero della persecuzione. Si tratta proprio di un mistero, perché spesso, nelle realtà umane, e soprattutto nelle istituzioni, sono proprio i migliori a essere espulsi verso i margini, messi fuori combattimento, non ascoltati e resi incapaci di influire sulle grandi decisioni, in cui avrebbero probabilmente una parola di sapienza. La lettera agli ebrei esprime proprio questo mistero, in 11,32-38, a proposito di tutti coloro che nell’AT vissero nella fede.

(6)La beatitudine dell’afflizione. Questa affermazione di Cristo è stata a lungo fraintesa, e ha fatto persino pensare, a chi ignora l’insieme delle Scritture, che il cristianesimo sia una religione fatta di gente triste e musona. Sappiamo bene che, se si prende una frase biblica e la si legge da sola, fuori dal contesto si può interpretare come si vuole. La beatitudine acquista il suo vero senso solo se collocata sullo sfondo del panorama biblico. (7)Per la Bibbia, la gioia e l’allegria non sempre sono un valore; vale a dire: ci sono casi in cui la gioia scaturisce dalle esperienze migliori della vita, mentre in altri casi l’allegria è sinonimo di superficialità e di stoltezza. Nella stessa maniera, anche il dolore e l’afflizione per la Bibbia sono delle realtà ambivalenti: c’è il dolore che porta alla sapienza e che quindi rende migliore l’uomo, liberandolo dalle sue stupidità, e c’è il dolore che invece porta alla ribellione e alla disperazione. (8)Sarà opportuno fare qualche riferimento specifico: il profeta Geremia descrive se stesso nell’atto di scegliere quale gioia sperimentare: “Quando le tue parole mi vennero incontro le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore… Non mi sono seduto per divertirmi nelle brigate di buontemponi, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario” (15,16-17). (9)Geremia sente con chiarezza che c’è differenza tra gioia e gioia, e che bisogna saper scegliere di che gioia gioire. Avendo gustato la parola di Dio, le brigate di buontemponi non lo divertono più. I libri sapienziali spiegano in diverse maniere che non si può evitare l’esperienza del dolore, se si vuole giungere alla sapienza: la sapienza si comunica dopo aver messo alla prova l’uomo giusto (cfr. Sir 4,17-19). (10)Qoelet afferma che il cuore del saggio è in una casa in lutto (7,4) e ne dà la motivazione in questi termini: “E’ meglio andare in una casa in pianto che andare in una casa in festa; perché quella è la fine di ogni uomo e chi vive ci rifletterà” (7,2). In termini simili lo stesso concetto viene ripreso dal Salmo 90 (89): “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (v. 12). (11)L’esperienza sofferta del proprio limite umano è il vestibolo della sapienza. Anche la prima di Pietro va in questa linea: “Dopo una breve sofferenza, Dio vi confermerà” (1 Pt 5,10). Lo stesso Cristo, in quanto uomo, ha raggiunto la pienezza della sua maturità mediante la sofferenza (cfr. Eb 2,10). (12)L’Apostolo Paolo distingue anche lui due modi di essere tristi: “La tristezza secondo Dio produce il pentimento che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10). (13)Analogamente, vi sono pure due modi totalmente diversi di rallegrarsi; vi è l’allegria dello stolto: “Guai a voi che ora ridete” (Lc 6,25), ma vi è pure l’esultanza del saggio: “Il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore” (Lc 1,47).
        (14)Il vero senso della beatitudine dell’afflizione va quindi cercato in quel particolare tipo di sofferenza, di cui le Scritture dicono che porta alla scoperta della sapienza e introduce nell’esperienza della salvezza.

Art.2   La beatitudine della mitezza. (1)La mitezza è una virtù che sboccia sul terreno di un’altra virtù che si chiama “dominio di sé”. L’Apostolo Paolo cita tra i frutti dello Spirito, l’una accanto all’altro, la mitezza e il dominio di sé (cfr. Gal 5,22). (2)Ciò significa che tanto l’una quanto l’altro possono esistere solo nel quadro della vita di chi cammina secondo lo Spirito. L’uomo che pensa e agisce in modo puramente naturale non sa neppure che cosa siano la mitezza o il dominio di sé, e spesso, vedendoli in una persona che vive il Vangelo, li fraintende, credendo che la mitezza sia in realtà debolezza, e il dominio di sé lo scambia con l’indifferenza. (3)In verità, questo succede con tutto il resto delle manifestazioni dell’uomo spirituale; lo stesso Apostolo Paolo è molto esplicito su questo punto, perché nessun cristiano si illuda di essere compreso da un non cristiano: “l’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle” (1 Cor 2,14).
        (4)Dunque, solo chi vive pienamente la vita nello Spirito sa che cos’è effettivamente la mitezza. Ai miti, Cristo promette la terra, cioè la creazione, come eredità. Vedremo più avanti cosa può significare questo. Per adesso, fermiamoci sul senso della mitezza come atteggiamento dell’uomo spirituale. (5)La virtù della mitezza si inquadra intanto nella stessa logica di tutte le altre virtù evangeliche, la logica indicata da Cristo ai suoi discepoli, e che potremmo definire “logica imitativa”: Siate perfetti come è perfetto il Padre (cfr. Mt 5,48). (6)La fisionomia spirituale del discepolo non si costruisce sulla base di un codice di “buone maniere”, o una specie di copione celeste da applicare, ma si costruisce lungo la maturazione di un processo imitativo per il quale il battezzato diventa tanto più cristiano quanto più agisce come agisce Dio. (7)Al discepolo è richiesta la mansuetudine non perché essa fa parte delle “buone maniere”, ma perché Dio stesso è mansueto. (8)E’ questo l’insegnamento proveniente dal libro della Sapienza: “Il tuo dominio universale ti rende indulgente con tutti… Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza; ci governi con molta indulgenza, perché il potere lo eserciti quando vuoi” (12,17-18). (9)In sostanza, Dio si comporta con noi in maniera dolce e indulgente, governa tutto con mansuetudine, e si può permettere di essere mansueto non perché non ha forza, ma, al contrario, perché il potere lo esercita senza limiti, quando vuole. (10)Ciò significa che la mansuetudine, come virtù evangelica, è autentica solo quando scaturisce da un animo reso forte dalla Presenza dello Spirito di Dio. Infatti, esiste anche una mansuetudine che non è virtù ma è semplice debolezza; è molto facile però distinguerle, perché chi cammina profondamente nella via del Vangelo, non è mai debole, perché lo Spirito di Dio gli dà una statura morale molto grande, e se non si impone lo fa solo per scelta. (11)Chi vive un cristianesimo solo esteriore non ha la pienezza dello Spirito, e molto facilmente la sua mansuetudine non è una virtù. Ma a noi la degenerazione non interessa; interessa invece la virtù. (12)Dicevamo che Dio è mite. Nell’AT, una delle figure più eminenti è Mosè; di lui si dice in Nm 12,3: “Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra”. L’idea della mansuetudine di Mosè sembra essere particolarmente importante nella coscienza religiosa ebraica, tanto che viene ripresa dal Siracide: “Lo santificò nella fedeltà e nella mansuetudine” (Sir 45,4). (13)Anche Cristo, nelle sue scelte di Uomo, si muove sulla strada della mansuetudine. Già il Salmo 45 presenta il Messia avanzare “per la verità, la mitezza e la giustizia” (v. 11). (14)Anche il profeta Zaccaria si muove nella stessa linea: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile…” (9,9). E Isaia: “Quando sarà estinto il tiranno… allora sarà stabilito un trono sulla mansuetudine” (16,5). (15)Finché ci viene svelata la volontà del Maestro, per il Quale la scelta della mansuetudine, prioritaria per Lui, deve esserlo anche per i suoi discepoli: “Imparate da Me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,29). Il vertice della sua divina mansuetudine è rappresentato dal modo con cui Egli ha affrontato la sua Passione, rimanendo in silenzio dinanzi alle accuse e alle ironie di chi gli chiedeva un prodigio per dimostrare a tutti di non essere un impostore (cfr. Mt 27,39-40.49; Lc 23,8.37.39).
        (16)Il grande valore della mansuetudine è fortemente radicato nella coscienza degli Apostoli. La mansuetudine è una delle virtù principali di un pastore: “Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza” (1 Tm 6,11). (17)E di nuovo: “Evita inoltre le discussioni sciocche e non educative, sapendo che generano contese. Un servo del Signore non deve essere litigioso, ma mite con tutti, atto a insegnare, paziente nelle offese subite” (2 Tm 2,23-24). (18)La mansuetudine è infatti la scelta di fondo del ministero dell’Apostolo Paolo: “Io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo” (2 Cor 10,1).
(19)Quanto all’eredità della terra è un concetto che Cristo riprende dal Salmo 37, e questo particolare ci fa pensare che la promessa di entrare nella nuova creazione sia strettamente legata al rispetto dell’ordine stabilito da Dio nella natura, che presuppone appunto la scelta della mitezza. (20)Il contrario della mitezza è infatti la violenza, ossia la violazione dell’ordine. Il Salmo 37 ha quasi le stesse parole pronunciate da Cristo nel discorso della montagna: “I miti possederanno la terra e godranno di una grande pace” (v. 11). Il Salmo mette in contrasto questo destino promesso ai miti con quello che toccherà agli empi, i quali “sfoderano la spada e tendono l’arco per abbattere il misero” (v. 14). (21)La violenza dell’empio è quindi sinonimo di oppressione e di distruzione, quindi implicitamente è anche violazione dell’ordine del creato. Ogni atto violento, in sostanza, va a colpire i diritti di Dio nelle sue creature. (22)Per questo, il disprezzo dell’ecosistema, e la violazione degli equilibri su cui si regge la terra, è uno stile di vita che rende la persona inaffidabile; vale a dire: dal punto di vista di Dio, la creazione nuova che ci è stata promessa, difficilmente potrà essere affidata alle mani di chi ha rovinato la creazione precedente, nella quale ci stiamo attualmente muovendo. (23)Chi ha fatto la scelta della mitezza, invece, tratta ogni cosa creata con grande delicatezza e rispetto. Per questo, Dio gli affiderà la prossima, meravigliosa creazione (cfr. Ap 21,1).

Art.3   La beatitudine di chi attende il compimento della giustizia. (1)Nella Bibbia, una delle caratteristiche dell’uomo giusto è la sofferenza dovuta al male che egli vede intorno a sé. (2)Ne abbiamo una toccante testimonianza nel libro del profeta Abacuc: “Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti… Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?… L’empio infatti raggira il giusto e il giudizio ne esce stravolto” (1,2-4). (3)E più avanti: “Guai a chi costruisce una città sul sangue e fonda un castello sull’iniquità” (2,12). (4)La seconda lettera di Pietro dice che Dio “liberò il giusto Lot, angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto, infatti, per ciò che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno” (2,7-8).
(5)L’uomo giusto è in sostanza accompagnato sempre da questa spina nel fianco: il fatto di essere spettatore del trionfo dell’ingiustizia e il più delle volte perfino impotente a fare qualcosa. Nelle parole di Cristo, traspare il carattere perenne dell’ingiustizia del mondo: parlando a tutti gli uomini giusti di tutte le generazioni, Egli dà per scontato che essi debbano soffrire in ogni secolo, perché l’ingiustizia non sarà mai sradicata dalla società degli uomini attraverso le riforme. E in ogni parte della terra avrà regolarmente la prevalenza sulla giustizia. Semmai, sarà Dio a stabilire una giustizia definitiva quando questo cielo e questa terra saranno passati. (6)Proprio questo è l’anelito della seconda lettera di Pietro: “Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta… E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2 Pt 3,10.13). (7)Cristo infatti promette giustizia a quelli che soffrono nel vedere il dilagare del male intorno a sé, e lo fa nella qualità di Re del Regno che viene. Il futuro grammaticale “saranno saziati” allude al futuro esistenziale dell’instaurazione del suo Regno che nel tempo attuale è presente solo in germe. (8)In altre parole, il Re del Regno futuro non lascerà sospese le pendenze della giustizia e restaurerà tutti gli equilibri turbati da una storia umana fatta di soprusi, guerre, conquiste, genocidi, pulizie etniche, ingiustizie sociali e individuali. (9)Ma fino a quel momento, è richiesta ai discepoli una grande capacità di fede, di sopportazione, di sofferenza, di attesa, di pazienza, di perdono (cfr. Mt 13,24-30). (10)Anche qui il discepolo è invitato non ad applicare una regola di buon comportamento, ma ad imitare Cristo che “rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia” (1 Pt 2,23).

Art.4 La beatitudine dei misericordiosi. (1)Qui il discepolo si può dire che tocchi il punto più vicino allo stile di vita realizzato personalmente dal Cristo storico. Gli uomini e le donne che sanno perdonare sono infatti coloro che gli somigliano di più. (2)Non è la capacità di soffrire ciò che ci fa rassomigliare a Cristo: infatti, la sofferenza non ha neppure un valore evangelico, qualora sia sopportata da un animo non riconciliato, risentito o ribelle. (3)La Misericordia di Cristo sgorga dal cuore stesso della sua sofferenza, cioè dalle ferite aperte della Croce, e perciò ogni misericordia autenticamente evangelica è sempre qualcosa che somiglia a un perdono che fluisce da una ferita aperta. (4)La misericordia è un atteggiamento possibile solo a coloro che vivono nella sapienza della croce. (5)Taluni dicono di non riuscire a perdonare, nonostante i loro sforzi; ed è vero. La causa è molto semplice: molti anni sono passati dal giorno del loro battesimo, ma essi sono rimasti fermi dove erano allora. Sono cresciuti solo fisicamente, e hanno acquisito un po’ di esperienza umana. Ma non sono cresciuti nella grazia battesimale. Hanno fatto come chi mette il pieno di benzina nella propria macchina e poi non parte.
(6)Il NT tocca molte volte questo tema, che non è secondario nella vita e nel pensiero del cristianesimo. Sarà quindi opportuno riprendere alcuni testi sull’argomento. Di nuovo dobbiamo sottolineare il carattere “imitativo” di questi atteggiamenti indicati ai discepoli, “imitativo” e non puramente “esecutivo”. (8)Con ciò si intende dire che il discepolo, nelle sue scelte concrete, non è posto dinanzi a una lista di “buone maniere”, ma è posto dinanzi alla Persona del Dio di Israele, nel suo modo di entrare in relazione con l’umanità. (9)Il discepolo deve in sostanza “replicare” lo stile dell’agire di Dio, e il suo comportamento, nella sfera delle relazioni interumane. Replicare lo stile di Dio significa dare un’idea visibile della personalità del Dio della rivelazione. (10)Il discepolo è dunque una “rivelazione personale” di Dio alla portata degli uomini. E’ il modo di essere del discepolo che deve “dire” qualcosa di Dio, prima ancora delle sue singole azioni o delle sue singole parole. Sotto questo aspetto, l’atteggiamento della misericordia è un canale privilegiato di rivelazione, perché la Misericordia è appunto una nota costante dell’agire di Dio. (11)Per comprendere tutta la portata di questa realtà, bisogna tenere presenti diversi passaggi della Scrittura. Già in epoca mosaica, nonostante gli aspetti rigidi del monoteismo ebraico, è chiaro che la Misericordia è l’attributo più radicale del Dio del Sinai, che pure fa la sua comparsa sulla cima del monte tra fulmini e terremoti. (12)Dopo il peccato del vitello d’oro, preso dall’ira, Mosè spezza le tavole della Legge, ma Dio lo invita a salire di nuovo sul Sinai per riceverne un’altra copia (cfr. Es 32,19 e 34,1). (13)Prima di dare a Mosè un’altra copia del Decalogo, Dio scende nella nube e proclama la propria misericordia, quasi correggendo l’ira di Mosè: “Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia” (34,6). (14)Dio presenta a Mosè un modello di comportamento non attraverso un codice, ma attraverso la semplice manifestazione del proprio modo di agire. (15)Solo a questa condizione il Decalogo può essere letto sotto la sua giusta luce: non un codice impersonale di leggi, ma una traduzione, a dimensione umana, del modo di agire di Dio. (16)Anche il Deuteronomio ci tiene ad affermare: “Il Signore, Dio tuo, è un Dio misericordioso” (4,3). Il Levitico sottolinea ripetutamente l’aspetto imitativo della Legge: “Siate santi, perché Io sono Santo” (11,44; 19,2; 20,7). L’AT, in generale, tende a equilibrare la misericordia di Dio con un altro attributo inseparabile, che è la giustizia: “Signore, giusto e misericordioso” (2 Mac 1,24); “buono, misericordioso e giusto” (Sal 112,4). (17)In sostanza, si vuole affermare che la misericordia di Dio è sempre armonizzata con la giustizia, dal momento che nessun uomo ragionevole si sentirebbe di accettare un concetto di “misericordia” che chiudesse gli occhi sulla realtà, fingendo di non vedere l’ingiustizia umana e di non sentire il grido degli oppressi. (18)La misericordia di Dio non è una dimenticanza del male e non è un tacito lasciapassare per la prepotenza. Perciò la Bibbia, proclamando che Dio è Misericordioso, precisa che Egli è contemporaneamente anche Giusto. (19)La misericordia di Dio si personifica in maniera perfettissima nella fisionomia umana di Cristo. La sua misericordia si colloca nell’esatto equilibrio della giustizia. (20)In nessun punto del Vangelo, Cristo è misericordioso senza rispettare la giustizia: la sua offerta di misericordia è fondata infatti sulla propria morte di croce, con la quale Egli ha già pagato il debito degli uomini con la divina giustizia. (21)Se il peccatore può accedere al perdono di Dio e ritrovare la sua Paternità, ciò è possibile perché Cristo ha pagato sostitutivamente il suo debito con Dio. Questo è esattamente il senso delle parole che Egli pronuncia sul calice durante l’Ultima Cena: “Bevetene tutti, perché questo è il mio Sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,27-28). (22)L’Apostolo Pietro, riprendendo un oracolo di Isaia, esprime proprio questa medesima idea nella sua prima lettera: “Dalle sue piaghe siete stati guariti” (1 Pt 2,25). La grazia della guarigione scaturisce in sostanza da un castigo che si è abbattuto su di Lui. (23)In questa linea va pure interpretato il battesimo di penitenza che Egli riceve dal Battista, pur non avendo peccati personali di cui pentirsi: infatti Cristo ha assunto il peccato del mondo sulla sua natura umana, e sulla croce, distruggendo la propria natura, ha distrutto l’umanità peccatrice, per farla risorgere con Sé. Così, Egli può essere misericordioso senza essere complice.
(24)Gli equilibri della giustizia sono osservati anche sotto un altro punto di vista: la sua misericordia non può operare la guarigione dell’uomo, se non è liberamente accolta. (25)Questo significa che nessuno può giungere all’Amore di Dio a buon mercato, cioè senza la fatica e la determinazione volontaria del cammino di conversione. Sarebbe ingiusto se avvenisse diversamente.
        (26)Al discepolo si richiede di essere misericordioso proprio in questo senso, essere cioè capace di intercedere per il peccato altrui (oltre che per il proprio), mantenendo intatti gli equilibri della giustizia, senza che la misericordia sia mai una complicità o una chiusura di occhi sul peccato.
(27)La misericordia di Dio non è mai in contrasto con la giustizia, perché è data solo a chi decide di accoglierla nella propria vita, ma anche perché non è data a coloro che rifiutano di offrire misericordia al proprio prossimo. Questo aspetto della questione è bisognoso di alcune precisazioni. (28)La beatitudine dei misericordiosi consiste infatti nella possibilità di trovare misericordia, ovviamente presso Dio. L’offerta della misericordia al proprio prossimo, però, non equivale a una riconciliazione in senso assoluto. Abbiamo affrontato altrove questa problematica, ma la riprendiamo qui nei suoi elementi essenziali, data l’importanza che riveste e i gravi fraintendimenti di cui è oggetto.
(29)Il primo e più grave fraintendimento consiste nel ritenere che il cristianesimo imponga una condizione di rapporti pacifici con tutti. Da qui i sensi di colpa di chi, avendo fatto tutto per ricucire un’amicizia compromessa, viene rifiutato dall’altra persona e fallisce nel suo tentativo di riconciliazione. (30)Questo genere di sensi di colpa -  e sono molto diffusi, come ben sanno i confessori – è determinato dal non aver capito che cosa il cristianesimo effettivamente chieda in materia di amore fraterno. (31)Innanzitutto non chiede di vivere riconciliati con tutti a tutti i costi. L’esempio più chiaro è Gesù stesso, e non c’è nemmeno bisogno di citazioni precise, tanto la cosa è evidente: Cristo non è mai riuscito a vivere in pace con tutti; c’è stato sempre qualcuno che lo ha odiato e perseguitato. (32)Nel tentativo di vivere riconciliato con tutti, Lui ha fallito per primo. Quindi il Vangelo non chiede questo. Che cosa chiede allora? Il Vangelo chiede che ciascun uomo, perdonato da Dio, offra al suo prossimo un perdono incondizionato come atto interiore, anche se esteriormente può non raggiungere l’effetto della riconciliazione. (33)La riconciliazione è infatti un incontro a metà strada, ma se l’altro non vuole riconciliarsi, non c’è nulla da fare, e il cristiano deve ritenersi a quel punto libero da ogni responsabilità. (34)Avendo fatto il nostro possibile, si entra nella pace, anche se intorno a noi crolla il mondo. Dalla croce Cristo ha perdonato i suoi crocifissori, come atto interiore, ma non ha potuto riconciliarli con Sé: l’unico che ha sperimentato la riconciliazione è il ladro crocifisso accanto a Lui (cfr. Lc 23,39-43). (35)Anche l’Apostolo Paolo si muove in questa linea, dicendo ai Romani: “Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12,18). Paolo sente il bisogno di premettere all’esortazione alla pace ben due restrizioni: 1. se possibile; 2. per quanto questo dipende da voi. (36)Anche lui, del resto, aveva fallito proprio come Cristo, nel tentativo di vivere in pace con tutti. Molto spesso la pace può essere solo un atto interiore, a condizione, ovviamente, che uno sia oggettivamente innocente e sia odiato per motivi indipendenti dalla sua volontà.
(37)Anche il Vangelo di Luca ha chiaro il fatto che la riconciliazione, intesa come ripristino dell’amicizia, può aversi solo in un incontro a metà strada: “Se [tuo fratello] si pente, perdonagli. Se pecca sette volte e sette volte ti dice ‘mi pento’, tu gli perdonerai” (Lc 17,3-4). (38)E’ significativa la menzione ripetuta del pentimento: il tuo fratello che ha mancato, potrai perdonarlo se si pente; in sostanza, non potrai riconciliarlo con te, se oltre al peccato aggiunge anche la convinzione di essere nel giusto. (39)E se pecca sette volte, deve pentirsi sette volte, perché possa verificarsi la riconciliazione. Anche qui, la misericordia e la giustizia, nella vita dei discepoli, devono restare in reciproco equilibrio.
(40)Secondo fraintendimento: a chi va fatta l’offerta della misericordia? Quelli che non conoscono il Vangelo rispondono: va fatta a tutti senza distinzione. Però, alla luce dei testi di Matteo e Luca sulla riconciliazione umana, non ci sembra che questa risposta sia del tutto esatta. (41)Entrambi i testi si aprono con un frase condizionale quasi identica: “Se il tuo fratello…” (Mt 18,15); “Se un tuo fratello…” (Lc 17,3). La risposta circa il destinatario del perdono incondizionato è tutta in queste due parolette: tuo fratello. Vale a dire: l’offerta esplicita del perdono, dopo avere ricevuto un’offesa, può essere fatta senza pericoli soltanto a chi ti è fratello nella fede e nell’impegno della conversione. (42)Chi non crede in Cristo, e non cammina nella fede, ragiona secondo il mondo, e perciò non può capire nella giusta luce la mia offerta di riconciliazione. E’ più facile che mi fraintenda, pensando che io voglia tenermelo amico per paura o per interesse o chissà per quale altro scopo. Non conoscendo la fede cristiana, potrà solo interpretare il mio gesto a modo suo e la situazione potrebbe peggiorare. In questi casi difficili sarà la conoscenza profonda del soggetto che mi sta dinanzi a indirizzarmi sull’atteggiamento più adeguato - cioè bisogna capire fino in fondo - che tipo di uomo è il non cristiano con cui mi trovo in relazione, mentre la prudenza e la maturità umana suggeriranno poi il da farsi.

Art.5   La beatitudine dei puri di cuore. (1)Ai puri di cuore è promessa la visione di Dio. Ci si deve chiedere a quale visione Cristo qui intenda riferirsi: se a quella che si ha di Dio dopo la morte, oppure anche a qualcosa d’altro. (2)La visione di Dio dopo la morte è comunque inclusa necessariamente in questo enunciato, come parte integrante della fede biblica; si può ricordare a questo proposito il libro di Giobbe: “senza la mia carne vedrò Dio” (19,26), oppure la prima lettera di Giovanni: “Lo vedremo così come Egli è” (3,2). (3)La Scrittura insomma afferma in più punti che Dio può essere visto dall’uomo in visione diretta, ma non con gli occhi del corpo; di conseguenza,  la visione diretta di Dio è possibile solo dopo che l’anima umana si è liberata dai limiti della corporeità.
(4)Secondo le Scritture, però, questo non è l’unico modo di “vedere Dio”. Per esempio, in Es 24,10 si dice che Mosè e gli anziani “videro il Dio di Israele”. Il profeta Isaia, nel giorno della propria vocazione, avverte una particolare cognizione della gloria di Dio: “Io vidi il Signore seduto su un trono… i miei occhi hanno visto il Re” (6,1.5). Infine, Gesù stesso, nel suo dialogo notturno con Nicodemo, afferma la possibilità di “vedere” il Regno di Dio, ancor prima di morire, ma a condizione di essere rinati dall’alto (cfr. Gv 3,3). Ai suoi discepoli, poi, Cristo dice: “Fin da ora avete visto il Padre… chi ha visto Me, ha visto il Padre” (Gv 14,7-9).
(5)La beatitudine dei puri di cuore, va allora interpretata in entrambe le direzioni: Dio e il suo Regno sono visibili già su questa terra, anche se non a tutti. (6)La purezza di cuore si presenta perciò come la condizione della visione di Dio nell’aldiqua. Rimane però da vedere che cosa intenda la Bibbia con l’espressione “purezza di cuore”. (7)L’AT considera la purezza di cuore in contrasto con la purezza rituale. Il culto di Israele richiedeva una serie di lavaggi del corpo, delle vesti, degli oggetti, però era chiaro che questa purificazione con l’acqua era solo un precetto del rituale e che a essa si doveva accompagnare una seconda purezza, che è quella interiore, appunto la “purezza del cuore”. (8)Un testo abbastanza chiaro a questo riguardo è 2 Cr 30,18-20, dove si afferma che il culto si può celebrare ugualmente, “anche senza la purificazione necessaria”, a condizione che si abbia “il cuore disposto a ricercare Dio”. Si comprende da questo che il cuore disposto a ricercare Dio costituisce già in se stesso quella “purezza” richiesta per il culto, di cui la purificazione rituale è soltanto un segno esteriore. Si può tentare allora una risposta alla domanda sulla natura della purezza di cuore che permette di vedere Dio: è puro quel cuore che cerca Dio senza seconde finalità. (9)In sostanza, la radice della purezza di cuore è cercare Dio senza cercare se stessi. Il libro della Sapienza conferma questo insegnamento: “Cercate il Signore con cuore semplice” (1,1), ossia: senza doppiezze o secondi fini. A questi, Dio dà la visione di Sé, già in questa vita. (10)Vedere Dio in questa vita equivale a riconoscere il suo passaggio e i suoi “segni”. Cristo piange su Gerusalemme proprio perché non ha saputo “vedere” Dio che l’ha visitata a suo tempo (cfr. Lc 19,41-44). (11)Alla disposizione di rettitudine, propria di chi cerca Dio senza cercare un utile personale, si aggiunge poi un’opera di purificazione passiva, che deve essere oggetto della preghiera del discepolo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro” (Sal 51,12). (12)L’uomo non è infatti in grado di purificare la propria interiorità solo con la forza della volontà. Il cuore umano ha bisogno di essere in un certo qual modo ricreato: “Vi darò un cuore nuovo” (Ez 36,26).

Art.6   La beatitudine degli operatori di pace. (1)La riconciliazione e la pacificazione rappresentano delle attività specifiche del Figlio e sono anche gli obiettivi prioritari nella sua missione terrena. (2)E’ quindi logico che Dio consideri suoi figli coloro che portano avanti nel mondo la medesima opera del Figlio. Da questo punto di vista si direbbe che la possibilità di entrare nella Paternità di Dio sia data dalla disponibilità personale a consegnarsi per la causa della pace. (3)L’Apostolo Paolo sottolinea a più riprese il fatto che Dio è il datore della pace: “Il Dio della pace sia con tutti voi” (Rm 15,32); “La pace di Dio custodirà i vostri cuori” (Fil 4,7); perciò, il Vangelo stesso è innanzitutto annuncio di pace: “… avendo come calzatura lo zelo per propagare il Vangelo della pace” (Ef 6,15). (4)La pacificazione è dunque l’opera principale di Dio in Cristo, nel quale il Padre ha riconciliato il mondo a Sé (cfr. 2 Cor 5,18 e Col 1,20). Tutti quelli che vi aderiscono, sono figli di Dio, e tutti coloro che sono entrati nella Paternità di Dio, si riconoscono in base a questa caratteristica inconfondibile di pacificatori. (5)Naturalmente, qui va ricordato quanto detto a proposito della beatitudine dei misericordiosi: non si tratta di vivere in pace con tutti, a tutti i costi; infatti, non possiamo impedire a nessuno di odiarci senza ragione. Anzi, essere odiati senza motivo è un segno evangelico molto consolante (cfr. Mt 5,11-12 e Lc 6,26). (6)L’opera di pace portata avanti nel mondo dai figli di Dio è identica a quella del Figlio: essa si esprime innanzitutto nell’offerta della propria vita e della propria preghiera di intercessione per tutti gli uomini, e nella capacità di accettare e accogliere tutti nel proprio cuore così come sono.

Capitolo 2

Art.1 Una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei
(1)Siamo al secondo nucleo tematico del lungo discorso sui tratti etici e sulle virtù del discepolato. Qui Cristo annuncia un elemento distintivo tra il discepolato ebraico e quello cristiano. Ai propri discepoli, Cristo chiede una “giustizia superiore”. (2)E’ di estrema importanza la comprensione di questa giustizia diversa da quella ebraica e soprattutto dei modi in cui va realizzata. Tutta la sezione finale del cap. 5 è dedicata alla promulgazione solenne di una nuova giustizia, e precisamente a partire dal v. 21, cui funge da introduzione l’enunciato del v. 17: “Non pensate che Io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento”. (3)La giustizia nuova consiste, in sostanza, nel condurre l’antica alla sua ultima perfezione, al suo definitivo compimento. Il Vangelo allora non dichiara nullo il Decalogo. Ma in che modo lo perfeziona? A questa domanda si potrà rispondere solo dopo avere analizzato attentamente i vv. 21-48. Per dare però fin da adesso una chiave di lettura della sezione che stiamo per analizzare, si può dire brevemente che la giustizia superiore realizzata dal discepolo consiste non nell’applicazione materiale dei singoli comandamenti della Legge di Mosè, ma nel risalire dalla Legge di Mosè all’intenzionalità della Mente di Dio. Cosa questo voglia dire esattamente si vedrà dai vv. 21-48.

Avete inteso… ma Io vi dico
(4)L’intera sezione dei vv. 21-48 è costruita su una serie di opposizioni. L’espressione ricorrente “Avete inteso…” si riferisce in parte al Decalogo e in parte ad altre sezioni legislative del Pentateuco, quali Numeri e Deuteronomio. (5)Con l’espressione “Ma Io vi dico…”, Cristo non intende enunciare un’altra legge diversa da quella, ma intende spiegare che dietro quel precetto c’è una precisa intenzione di Dio, ed è quella che va osservata aldilà di ciò che il comandamento materialmente dice. Il discepolato degli scribi e dei farisei si fermava all’applicazione “materiale” di ciò che il comandamento di Dio diceva a livello letterale. (6)Il discepolato cristiano deve invece penetrare dal senso letterale delle Scritture fino alle intenzioni di Dio, e osservare quelle al di sopra della lettera.
(7)La prima opposizione prende le mosse dal comandamento che letteralmente suona così: “non uccidere”. Chi interpreta questo comandamento “alla lettera”, come facevano i farisei del tempo di Gesù, penserà che qui Dio intenda vietare a un uomo di togliere la vita a un altro uomo. (8)E certamente è così; ma è tutta qui l’intenzione di Dio? Ha osservato il comandamento di non uccidere colui che non ha mai ucciso nessuno? Spiegando il senso di questo comandamento, Cristo fa intendere che il comandamento non riguarda solo l’uccisione “fisica” dell’uomo, ma riguarda anche l’uccisione della sua persona e della sua dignità. (9)Così il comandamento è già trasgredito negli atteggiamenti dell’ira e del disprezzo, che uccidono la persona nel cuore, anche se non fisicamente. (10)L’osservanza del comandamento “non uccidere” si realizza quindi nell’accoglienza mite e incondizionata degli altri, così come sono, senza ira e senza disprezzo. In questa linea, i vv. 23-26 indicano un’ideale di pacificazione che è alla base di un culto gradito a Dio, dal momento che non possono essere accolte presso Dio le orazioni e le offerte di chi non è in pace con gli altri. E’ pure ovvio che ciò va inteso alla luce di quanto abbiamo detto sulla riconciliazione a proposito della beatitudine dei misericordiosi.

(11)La seconda opposizione riguarda il comandamento “non commettere adulterio”. A livello letterale il comandamento proibisce il rapporto sessuale con una donna che non è la propria moglie, ma è tutta qui l’intenzione di Dio? (12)Il Maestro dice che Dio non intendeva solo questo. Infatti è possibile essere adulteri già guardando una donna in un certo modo. I farisei pensavano che l’adulterio si possa commettere solo con il corpo, unendosi fisicamente a una donna che non è la propria moglie, Cristo svela che, dal punto di vista di Dio, esiste anche un adulterio commesso “nel cuore”. (13)Sarà opportuno fermarci un po’ su questa interpretazione dell’adulterio, come atto commesso “nel cuore”, perché l’insegnamento di Cristo su questo punto riguarda anche una nuova visione del rapporto dell’uomo con la propria moglie.
        (14)Rileggiamo l’enunciato: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma Io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (vv. 27-28). Ci troviamo di fronte a un riferimento al cuore che si può accostare a quello della risposta ai farisei in Mt 19,8. (15)Il fallimento dell’amore umano è causato da qualcosa che non funziona nelle profondità del cuore. Da questa malattia del cuore nascono sia l’adulterio che il divorzio, fenomeni non previsti nella creazione uscita dalle mani di Dio “all’inizio” (Mt 19,8-9). (16)Il Creatore aveva pensato all’inizio l’amore umano come una unità di due esseri “simili” (cfr. Gen 2,18); questo significa che per formare una coppia, che possa realizzare davvero l’amore, non basta che l’uomo e la donna si piacciano reciprocamente, ma è soprattutto necessario che abbiano lo stesso cuore.
(17)“Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma Io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (vv. 27-28).

(18)Dal racconto di Genesi, come già dicevamo, si può desumere che l’amore umano può realizzarsi davvero solo quando l’uomo e la donna, oltre a piacersi reciprocamente sul piano umano, abbiano anche lo stesso cuore, cioè abbiano impostato la vita sulle stesse basi e sugli stessi valori. (19)Al tempo del fidanzamento questa realtà non si comprende, ma la comprendono le coppie mature, quando, dinanzi a certe scelte importanti della vita, si accorgono che gli orientamenti delle loro coscienze sono diversi. Questo era ciò che Dio non voleva ed è uno degli aspetti della “malattia del cuore” che impedisce all’uomo e alla donna un’esperienza d’amore veramente piena e felice. (20)E’ questa mancanza di intesa profonda degli animi ciò che, col tempo, porta uno dei due, o tutti e due, a cercare un altro uomo o un’altra donna, capace di capire il proprio animo in profondità. Da qui possono nascere l’adulterio o il divorzio. La diversità delle coscienze è anche la causa dell’incomprensione e della incomunicabilità.
        (21)Un secondo guasto del cuore, che impedisce un’esperienza piena d’amore, all’interno della coppia, è rappresentato dalla tendenza a scindere il corpo della persona, con la conseguenza di una sessualità nella quale si incontra il corpo del proprio partner, ma non la sua persona. (22)L’adulterio commesso “nel cuore” ha a che vedere con questa forma di malattia spirituale, il cui sintomo è la separazione della persona dal suo corpo. Cristo parla di un certo modo di guardare “una donna”, lasciando nel vago l’identità di lei. (23)Con il termine “una donna”, Cristo si riferisce genericamente a ogni donna possibile che cade sotto lo sguardo di un uomo. Ne risulta che la donna a cui si rivolge il desiderio dell’uomo che la guarda in quel modo, può essere anche una sconosciuta. (24)Il che sottolinea un desiderio che non può rivolgersi alla persona (che è sconosciuta), ma che deve necessariamente rivolgersi solo al suo corpo. Guardare la donna per desiderare solo il suo corpo implica perciò una riduzione dell’universo femminile da soggetto personale a oggetto di fruizione. (25)Ecco che a questo punto la donna ha cessato di essere per l’uomo il secondo termine di un’alleanza personale, ossia: nel cuore dell’uomo il corpo della donna si è separato dalla sua persona, ed è diventato un oggetto indipendente. (26)L’espressione generica “una donna” ha anche un altro risvolto. “Chiunque guarda una donna…”, è una frase che può avere come personaggi ogni uomo e ogni donna. Il che significa che la donna guardata in quel modo può essere una sconosciuta, ma può essere anche la propria moglie. (27)Il Maestro infatti non specifica “Chiunque guarda una donna che non è sua moglie…”, ma semplicemente “Chiunque guarda una donna…”. All’uomo può dunque succedere di guardare con quello stesso sguardo, che riduce la donna da soggetto a oggetto, anche la propria moglie. Accade così che, pur nella legittimità del sacramento validamente celebrato, l’uomo e la donna possono allontanarsi notevolmente dalle intenzioni del Creatore. (28)Ecco perché, nel discepolato, la giustizia dei farisei, cioè l’osservanza puramente materiale dei comandamenti, non basta più; occorre infatti una profonda guarigione del cuore per osservare le esigenze delle intenzioni di Dio. (29)I vv. 29-30 esprimono poi il cammino cristiano nelle sue concrete difficoltà. In altre parole, il passaggio dall’osservanza materiale dei comandamenti all’osservanza delle intenzioni di Dio, è, sì, un dono di grazia, ma è anche frutto di impegno e di conquista sofferta. (30)L’idea di ascesi e di violenza verso se stessi, espressa dai vv. 29-30 non va quindi presa alla lettera: anch’essa va intesa nel suo “spirito”. E il suo “spirito” descrive un cristianesimo che è dono, ma non un dono ricevuto passivamente. Il dono di Dio, per fruttificare in pieno, ha bisogno di essere accolto in animi forti, che non temono la fatica e la sofferenza, pur di giungere alla statura dei figli di Dio.
        (31)I vv. 31-32 si riallacciano alla questione dell’amore umano deformato a causa dei guasti del cuore, riprendendo la normativa ebraica del divorzio. La legge ebraica, sulla base di Dt 24, ammetteva la possibilità del divorzio. (32)Il Maestro nega che ciò corrisponda alla volontà di Dio, ossia alla sua intenzione originaria; ad ogni modo, la questione verrà affrontata più ampiamente in una disputa coi farisei in Mt 19,3-9.

(33) “Avete inteso che fu detto: Non spergiurare ma adempi i tuoi giuramenti; ma Io vi dico: non giurate affatto” (vv. 33-34).

(34) Nell’AT era in uso la consuetudine dei giuramenti, e si poteva giurare anche su Dio, purché non si giurasse il falso. Possiamo ricordare molti episodi fin dall’epoca patriarcale. Nel dialogo tra Abramo e Abimelech, quest’ultimo dice: “Giurami qui per Dio che tu non mi ingannerai”. Rispose Abramo: “Io lo giuro” (Gen 21,23). Il libro del Levitico considera lecito il giuramento veritiero: Lv 19,12: “Non giurerete il falso”. Il Deuteronomio prescrive persino il giuramento fatto nel nome di Dio: “Temerai il Signore Dio tuo e giurerai per il suo nome” (6,13). (35) Cristo si riferisce indubbiamente a questa consuetudine di giurare nel nome di Dio, che non era solo un modo di fare comune agli israeliti, ma era anche un precetto della Legge mosaica. Di conseguenza, l’israelita giurava nel nome di Dio con l’intenzione di ubbidire a un preciso comando del Deuteronomio. (36) Anche in questo caso il giudizio di Cristo sulla Legge di Mosè è al limite dello scandalo: “non giurate affatto” (Mt 5,34). In sostanza, l’AT, e in particolare il Pentateuco, non è sempre uno specchio fedele della Volontà di Dio. Anzi, in questo caso l’intenzione di Dio è un’altra: (37) Egli non vuole che l’uomo pronunci giuramenti nel nome di Dio, anche se sono giuramenti veritieri, perché “il cielo è il trono di Dio” (cfr. v. 34), ossia: l’uomo non deve giurare per ciò che è più grande di lui. Il fatto di non pronunciare giuramenti nel nome di Dio è una forma di rispetto della sua Maestà. (38) Non solo: il discepolo non deve giurare per nessuna creatura, perché non è padrone di niente, e quindi non deve giurare neppure per se stesso, perché non è padrone neppure dei suoi capelli. Più avanti dirà che “perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati” (Mt 10,30), per dire che Dio sa tutto di noi, anche le cose che noi non sappiamo di noi stessi.
        (39) A questo insegnamento si aggancia poi l’esortazione alla sobrietà del linguaggio, a cui il Vangelo ci porta spesso con messaggi sia espliciti che impliciti: “Il vostro parlare sia sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (v. 37). (40) La sobrietà del linguaggio è uno degli aspetti della saggezza evangelica. E’ saggio colui che non si illude più di poter cambiare le situazioni e le persone a forza di parole. La parola umana non serve a niente in un contesto in cui non c’è alcuna disponibilità al confronto come non serve con chi ritiene già di avere la verità tutta intera. (41) Insistere nel dialogo è pura stupidità. Il linguaggio del discepolo è dunque un linguaggio essenziale, ossia un linguaggio usato per comunicare le cose più fondamentali, senza però affaticarsi nella costruzione di argomentazioni per dimostrare di avere ragione a chissà chi. (42) Ogni complicazione o contorsione di linguaggio (e di pensiero) viene dal maligno. Arrivano a questa sapienza quei discepoli che capiscono il vero senso del silenzio di Cristo dinanzi a Erode e al sommo sacerdote. Avrebbe potuto fare un miracolo, come Erode gli chiedeva, e non lo ha fatto (cfr. Lc 23,8). Avrebbe potuto esporre a Erode un sunto della sua dottrina, visto che quello lo interrogava con molte domande (cfr. Lc 23,9), e non lo ha fatto. Avrebbe potuto anche al sommo sacerdote spiegare in poche battute il senso della propria missione, e non lo ha fatto, nonostante le insistenze di questi (cfr. Gv 18,19-22). Perché questo silenzio?

(43) Un altro precetto mosaico giudicato negativamente da Cristo è quello riportato in Es 21,24: “Occhio per occhio, dente per dente”. Questo precetto è escluso dall’etica della nuova alleanza, perché presuppone la liceità della vendetta. Vale a dire: in un contesto sociale dove la vendetta era considerata un diritto della parte lesa, la legislazione dell’Esodo stabilisce un misura al vendicatore. La misura della vendetta deve essere pari alla misura dell’offesa. (44) E’ proprio questo il senso della locuzione “Occhio per occhio, dente per dente”. Nella prospettiva cristiana Uno solo è Giudice e Vendicatore. Nessuno deve fare giustizia da sé, perché il Figlio ha compiuto già “ogni giustizia” (Mt 3,15) ed è stato costituito giudice universale dopo la sua risurrezione (cfr. Mt 25,31ss). (45) Aspettiamo dunque da Lui ogni altra giustizia. Questa nuova disposizione introduce il discepolo in uno dei tanti aspetti della sua stupenda libertà: la libertà di chi non ha aspettative dall’uomo e lascia che ognuno faccia liberamente le proprie scelte. Senza interferire e senza tormentarsi perché gli altri fanno scelte diverse da quelle che mi aspetterei. (46) Questo è il senso di non opporsi al malvagio, porgere l’altra guancia, dare anche il mantello a chi vuole toglierti la tunica. Sono manifestazioni di libertà, come quella del padrone della vigna verso l’operaio della prima ora: “Prendi il tuo e vattene!” (Mt 20,14). (47) I vv. 39-42 non vanno però interpretati come un invito a lasciare libero spazio ai malvagi, così che facciano quello che vogliono. Il cristiano non è un vendicatore né un paladino, e in questo senso accetta gli altri così come sono, ma questo non comporta alcuna complicità coi malvagi. (48) Nell’ambito della propria autorità e delle proprie competenze il cristiano non può prestarsi al gioco dei disonesti, e in quel caso deve opporsi. Per questo esiste una beatitudine dei perseguitati a causa della giustizia, che possono essere anche, tra gli altri possibili significati, coloro che si oppongono all’ingiustizia sociale e talvolta pagano di persona.
(49) “Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma Io vi dico: amate i vostri nemici” (5,43).
L’insegnamento che generazioni e generazioni di ebrei avevano avuto fino a quel momento, viene radicalmente trasformato: dalla liceità della vendetta, e quindi di un odio giusto verso il nemico, si passa, nel discepolato cristiano, a una disposizione di rinuncia a farsi giustizia da sé. (50) Chi non si fa giustizia da sé è colui che ha cessato di odiare i propri nemici, pur non potendo impedire loro di continuare a essergli ostili. (52) Il fondamento di questa trasformazione dell’approccio verso i nemici non è desunto da un insegnamento esplicito dell’AT, ma è desunto, al pari di tutti gli altri atteggiamenti specifici del discepolato cristiano, dal modello del comportamento di Dio. (53) Adesso, nel nuovo ordinamento dell’era messianica, la perfezione che Dio si attende dai credenti non si misura più sulle esigenze di un codice legale, ma si misura sulla stessa perfezione di Dio replicata nel comportamento umano: “Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (5,48). (54) E il comportamento di Dio è già evidente nei ritmi della natura: il sole e la pioggia non sono dati solo agli uomini che vivono nella sua paternità, ma a tutti, anche a coloro che lo bestemmiano (cfr. 5,45). (55) Anzi, in questo nuovo ordinamento, assumere un comportamento diverso da quello di Dio, e selezionare le persone amando alcuni e detestando altri, corrisponderebbe a un atteggiamento da pubblicani o da pagani (cfr. 5,46-47).
        (56) Ma cosa significa amare tutti allo stesso modo? Si può dire che questo stile evangelico, ispirato dall’amore, consista soprattutto nel non escludere nessuno dalla propria solidarietà. (57) Occorre però fare ancora alcune precisazioni. Il primo ed essenziale riferimento, a questo proposito, è rappresentato dalla parabola del “buon samaritano” (Lc 10,30ss). Gesù la racconta in risposta alla domanda posta da un dottore della Legge circa il significato esatto della parola “prossimo”, ossia, l’identità personale che si nasconde dietro questo concetto: “Chi è il mio prossimo?” (v. 29). (58) Dall’insieme della parabola si comprende che la risposta del Maestro è la seguente: prossimo non è colui che mi è vicino, ma colui a cui io mi faccio vicino. (59) Dunque, nessuno è il mio prossimo in virtù della sua posizione; ma ciascuno diventa “il mio prossimo” in quanto sono io che lo faccio diventare tale, nel momento in cui mi avvicino alla sua vita e mi rendo solidale con le sue sofferenze.
        (60) Ci dobbiamo chiedere ancora: questo atteggiamento incondizionato di solidarietà, deve essere applicato con tutti? Rispondere semplicemente di sì, sarebbe una soluzione molto superficiale a una domanda di questa portata etica. (61) La risposta che ci sembra più conforme al Vangelo è la seguente: questo atteggiamento di incondizionata solidarietà va applicato a tutti coloro che corrispondono alle caratteristiche del personaggio presentato dalla parabola, cioè l’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico. (62) Quest’uomo è uno che incappa nei ladri. Non è dunque uno di quelli che si cacciano nei guai perché amano il pericolo, o perché sono soliti fare di testa propria, senza ascoltare i consigli di nessuno. (63) E non è neppure uno che strumentalizza la sua sventura per averne dei vantaggi, generando compassione nel cuore degli uomini onesti, in modo da ottenere soldi o aiuti senza faticare e senza impegnarsi. (64) Spesso, la solidarietà è in questi casi una forma più o meno grave di complicità con la gente che fa della carità della Chiesa la propria fonte di guadagno facile e abbondante. E’ quindi chiaro che, già nella formulazione della parabola del buon samaritano, prevedendo le molteplici forme di falsificazione dei bisogni, Gesù indica chiaramente quale tipo di sventura deve essere oggetto della solidarietà dei discepoli.

Capitolo 3

Art.1   Il nascondimento della virtù

(1)Il tema del nascondimento della virtù intende presentare una disposizione d’animo del discepolo, che consiste nel rifuggire da qualunque eccentricità, da qualunque posa teatrale, e da qualunque tendenza a mettere in mostra se stessi, specialmente nel campo della propria crescita spirituale. (2)L’insegnamento di Cristo prende in esame tre particolari ambiti in cui il discepolo ci tiene a non pubblicizzare il suo operato: la carità verso il prossimo, la profondità della propria preghiera e il livello di austerità della propria vita.
(3)Questo tema viene interrotto dall’insegnamento sulla preghiera cristiana, con la formula del Padre Nostro, e poi viene ripreso successivamente. Noi tratteremo prima il nascondimento della virtù e poi ci soffermeremo sui fondamenti della preghiera cristiana.
(4)Il brano in questione comprende i vv. 1-17 del cap. 6, escludendo dalla sezione i vv. 5-15, che analizzeremo separatamente, sotto la voce successiva “La preghiera cristiana”.
        (5)I vv. 1-6 sono dedicati alle opere di carità fraterna, rappresentate dalla pratica dell’elemosina, in uso presso il giudaismo farisaico. La parabola già citata del buon samaritano conteneva una netta distinzione e una presa di distanza dell’amore fraterno che si vive nel discepolato cristiano, da quello che si sperimentava nell’ambito del giudaismo. (6)L’insegnamento dei farisei non conosceva alcun atto d’amore fuori dalla cerchia genealogica dei discendenti di Giacobbe. In sostanza, l’amore fraterno, sì, ma dentro i confini dello stesso popolo di Israele, benché alcuni brani dell’AT vanno in una linea universalista, p. es. Sir 7,32ss. (7)Ad ogni modo, il malcapitato della parabola è comunque uno sconosciuto di cui non si dice che sia di nazionalità israelitica. Nel NT perfino gli Apostoli mostrano una certa difficoltà ad aprirsi alla prospettiva di un amore universale che viene a sostituire la vecchia legge mosaica. (8)Questa era già una prima distinzione. Una seconda distinzione è data in questo enunciato dei vv. 1-6: il gesto d’amore fraterno (specialmente quello compiuto verso i veri bisognosi) non è l’applicazione di un precetto, ma è un movimento che parte dal cuore ed è compiuto alla presenza del Padre, e non alla presenza degli uomini. (9)L’espressione della più autentica carità cristiana fugge, insomma, lo sguardo dell’uomo, evitando gli spettatori non necessari, e talvolta fugge perfino lo sguardo della stessa persona beneficata, che in questo mondo magari non giunge a conoscere il suo benefattore.
(10)Dalle parole di Cristo, riportate in questi versetti, sembra che presso i farisei la pratica dell’elemosina tendesse a collocarsi nel quadro generale della rispettabilità della persona, e che quindi assumesse necessariamente un carattere esteriore e pubblico. (11)Questo atteggiamento rappresenta una chiara degenerazione dell’esperienza religiosa di Israele, dal momento che neppure l’AT, pur col suo carattere spesso legalista, è mai così utilitarista nei suoi ordinamenti. (12)I farisei del Vangelo sono più volte rappresentati in questa tendenza a “strumentalizzare” le varie pratiche della religione, per dare agli altri un’immagine lodevole di se stessi (cfr. Mt 23,5-8). (13)E’ proprio questo che il discepolo non deve fare mai. Il discepolo cammina solo alla presenza del Padre, e la sua divina approvazione gli basta.

(14)Tralasciamo momentaneamente l’insegnamento sulla preghiera (vv. 5-15), per poterlo trattare in maniera ampia più avanti, e andiamo direttamente alla questione del digiuno.
(15)I vv. 16-18 sono dedicati esplicitamente alla pratica ascetica del digiuno, pratica già in uso nel giudaismo contemporaneo a Gesù. Obiettivo specifico dell’insegnamento è quello di determinare la differenza specifica tra il digiuno dei farisei e quello dei discepoli di Cristo. (16)Implicitamente, dietro la figura del digiuno bisogna vedere ogni altra pratica di astinenza corporale o morale (ossia, la rinuncia volontaria e temporanea a un bene o a un divertimento non necessario), per la quale resta valido tutto ciò che si dice a proposito del digiuno.
(17)La chiave di interpretazione dell’ascesi cristiana, che differisce sostanzialmente da quella dei discepoli dei farisei, è la medesima che è stata enunciata a proposito della carità fraterna: (18)questo aspetto del discepolato si svolge nel segreto, è un movimento che parte dal cuore ed è compiuto alla presenza del Padre, e non alla presenza degli uomini. (19)Anzi, nel caso specifico del digiuno – o, in generale, della rinuncia volontaria a ciò che piace – bisogna fare in modo che gli uomini non sappiano nulla, o che addirittura siano portati a pensare il contrario: “Non assumete aria malinconica… profumati la testa e lavati il volto” (6,16.17). E’ sufficiente che lo sappia solo “il Padre tuo, che vede nel segreto” (6,18).
(20)Dopo avere compreso il modo in cui va vissuta l’ascesi cristiana, e in particolare la pratica del digiuno, occorre dire anche il perché il digiuno deve avere un posto nella vita del discepolo. A questo proposito bisogna riprendere l’insegnamento biblico sul digiuno, che culmina poi nelle parole di Cristo.
(21)Nell’AT e nel NT, la pratica del digiuno talvolta figura da sola, talaltra è associata alla preghiera. In entrambi i casi, il digiuno ha un valore penitenziale, ossia di richiesta di perdono per i propri peccati personali e per quelli del popolo, oppure di richiesta di aiuto nella prova.. (22)La pratica del digiuno appare sia nella sua forma comunitaria, cioè un digiuno compiuto tutti insieme a un giorno stabilito, sia in quella privata e individuale. (23)Del primo caso abbiamo un esempio in 1 Sam 7: “Si radunarono a Mizpa… digiunarono in quel giorno, dicendo: Abbiamo peccato contro il Signore!” (v. 6). (24)Oppure in 2 Cr 20,3, in cui il re Giosafat bandisce un digiuno per tutto il suo regno. Per il digiuno individuale possiamo ricordare il digiuno di Daniele, come atto penitenziale in riparazione dei peccati di Israele (cfr. 9,3-19) e il digiuno di Ester (a cui si associano anche altri), durante la persecuzione antigiudaica di Assuero (cfr. 4,16). (25)Ma, accanto a questi due significati originari, cioè la richiesta di perdono e la richiesta di aiuto nel tempo della prova, nella tradizione biblica ve ne sono altri che, in certo qual modo, preparano il significato neotestamentario del digiuno. (26)In primo luogo ci riferiamo a Dt 8,2-3: “Il Signore tuo Dio… ti ha fatto provare la fame… per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore”.
(27)Il brano del Deuteronomio 8,2-3 impone una nuova visione del digiuno: il distacco e la libertà da ciò che sostenta materialmente la nostra vita è una affermazione del primato della Parola di Dio. (28)Col digiuno il discepolo afferma che tutte le risorse terrestri potrebbero venire a mancare, e che questa privazione non provocherebbe alcun danno alla vita dell’uomo, se la Parola di Dio rimanesse al vertice di ogni coscienza. (29)Naturalmente, i due valori già menzionati, quello penitenziale e quello di richiesta di aiuto nella prova, rimangono inclusi nel digiuno del discepolo, che però deve radicarsi sul primato della Parola. (30)Inoltre, il digiuno del discepolo si inquadra in una vita purificata, ossia libera da idoli o signorotti di vario genere. Isaia rimprovera coloro che nel giorno del loro digiuno curano i propri affari (cfr. 58,3); (31)questo significa che il digiuno non è pienamente autentico, quando nell’animo umano ci sono ancora dei padroni che reclamano di essere serviti. (32)Prima si sgombra la coscienza dai macigni che l’appesantiscono e dai signorotti che la tiranneggiano, e dopo si digiuna.
        (33)L’insegnamento sul digiuno viene completato nel NT dalle parole di Cristo. La prima cosa che fa impressione è che i Dodici non digiunano. (34)La cosa ha fatto impressione anche ai discepoli del Battista, i quali chiedono a Gesù: “Perché, mentre noi e i farisei, digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?” (Mt 9,14). (35)La risposta del Maestro orienta il pensiero dei suoi interlocutori verso la novità del tempo messianico: alla presenza dello Sposo non si digiuna; si digiunerà quando lo Sposo sarà tolto (cfr. Mt 9,15); (36)in altri termini è come dire: d’ora in poi, ogni atto religioso, per essere valido davanti a Dio, deve essere compiuto in relazione a Cristo. (37)Il digiuno, che l’AT ha sempre raccomandato come prassi penitenziale, per i discepoli acquista il senso del coinvolgimento personale nella Passione di Cristo, cioè diventa memoria viva del giorno in cui lo Sposo è stato rapito all’amore dei suoi amici. (38)Per questo i discepoli, fin dalla prima generazione, sogliono digiunare il Venerdì. Anzi, nella Chiesa primitiva, si digiunava anche il Mercoledì. (39)L’affermazione del primato della Parola, cui abbiamo già fatto cenno, diventa affermazione della Signoria della Parola Incarnata, una signoria esercitata dalla Croce (cfr. Gv 12,32) e da un Trono edificato sulla mansuetudine (cfr. Is 16,5). (40)Nell’insegnamento di Cristo, il digiuno acquista anche un particolare valore esorcistico; scendendo dal monte della trasfigurazione, i sinottici raccontano un episodio piuttosto imbarazzante per i discepoli che erano rimasti a valle: un uomo presenta loro il proprio figlio malato, con la convinzione che si tratti di epilessia; i discepoli, però, non riescono a guarirlo. (41)Non appena Gesù ritorna dal monte, lo presentano a Lui, perché lo guarisca. Allora Gesù compie un esorcismo e non parla di epilessia. (42)Ad ogni modo, il ragazzo guarisce immediatamente (cfr. Mt 17,14-21). I discepoli lo prendono poi in disparte per conoscere il motivo della loro incapacità. (43)Cristo risponde che essi non sono riusciti a guarire il ragazzo per due motivi: primo, non hanno abbastanza fede; secondo, il ragazzo non era epilettico ma posseduto da un tipo di entità demoniache che si possono scacciare solo con la preghiera e il digiuno. (44)Si schiude qui un nuovo valore del digiuno cristiano: esso fortifica lo spirito del discepolo e lo rende saldo nella lotta contro lo spirito delle tenebre.





Capitolo 4

Art.1   La preghiera cristiana

(1)Possiamo adesso affrontare il tema molto impegnativo della preghiera nel contesto del discepolato cristiano. Il Maestro dedica molto spazio a questo insegnamento, e sarà opportuno ripercorrerlo nelle sue linee principali.
        (2)Il contesto prossimo ci conduce direttamente alla preghiera del cuore: è infatti tolta di mezzo ogni forma di preghiera che si esaurisca nel pronunciamento meccanico di determinate formule: “Quando preghi, entra nella tua camera…” (6,5). (3)La propria “camera” è indubbiamente un’immagine finalizzata a un insegnamento, visto che la preghiera comunitaria e liturgica è sempre stata, fin dalla prima generazione cristiana, un elemento portante della vita della Chiesa. (4)In sostanza, non si tratta di un invito di carattere privato e intimistico, quanto piuttosto di una qualità dell’incontro con Dio. (5)La “camera” indica il dialogo del cristiano con il Padre, incontrato nella profondità della propria coscienza. La stessa preghiera comunitaria e liturgica si svuota completamente, e diventa pura esteriorità, quando i membri dell’assemblea, ciascuno per la propria parte, non hanno incontrato il Padre nelle profondità del proprio animo. Ancora peggio è quando la preghiera è fatta visibilmente, per dare un “tocco di classe” alla propria rispettabilità sociale (cfr. 6,5). (6)Al giorno d’oggi, perfino i maghi ricorrono a questo stratagemma, circondandosi di crocifissi e di immagini sacre, per far credere alla gente che i loro “poteri” vengono da Dio. Perciò il discepolo non deve mai lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze, perché Satana si traveste solitamente da angelo di luce (cfr. 2 Cor 11,14).
(7)L’insegnamento centrale sulla preghiera è però rappresentato dal Padre Nostro, che non si presenta come una “formula” di preghiera, bensì come un archetipo su cui modellare la preghiera cristiana. (8)Il medesimo insegnamento è riportato nel Vangelo di Luca, dove la parabola dell’amico importuno è introdotta dalla preghiera del Padre Nostro, che Luca riporta in una maniera più breve di quella di Matteo (cfr Lc 11,1-4). (9)La diversità delle due redazioni di questa preghiera, dimostra che non si tratta di una “formula” ma, come abbiamo detto, di un modello di preghiera. Se si fosse trattato di una formula, sarebbe stata registrata parola per parola, tanto più che questa è l’unica preghiera insegnata direttamente dal Signore.
        (10)Da questo modello risulta:
1.   La nostra preghiera è rivolta più alla Paternità di Dio che alla sua onnipotenza: “Quando pregate, dite: Padre...” (6,9).
2.   Non è giusto pregare per le proprie necessità umane, senza cercare prima la gloria di Dio: cfr vv. 9-10
3.   Non è autentica la preghiera di chi non è uomo di pace (cfr. v. 12)

Dobbiamo riprendere questi singoli punti in modo più analitico.

(11)Padre Nostro

Con la prima espressione, Cristo ha voluto eliminare dall’immaginario umano ogni elemento di distanza o di timore servile. Inoltre, fin dall’inizio viene ricordato all’orante che la preghiera è “dialogo”, relazione io-Tu; essa è rivolta a Qualcuno, e questo Qualcuno è innanzitutto PADRE. (12)Si esclude perciò fin, dalla prima parola, ogni atto liturgico che ruoti intorno a se stesso, e non sia una viva relazione col Dio Vivente. Ma si esclude anche il semplice riflettere o monologare tra sé e sé, sia pure su cose buone. (13)Il riflettere su qualcosa non è ancora “pregare”: la preghiera nasce solo quando si riesce a stabilire il contatto vitale tra il “tu” umano e il “Tu” di Dio. (14)Si comprende subito se, nella nostra preghiera personale, si verifica un autentico incontro con il Padre, oppure no. Quando infatti questo incontro si è verificato, ci si sente diversi: vale a dire, si lascia la preghiera e si torna alla vita attiva, con la sensazione di essere invasi da una forza nuova.
        (15)Nell’immaginario cristiano il Padre è pensato di solito al maschile, ma si comprende bene, alla luce dell’intera rivelazione biblica, che nell’Amore di Lui ci sono anche delle tonalità femminili e materne. (16)Basti pensare a Is 49,15-16: “Si dimentica forse una donna del suo bambino?… Io non ti dimenticherò mai”. Dio stesso qui assimila il proprio amore a quello di una donna, e non a quello di un uomo. (17)I sentimenti di Dio verso di noi – se così si può dire – risultano dalla somma dei valori maschili e femminili, costituendo così un amore che è contemporaneamente paterno e materno.
        (18)La parola di apertura della preghiera di Cristo, “Padre”, allude anche alla verità esistenziale dell’orante: in realtà solo chi vive “da figlio” può sperimentare davvero cosa sia la preghiera cristiana. (19)Non è in sostanza conciliabile l’atto di rivolgersi a Dio, mettendosi in comunicazione con Lui, con certe disposizioni d’animo come l’indifferenza verso la sua Parola, la sfiducia, la negazione dell’amore o la presentazione di opere di giustizia per essere accettati da Lui. (20)La prima parola dell’orazione esclude l’atteggiamento di tutti coloro che si rivolgono alla sua Onnipotenza, ma non alla sua Paternità, ossia: quelli che Lo accettano in qualità di Creatore, ma non in qualità di Padre. (21)Ci sono in realtà diversi stadi di ingresso nella divina figliolanza e tutti si radicano nella fede: si deve credere che Dio non è soltanto Creatore ma anche un Padre che ama; e non soltanto un Padre che ama tutti, ma un Padre che, pur senza trascurare gli altri, ama personalmente proprio me. (22)Si prende cura delle circostanze quotidiane della mia vita (cfr. Mt 6,26). Si comporta con me come un educatore (cfr. Eb 12,5-9). Ogni giorno rinnova il suo “sì” alla mia vita, e io mi alzo dal letto e sono vivo (cfr. Sal 104,29).
        (23)Se le cose stanno così, allora bisogna saper individuare la sua Mano paterna nella vita quotidiana, oltre che nell’intero arco della propria storia. (24)Un cristiano non può ritenere che alcune cose accadano perché Dio le vuole, e altre invece perché gli sfuggono dal controllo. Più correttamente bisogna pensare che tutto ciò che accade, accade in Lui. (25)Come nell’universo Egli ha disposto l’ordine e la legge fisico-chimica di tutte le cose, fino alle più piccole (cfr. Sap 11,20), così anche nella vita dell’uomo che cammina alla sua presenza, e che vale più dei passeri e dei gigli (cfr. Mt 6,25-34; 10,29), a maggior ragione, tutti gli eventi sono disposti secondo un ordine logico, noto con precisione solo a Dio. (26)Rispetto agli uomini, poi, Egli non si comporta solo da creatore o da Dio, ma anche da Padre, che gioisce nel dare le cose migliori ai suoi figli (cfr. 7,7-11).

(27)La parola iniziale, “Padre”, oltre a indicare la realtà della divina figliolanza, nella quale l’orante è stato assunto da Cristo, indica pure un’altra conseguenza esistenziale: nel pronunciare questa parola, l’orante si professa fratello di tutti coloro che invocano Dio nella stessa maniera, avendo lo stesso Cristo come fratello Primogenito (cfr. Col 1,18). (28)Dopo la sua risurrezione, Gesù ci chiama “fratelli”, ed è ovvio che l’essere fratelli “suoi” coincide con l’essere fratelli “tra noi”. Possiamo ricordare qualche brano tra i più significativi. Mt 28,10: “Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea, là mi vedranno”; Gv 20,17: “Va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro…”.
(29)Dio, in Cristo, ha voluto discendere per gradi fino al punto più basso: la discesa nell’umanità, imponendosi i limiti dello spazio e del tempo; la discesa nella povertà, rinunciando ai sostegni del potere umano; la discesa nella sofferenza morale, accettando l’incomprensione dei suoi stessi discepoli, il tradimento di Giuda e la persecuzione del sinedrio; la discesa nella sofferenza fisica, accettando la morte prematura, e quella morte; la discesa nel mistero dell’abbandono del Padre, che giunge al vertice nell’agonia sulla croce; la discesa agli inferi, dove gli spiriti dei giusti lo attendevano per essere liberati.
(30)La sua risalita nella risurrezione attraversa poi tutti questi strati e li contagia definitivamente con l’energia divina della risurrezione. (31)Da quel momento in poi, ogni uomo che sperimenta la discesa nella sofferenza morale o fisica, la discesa nella solitudine, nell’incomprensione, nella malattia, e nella morte, si incontra necessariamente con Colui che vi è già disceso. (32)Da quel momento in poi, nella totale condivisione della sorte umana, Cristo si è fatto fratello di ciascuno, perché ciascuno sia a sua volta fratello di tutti. Questo significa che solo chi entra nello spessore della croce, può dire con verità “Padre Nostro”. (33)Infatti, solo se si entra nel mistero di Cristo, si acquista lo statuto di “fratelli” e di “figli”; e si acquista come dono gratuito del Risorto nell’effusione dello Spirito Santo. (34)Questa è pure la ragione per cui, tra le richieste previste dall’orazione del Signore, non c’è la richiesta dello Spirito Santo. (35)Ed è ovvio: chi prega autenticamente con le stesse parole di Cristo, lo fa mosso dallo Spirito; l’orante ha già ricevuto lo Spirito Santo, perché è già entrato nello statuto di “figlio” (cfr. Rm 8, 14).


Art.2   che sei nei cieli

(1)Ci colpisce questa specificazione “che sei nei cieli”, dal momento che noi sappiamo bene che il Padre è presente ovunque. La Scrittura è molto chiara in proposito; possiamo ricordare Geremia: “Non riempio Io il cielo e la terra?” (23,24). (2)Anche la preghiera di Salomone, in occasione della dedicazione del Tempio, si muove sulla stessa linea: “I cieli dei cieli non possono contenerti” (1 Re 8,27). (3)Eppure ci viene detto da Cristo che il Padre, pur presente ovunque, va però invocato “nei cieli”. (4)Ci deve essere un motivo.  Inoltre, non ci viene neppure detto di invocarlo specificamente nel luogo sacro, o nel luogo destinato al culto, ma “nei cieli”. (5)La Terra non è allora il vero teatro in cui si svolge l’azione della preghiera umana. Chi prega, in certo qual modo, è trasportato “nei cieli”, sede del Padre. (6)La preghiera quindi non fa scendere Dio sulla Terra (Dio non è circoscritto e non può avere alcun movimento locale), ma al contrario, trasporta l’uomo presso Dio, e lo solleva in un certo qual modo nelle sue altezze. (7)Invocare il Padre “nei cieli” equivale inoltre a ricordarsi che qui non abbiamo una dimora stabile, e che la nostra ultima destinazione è la gloria incorruttibile del Paradiso (cfr. Col 3,1-2). Invocare il Padre “nei cieli” ci dispone quindi a cercare le cose di lassù e non quelle della Terra.


        Art.3   Il primo ordine dei valori: sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà
(1)Abbiamo già detto che l’orazione del Signore, più che una formula di preghiera è un modello. Questo significa che occorre prestare attenzione all’ordine e alla posizione che Gesù attribuisce alle necessità umane nella formulazione delle richieste, in modo che non succeda di chiedere per prima cosa ciò che è meno importante, e per ultima cosa ciò che invece deve trovarsi al vertice dei valori. (2)Una preghiera personale o comunitaria che non tenga conto dell’ordine dei valori indicato da Cristo, rischia di girare continuamente intorno a ciò che per me (o per noi qui) è più necessario e urgente, perdendo di vista il fatto che al di sopra delle mie (nostre) necessità ci sono gli interessi del Regno di Dio. (3)Questi vanno cercati per primi, anche nella preghiera (cfr. Mt  6,33).

Art.4   Sia santificato il tuo nome
(1)Nel comporre questa preghiera, il Signore ha seguito un ordine abbastanza rigoroso: nella preghiera cristiana, Dio deve occupare il primo posto. (2)Successivamente verranno anche le altre cose, ma una preghiera che non si compagina sul primato di Dio, non è evangelica. (3)In base a questo presupposto, Cristo ha messo al vertice di tutto la santificazione del Nome. (4)Occorre chiarire il senso di questa cosa. Il Nome di Dio non ha bisogno certo di essere “santificato” da noi, dal momento che Egli è santo nella sua stessa Natura eterna e immutabile. (5)Inoltre, il verbo greco è al passivo, come quello che troveremo tra poco nella richiesta relativa al compimento perfetto della sua volontà. (6)L’orante non promette a Dio che santificherà il suo Nome, né che farà la sua volontà. Ma chiede semplicemente che queste due cose si verifichino nel mondo. Ma andiamo con ordine.
        (7)La santificazione del Nome ci riconduce ad alcune allusioni bibliche. Prima di tutto occorre ricordare che per la mentalità semitica il “nome” è rappresentativo della personalità. (8)Nell’annunciazione, viene detto dall’angelo anche quale sarebbe stato il nome da imporre al Figlio: Gesù (Lc 1,31), che etimologicamente significa “Dio salva”. (9)Il nome stesso, insomma, indica già la missione del Cristo storico: rendere operante la potenza salvifica di Dio. Il nome esprime il nucleo della personalità di colui che lo porta. (10)Mancare di rispetto al nome è lo stesso che mancare di rispetto alla persona. Nel caso di Dio, il Nome è addirittura impronunciabile per gli ebrei. (11)Il Decalogo proibisce di nominare invano il Nome di Dio, e gli ebrei si sono messi al sicuro da questa possibile trasgressione evitando di pronunciarlo del tutto. (12)La santificazione del Nome di Dio, richiesta dal Padre Nostro, va prima di tutto intesa come la riedizione in forma positiva del suddetto comandamento (cfr. Dt 5,11). (13)Laddove il comandamento diceva “Non pronunciare invano il Nome”, la preghiera cristiana dice “Sia santificato il Nome”. (14)La prospettiva è però teologicamente perfezionata, perché il comandamento del Decalogo faceva appello solo alla buona volontà dell’uomo, mentre il Padre Nostro fa leva sulla Grazia di Dio, senza l’illusione che l’uomo possa compiere da solo un’opera valida agli occhi di Dio. (15)Il Decalogo è espresso con l’imperativo “Non pronunciare”, il Padre Nostro si esprime al passivo “Sia santificato”: vale a dire, è Dio che santifica il proprio Nome, l’uomo può solo desiderarlo senza resistere alla Grazia.
        (16)Si potrebbero ancora vedere quali altre sfaccettature la Bibbia conosce a proposito di questa santificazione del Nome.
        (17)Il Nome di Dio è una forza che protegge il credente e lo custodisce dai pericoli occulti. Possiamo ricordare il Salmo 89: “Il nostro aiuto è nel Nome del Signore” (v. 8). Oppure il libro dei Proverbi: “Torre fortissima è il Nome del Signore” (18,10). Anche Cristo si esprime in questi stessi termini: “Padre Santo, custodiscili nel tuo Nome” (Gv 17,11). E Gioele: “Chiunque invocherà il Nome del Signore, sarà salvato” (3,5). Rifugiarsi nel Nome del Signore e invocarlo è quindi certezza assoluta di salvezza e di liberazione.
(18)Santificare il Nome di Dio significa innanzitutto riconoscerlo come Signore. Questo fatto risulta chiaramente sia dal Salmo 68: “Signore è il suo Nome” (v. 5), sia da un oracolo del profeta Isaia: “Io sono il Signore, questo è il mio Nome” (42,8). Possiamo aggiungere anche Geremia: “Sapranno che il mio Nome è Signore” (16,21). (19)E si potrebbe continuare sulla scia dei profeti, che riaffermano più volte il medesimo concetto. All’inizio della preghiera cristiana allora va riconosciuta la Signoria di Dio, e si ricorda, al tempo stesso, che tale riconoscimento è dono di grazia, e perciò è oggetto di preghiera: “Sia santificato” e non “Santificheremo”. E’ una richiesta e non una promessa umana.
(20)La santificazione del Nome di Dio, nella Bibbia, ha una estensione non soltanto limitata al popolo di Dio, come sembra suggerire il salmista: “Annunzierò il tuo Nome ai miei fratelli” (Sal 22,23), ma possiede anche una portata universale: “Tutti i popoli conoscano il tuo Nome” (1 Re 8,43). (21)Anche se la conoscenza del Nome di Dio tra le nazioni è condizionata dal riconoscimento autentico di questo Nome in seno a Israele (Chiesa), sia in senso negativo: “Il Nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra i pagani” (Rm 2,24), sia in senso positivo: “Risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre” (Mt 5,16). (22)La responsabilità del popolo cristiano verso il mondo è quindi tutta racchiusa in questa breve invocazione: “Sia santificato il tuo Nome”, che implica anche l’impegno di non presentare al mondo un’immagine falsificata di Dio e, di conseguenza, un’immagine falsificata della Chiesa. (23) Nel Padre Nostro si chiede in sostanza che ciò non avvenga, perché se taluni abbandonano la comunità cristiana perché volgono intenzionalmente le spalle a Dio, tanti altri l’abbandonano perché hanno conosciuto, nelle loro comunità di origine, solo una rappresentazione alterata o falsa di Dio e della Chiesa; e questa responsabilità è unicamente nostra.

        Art.5   Venga il tuo Regno
(1)Seconda petizione: il Regno di Dio, ossia il punto di arrivo di tutto il Vangelo. Il Vangelo stesso si definisce come Vangelo “del Regno” (Mt 4, 23 e 9,35). L’annuncio del Vangelo ha una funzione preparatoria: l’umanità deve prepararsi alla venuta del Regno di Dio, che avrà luogo nella venuta del Figlio (cfr. Lc 21,27). (2) “Regno di Dio”, significa cessazione di tutti i poteri estranei che limitano e mortificano la dignità della persona umana, in tutte le sue componenti fisiche e spirituali. (3)La fine sopraggiungerà, quando il Figlio “consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza” (1 Cor 15,24). (4)Solo quando regna Dio, il creato è ricondotto ai suoi migliori equilibri. Il Vangelo è ordinato al Regno di Dio. Come l’annuncio del Battista ha preparato la venuta del Cristo nella carne umana, così l’annuncio del Vangelo, per opera degli apostoli di ogni secolo, prepara la Terra alla definitiva venuta del Regno. (5)Il Regno di Dio non risulterà, però, da un progressivo miglioramento della qualità della vita umana sulla Terra, e non sarà il punto finale di una qualche evoluzione storica; il Regno di Dio verrà, perché Dio lo farà venire in un tempo sconosciuto a tutti, tranne che al Padre (cfr. Mt 24,36). (6)L’annuncio del Vangelo e la Chiesa stessa non instaurano il Regno di Dio, ma soltanto preparano le coscienze ad accoglierlo.
        (7)Nell’insegnamento di Cristo, il Regno di Dio è senza dubbio una realtà che deve ancora venire, perché non è di quaggiù (cfr. Gv 18,36), ma bisogna anche dire che esso non è totalmente assente dalla fase presente. Esso deve venire, ma in qualche modo già è (Lc 17,21). (8)Con la Presenza personale di Cristo nel mondo, il Regno è infatti già arrivato. In questo senso, più che di “venuta finale” del Regno, occorre parlare di “compimento”. (9)Il Regno di Dio è già presente sulla Terra, ma in maniera embrionale, nel mistero e invisibilmente, anche se i discepoli sono in grado di fissare lo sguardo sulla sua realtà (cfr. Mc 4,11). (10)I discepoli, in virtù della fede nella Parola di Dio, partecipano già da questa Terra alle energie del mondo futuro. Sotto questa chiave comprendiamo delle similitudini come quella del lievito che progressivamente fa fermentare tutta la pasta (cfr. Mt 13,33), oppure come quella del granello di senapa (cfr. Mt 13,31), dove il Regno di Dio è rappresentato in un processo di crescita fino alla piena maturità (cfr. Ef 4,13). (11)La porta di ingresso di questo Regno è rappresentata dalla rinascita del singolo uomo per acqua e Spirito (cfr. Gv 3,5). (12)Il sacramento del Battesimo è dunque necessario in quanto via ordinaria della salvezza. La caratteristica principale del processo di graduale crescita del Regno di Dio, consiste nel fatto di non avere la sua radice in basso ma in alto, e di non procedere sulla spinta dell’evoluzione umana, ma su quella di un moto impresso da Dio: “Né chi pianta né chi irrìga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere” (1 Cor 3,7). (13)Per questo siamo invitati a chiedere a Dio di portare a compimento quell’opera che Lui stesso ha iniziato. Essa si compirà definitivamente con la resurrezione della carne e l’ingresso dell’umanità rinnovata in una nuova creazione (cfr. Ap 21,1)


        Art.6   Sia fatta la tua volontà
(1)Le armonie del mondo naturale e di quello soprannaturale sono garantite da un unico centro di gravitazione. La lettera ai Colossesi descrive il Cristo risorto nella sua dimensione cosmica; vale a dire: nella Risurrezione tutto il creato ha ritrovato in senso pieno il suo centro di unità, centro che già aveva precedentemente nella Parola, nei tempi anteriori all’Incarnazione (cfr. Eb 1,3). L’Apostolo è molto chiaro: “Egli è prima di tutte le cose, e tutte sussistono in Lui” (1,17). (2)Ne consegue che se anche un solo elemento si sottraesse alla sua signorìa, cadrebbe nel disordine e comprometterebbe gli equilibri generali. (3)Nella natura, dove manca la libertà del volere, tutti gli esseri animati e inanimati ubbidiscono a leggi creative pressoché immutabili. Le organizzazioni sociali delle formiche o delle api sono quelle e non possono cambiare. La tonalità del canto di ogni specie di uccelli è modulato su certe note e non altre, così la tecnica di costruzione dei nidi è quella e tale resterà. Anche gli astri mantengono quell’orbita che hanno, e sarebbe una girandola di scontri se ne uscissero, ma ancora più drammatica sarebbe l’alterazione dell’orbita terrestre, perché comporterebbe la scomparsa di ogni vita su questo pianeta.
        (4)Nel significato più ampio della petizione, chiedere a Dio che la sua volontà sia fatta, equivale a chiedere che gli equilibri generali della natura e dello spirito non siano turbati, perché dalla custodia di tutti gli equilibri dipende la vita, in ogni senso. (5)Alla luce di questo si spiega anche il verbo al passivo: è Dio che custodisce tutti gli equilibri del creato, mentre l’uomo può solo rispettarli e non può in alcun modo far sì che essi mantengano la loro sincronia.
        (6)Nel significato più ristretto, la petizione va riferita al mondo umano, che è il regno della libertà, ma è anche la sfera di azione dello spirito del male, con la sua potente capacità di suggestionare la mente e la sensibilità degli esseri umani. (7)La volontà buona dell’uomo non è sufficiente a rispettare, con atto libero, gli ordinamenti divini, e ha bisogno di chiedere a Dio una forza e un sostegno per rendere efficace l’atto del volere.
(8)Va ulteriormente approfondito il senso del compimento della volontà di Dio nell’esperienza degli uomini. Il punto di partenza è la cognizione esatta della realtà umana che è uscita dal peccato di origine. (9)L’uomo “storico” sperimenta una sorta di indebolimento delle sue facoltà relativamente al piano delle realtà spirituali; in questo ambito, la sua capacità mettersi in relazione con Dio appare particolarmente incrinata. Tale incrinatura è evidente a tutti i livelli sia conoscitivi che volitivi. Vale a dire: dal peccato originale siamo usciti con un offuscamento intellettivo, che non ci permette di vedere Dio con chiarezza nelle cose create e nella sua Parola, e con un offuscamento della volontà, che non riesce a volere il bene con tutta se stessa, ma non di rado si trova divisa tra stimoli contrastanti e non tutti positivi. (10)Il battesimo ci ha rinnestati nella Vita divina, ma non ha ripristinato la totalità dei nostri equilibri (cosa che avverrà con la risurrezione personale alla fine dei tempi). (11)La richiesta “sia fatta la tua volontà” si basa sull’idea che da soli non ce la facciamo ad aderire senza stonature e disfunzioni a tutte le aspettative di Dio; perciò il discepolo chiede a Dio di realizzare Lui stesso la sua volontà nella vita dell’orante. (12)Da qui il passivo “sia fatta la tua volontà” e non “farò la tua volontà”. C’è una seconda idea che soggiace a questa petizione: se è Dio stesso a realizzare la sua volontà nella vita dell’orante, ciò significa che l’orante talvolta compie la volontà di Dio senza saperlo. (13)La volontà di Dio, quindi, non va intesa come una serie di indicazioni esplicite, che, una volta conosciute, il discepolo le applica, come si applicano le regole della grammatica o della matematica. (14)In realtà, il discepolo compie la volontà di Dio non perché applica un codice a lui noto, ma perché Dio stesso, con la forza del suo Spirito, lo coinvolge in un dinamismo di vita che lo spinge verso la perfezione come il vento spinge una barca a vela. (15)Molte cose il discepolo le fa con la consapevolezza che Dio le vuole, altre, invece, (e sono le più perfette) le fa alla maniera di Abramo, che “partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).


        Art.7   Il secondo ordine dei valori: il pane quotidiano, la riconciliazione, la liberazione dal Male

        Dacci il nostro pane quotidiano
(1)Con la richiesta del pane quotidiano ha inizio il secondo ordine dei valori, dedicato alle necessità umane. Il primo, infatti, a somiglianza del Decalogo, riguardava i diritti di Dio.
        (2)Il concetto del “pane quotidiano” deve essere pensato su diversi livelli. Il livello più basilare è certamente quello fisico, dove si afferma l’essenziale fragilità della nostra natura, continuamente bisognosa di un nutrimento per potersi conservare in vita. (3)Il fatto che il cristiano sia invitato a chiedere a Dio il suo nutrimento, implica che la fatica quotidiana con cui ci guadagniamo da vivere, non è una causa “assoluta” della nostra sussistenza. (4)In altre parole, il pane che mangiamo ogni giorno non ci è dovuto perché ce lo siamo guadagnato, né possiamo pensare di averne diritto senza perciò dover ringraziare nessuno; la prospettiva cristiana è ben diversa: il pane quotidiano, ossia il sostentamento necessario alla nostra vita, è in ogni caso sempre un dono di Dio. (5)Quindi bisogna chiederlo a Lui, senza ritenere che il nostro lavoro ci renda autonomi e capaci di sostentarci “da soli”. Questo insegnamento è già esplicitamente presente nel libro di Qoelet: “Ogni uomo, a cui Dio concede ricchezze e beni, ha anche facoltà di goderli e prendersene la sua parte e di godere delle sue fatiche: anche questo è dono di Dio” (5,18).
        (6)Il senso di questa petizione, però, non è circoscritto alle necessità materiali della sopravvivenza. Non possiamo infatti dimenticare che, nella Bibbia, il simbolo pane possiede un valore inclusivo di tutto ciò di cui l’uomo si nutre fino agli strati più profondi della sua personalità. (7)A questo proposito possiamo ricordare Pr 9,4-6: “A chi è privo di senno la Sapienza dice: Venite, mangiate il mio pane… abbandonate la stoltezza e vivrete”. Oppure Amos: “Ecco, verranno giorni – dice il Signore – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, ma di ascoltare la parola del Signore” (8,11). E, soprattutto, Gv 6,51: “IO SONO il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno”. (8)In una prospettiva più ampia, con questa petizione si chiede a Dio tutto ciò che ci è necessario per la salute fisica e spirituale. Data la ricca simbologia biblica legata all’idea del pane, con la richiesta del “pane” ciascuno chiede a Dio quello che la propria maturità spirituale gli permette di attendersi: chi solo il cibo per il corpo, chi l’Eucaristia, chi il nutrimento della Sapienza.
(9)Ciò che indica il riconoscimento di Dio come unico datore dei doni è il verbo iniziale della petizione: “dacci”. Qui intravediamo la particolare concezione cristiana del lavoro umano. Il cristiano, come già dicevamo, non ha l’illusione di considerare la propria abilità lavorativa come un assoluto. (10)Va inoltre notato il plurale della formula insegnata da Cristo ai suoi discepoli: “dacci” e non “dammi”; il che suggerisce una preoccupazione estesa a tutti, e una solidarietà per la quale il pensiero della sopravvivenza personale deve andare di pari passo con quello della sopravvivenza di tutti.
(11)L’aggiunta della parola “nostro” intende esprimere i limiti delle necessità personali, ossia: dicendo “nostro”, chiediamo la giusta quantità, secondo i nostri reali bisogni, escludendo dalla preghiera ogni richiesta del superfluo. (12)L’insegnamento biblico si colloca sempre nella linea della sobrietà e invita a cercare le cose che ci necessitano solo in maniera proporzionale ai bisogni reali. (13)Possiamo ricordare Pr 30,8: “Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo necessario”. Lo stesso insegnamento traspare dal dono della manna nel deserto: nessuno può trattenerne una quantità superiore al reale fabbisogno quotidiano (cfr. Es 16,16.20). Anche l’aggettivo “quotidiano” intende sottolineare la stessa verità: noi chiediamo a Dio un cibo che non raggiunga la misura del superfluo materiale, ma anche un cibo che non è superfluo in senso cronologico, un cibo “per l’oggi”, cioè per una giornata, perché domani Dio provvederà ancora. (14)Il significato del cibo “per la giornata di oggi” non va comunque inteso in senso letterale, come se si volesse suggerire la mancanza di qualunque genere di accumulo - anche se S.  Francesco di Assisi lo aveva inteso così, ma il francescanesimo è solo una corrente di spiritualità, con le sue peculiarità non applicabili a ogni categoria di cristiani - ma va inteso come la negazione dell’ingordigia e come la libertà dalla prigionia del cuore nei beni materiali. (15)Inoltre, l’idea di un cibo richiesto “per la giornata di oggi” allude alla brevità della vita umana e alla incapacità di prolungare con qualsiasi tecnica il tempo della propria esistenza terrena: la preghiera del cristiano non può che riguardare la giornata di oggi, visto che il domani non cade sotto il nostro controllo, né siamo in grado di prevedere se noi ci saremo.
(16)Notiamo infine che l’aggiunta del possessivo “nostro” ha pure un altro risvolto: dicendo “nostro” si intende sottolineare la legittimità di quel pane che, pur essendo un dono di Dio, è tuttavia contemporaneamente frutto del lavoro onesto. (17)Quel pane quotidiano viene da Dio come dono, ma è anche veramente “nostro” in quanto non è procurato né con la violenza, né con la frode, né con il furto. (18)Il cristiano si nutre di un pane che è “suo” in quanto frutto di una fatica onesta.

        Art.8   Rimetti i nostri debiti
(1)Dopo avere chiesto a Dio i beni necessari alla vita fisica e a quella spirituale, si chiede di allontanare i mali che ci minacciano e possono danneggiarci profondamente: il peccato e il Maligno.
        (2)Dietro la parola “debiti” sappiamo bene cosa ci sta: il peccato personale che separa il battezzato dal suo Dio. Alla parola “debiti” si aggiunge il possessivo “nostri”, perché il peccato non è imputabile a nessun altro, se non a colui che lo compie. (3)I peccati sono “nostri” in quanto sono voluti da noi. Infatti, quei gesti che sono peccaminosi nella loro forma esterna, non sono peccati quando sono involontari  (e lo stesso vale per la virtù: il gesto virtuoso ma involontario non è virtù). (4)Per questa ragione, Cristo ci insegna a chiedere perdono a Dio nella preghiera e, al tempo stesso, ci invita a distinguere con maturo discernimento ciò che è peccato da ciò che sembra peccato ma non lo è. (5)Inoltre, si comprende bene, dietro questa petizione, che la realtà del peccato è universale. Nella preghiera che reciteranno tutti i discepoli di tutte le epoche c’è uno spazio obbligato per la richiesta di perdono, segno questo che nessun discepolo di nessuna epoca potrà mai vivere scansando in maniera assoluta l’esperienza del peccato. (6)Tra le creature umane, l’impeccabilità è stata una caratteristica legata solo all’immacolatezza di Maria. Dopo la risurrezione impeccabili lo saremo tutti, perché definitivamente confermati in grazia. (7)La vita storica è invece un tempo di lotta e di oscillazioni. Ci sembra inoltre significativo il fatto che il Maestro ci insegni a pregare al plurale anche in questo caso: “rimetti a noi” e non “rimetti a me”. In questo plurale si può facilmente intravedere il carattere ecclesiale e comunitario del peccato: il peccato individuale, anche il più personale e il più interiore, non è mai un affare privato. (8)Il peccato ferisce sempre il grande corpo della Chiesa e lede l’integrità della comunione dei santi. C’è dunque una inevitabile solidarietà nel peccato, come si è solidali nella comunione e nella santità.
(9)In questa petizione chiediamo a Dio di rimettere i nostri peccati come noi li rimettiamo a chi ha peccato contro di noi. Per quanto riguarda il perdono ai debitori, devo rimandare al commento alla beatitudine dei misericordiosi, dove ho già sviluppato l’argomento, e non è il caso di ripeterlo qui. Ci limitiamo perciò ad alcuni rilievi.
(10)Bisogna notare che i due atti di perdono sono collegati dalla particella come: “… come noi li rimettiamo”. Questo collegamento ha due basilari significati. Ha intanto un significato di somiglianza, e intende mettere in relazione il perdono ricevuto da Dio con quello offerto da noi al nostro prossimo. (11)Si tratta in fondo di due volti della medesima riconciliazione. Per questo sono accomunati da una certa rassomiglianza. La principale similitudine tra questi due rapporti è indicata da Cristo nella “misura” che ciascuno elabora per valutare i diversi comportamenti e caratteri degli altri. (12)Proprio questa è la misura che Dio applica poi alla persona. L’insegnamento sarà espresso poco più avanti in questi termini: “Col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate, sarete misurati” (Mt 7,2). (13)Questo criterio include una vasta gamma di situazioni, ma, in riferimento al perdono, esso intende dire che Dio perdona me come io perdono gli altri; vale a dire: nel giudizio, Dio applica a me quella stessa misura larga o stretta che io ho applicato a chi aveva peccato contro di me. 
(14)C’è poi un secondo significato connesso alla locuzione “…come noi li rimettiamo”, che in fondo è una sfumatura del primo. In questo secondo significato, la particella “come” indica la condizione del perdono. Altrimenti detto: Dio perdona a noi le nostre colpe se noi perdoniamo quelle che gli altri hanno commesso contro di noi. (15)Basti ricordare Mc 11,25: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati”.

        Art.9   «Non abbandonarci alla tentazione», ma liberaci dal Male
(1)Cristo invita i suoi discepoli a pregare per avere la forza di non soccombere nel momento in cui Satana si fa vicino per sedurre e per colpire. Questo fatto ci rende consapevoli che la seduzione del Maligno non può essere affrontata solo con le nostre forze. (2)Non abbiamo alcuna possibilità di vincerlo se Dio non è accanto a noi. La dimostrazione di questa verità i discepoli l’hanno avuta nella notte tra il Giovedì e il Venerdì santo. (3)Il Maestro li aveva avvertiti: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt 26,41). Ma la stanchezza fisica e la sottovalutazione della gravità del momento hanno il sopravvento, e si addormentano (cfr. v. 43). (4)Poco dopo, vengono travolti tutti da una bufera superiore alle loro forze di resistenza. L’ora delle tenebre non può essere superata da chi non aderisce in pieno all’insegnamento del Maestro, da chi non prega e da chi sottovaluta la potenza del nemico dell’uomo. (5)Molto chiaro a questo riguardo è anche l’Apostolo Paolo: “La nostra lotta non è contro creature di carne” (Ef 6,12); e ancora: “Chi sta in piedi, guardi di non cadere” (1 Cor 10,12). E Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare” (1 Pt 5,8).
        (6)Possiamo ancora chiederci: ma perché dobbiamo essere sottoposti alla tentazione? La domanda non è facile. La ragione per cui questa creatura fragile, che è l’uomo, debba scontrarsi con le potenze delle tenebre, molto superiori da tutti i punti di vista, è uno dei grandi misteri della vita, insieme al mistero del dolore, che in fondo ne è un aspetto specifico (cfr. Gb 1,6-12). (7)Il libro del Deuteronomio dà una interpretazione precisa della tentazione: Dio ci mette alla prova per fare emergere i contenuti reali del nostro cuore (cfr. 8,2). Lui lo sa già cosa abbiamo nel cuore (cfr. Eb 4,13 e Gv 2,24-25), ma fa in modo che venga alla luce, perché possiamo averne consapevolezza piena anche noi. (8)La tentazione, affrontata e superata dal discepolo che ha combattuto secondo le regole (cfr. 2 Tm 2,5), porta a galla tutte le brutture che la persona non sa neppure di avere nel profondo della sua anima, e in tal modo facilita la loro espulsione. (9)Gesù è servito dagli angeli dopo la sua vittoria nel deserto contro lo spirito del male (cfr. Mt 4,11). Dio, comunque, non ci introduce nella tentazione (cfr. Gc 1,13), ma la permette e, in considerazione della nostra debolezza, stabilisce un rigido confine oltre in quale Satana non ci può colpire (cfr. Gb 1,12; 2,6 e 1 Cor 10,13). (10)Non dobbiamo chiedere, perciò, di essere risparmiati dalla tentazione, ma semplicemente di uscirne vittoriosi.

Capitolo 5

Art.1    La fiducia incondizionata nella Provvidenza


(1)Questa sezione sul tema della divina Provvidenza si estende fino alla fine del capitolo sesto, abbracciando i vv. 19-34. L’insegnamento si apre con l’esortazione a trasferire i propri tesori in cielo, dal momento che ciascuno ha il cuore dove ha il suo tesoro (cfr. v. 21). (2)Solo dopo ci viene detto che la vita del discepolo somiglia a quella degli uccelli e dei gigli, i quali non attendono nulla dagli uomini: pensa Dio a vestirli e a nutrirli, senza che essi debbano accumulare alcunché. (3)Ci sembra estremamente significativo il fatto che l’esortazione alla fiducia nella Provvidenza di Dio sia preceduta da un’altra esortazione: quella di trasferire i propri tesori in cielo. (5)E’ come dire che solo chi ha già trasferito i propri tesori in cielo può avere la disposizione adeguata per attendere da Dio un intervento salvifico nella propria vita. (6)Il senso della fiducia nella Provvidenza verrebbe ingiustamente impoverito se si pensasse che l’intervento benefico di Dio nella vita del discepolo sia da limitarsi al cibo e al vestito. (7)Cristo fa riferimento al cibo e al vestito non per ridurre gli ambiti dell’intervento di Dio, ma solo perché ciò è in linea logica con la duplice similitudine da Lui usata: gli uccelli (cibo) e i gigli (vestito); infatti, quando il Maestro esce dal confine delle sue similitudini, per parlare chiaro dice: “Non affannatevi dunque per il domani” (v. 34). (8)Si comprende qui che il “domani” ingloba per la persona le ansie umane prese nella loro globalità, e ciò ci porta necessariamente fuori dall’ambito puramente corporeo, che è solo una parte di tutto ciò che l’uomo progetta (o teme) per il suo domani. (9)Possiamo così fissare i primi punti fermi di questo insegnamento: nessuno può fidarsi totalmente di Dio, se prima non ha trasferito i propri tesori in cielo; fidarsi totalmente di Dio implica l’attesa delle sue azioni salvifiche per il mio “domani”, che non posso far dipendere solo dalle mie risorse (o da quelle degli amici).

        Art.2  Il trasferimento dei propri tesori in cielo
(1)La chiave per la comprensione di questo trasferimento va cercata innanzitutto all’interno del discorso di Gesù, e precisamente al v. 33: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. (2)Il passaggio dei tesori in cielo si produce quindi sul piano dell’intenzionalità. L’imperativo iniziale “cercate”, allude al fatto che la vita quotidiana di ogni persona somiglia a una continua ricerca, perché tutte le nostre azioni hanno sempre una precisa finalità. (3)Quando si agisce, si intende sempre conseguire qualcosa. Il discepolo si distingue proprio al livello dell’intenzionalità dei suoi atti. (4)Mentre tutti gli altri fanno le cose che fanno per il risultato immediato che ne deriva, il discepolo fa quello che fa nello spirito di un sacrificio offerto a Dio. (5)Per fare un esempio banale, ma forse utile a meglio intenderci: tutti nella vita svolgono un mestiere, e questo mestiere permette a ciascuno di vivere. Nessuno pensa che il lavoro quotidiano abbia anche un altro significato. (6)I migliori tra gli uomini pensano che il lavoro sia anche un contributo al buon andamento della vita sociale. Ma il discepolo supera anche questa prospettiva per andare oltre. (7)Il discepolo pensa che il suo lavoro quotidiano sia utile al regno di Dio. “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia” significa infatti mettere il regno come intenzione e come finalità in ogni atto della giornata, anche in quei gesti che “sembrano” così trascurabili e piccoli da non avere alcuna attinenza con il regno di Dio. (8)La vita stessa del discepolo, se nell’intenzione è orientata al regno di Dio, acquista un valore molto grande per il regno e l’acquista nella sua totalità, nei grandi e nei piccoli gesti, nella veglia come nel sonno. E’ insomma l’intenzione con cui si agisce ciò che trasfigura tutto quel che si fa. (9)Non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze, o da opere eroiche che sembrano ottenere chissà quali risultati. Il Vangelo è chiaro: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione” (Lc 17,20). E l’Apostolo Paolo: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1 Cor 1,27-28).
        (10)Il discepolo vive già “eroicamente”, ossia servendo Dio con tutto se stesso, allorché la sua intenzionalità quotidiana volge tutto il proprio essere verso il Regno. Le sue opere si trasformano immediatamente e, anche quando non hanno risultati visibili nel concreto, davanti a Dio, che ne è a quel punto il diretto destinatario, sono sempre un nuovo tassello che va a collocarsi nella Gerusalemme celeste.
        (11)In definitiva, le azioni del discepolo somigliano molto ai pani e ai pesci del miracolo della moltiplicazione: non sarebbero serviti a un bel niente, se i discepoli non li avessero prima portati a Cristo. E’ Lui che li rende idonei a sfamare una intera moltitudine. In questo senso va interpretata la frase di Gesù in Mt 14,18: “Portatemeli qua”: Cristo vuole ricevere le nostre piccole azioni per convalidarle dinanzi al Padre, ed è la nostra intenzionalità che glielo permette.

        Art.3  L’attesa delle azioni salvifiche di Dio
(1)La fiducia nella divina Provvidenza non va intesa innanzitutto come una risposta divina alle necessità corporali dell’uomo; o comunque non è solo questo. (2)Certo, per il discepolo anche il cibo materiale è dono di Dio e non puro risultato della fatica quotidiana, ma l’attesa della Provvidenza include tutti i possibili interventi di Dio in tutte le sfere della esistenza personale. Quando Gesù dice “il domani avrà già le sue inquietudini” (v. 34), si riferisce globalmente a tutto ciò che supera il controllo o la previsione dell’uomo.
        (3)Nelle difficoltà della vita quotidiana, piccole o grandi, ma specialmente in quelle grandi, la persona ha diverse possibilità. Alcuni fanno come fece Saul, allorché Davide dimostrò coi fatti di essere più abile in combattimento. (4)Dinanzi all’oggettiva superiorità di Davide, Saul si irritò al punto da volerlo eliminare (cfr. 1 Sam 18,8-12); fanno così quelli che, confidando solo nelle proprie risorse, si sentono perduti, quando qualcuno li supera in bravura. (5)Non sopportano infatti la conoscenza dei propri limiti e sanno solo ribellarsi. Altri fanno come Elia dopo lo scatenamento dell’ira di Gezabele: “Si inoltrò nel deserto… desideroso di morire di morire disse: Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. (6)Sono coloro i quali pensano che le avversità della vita li abbiano già sconfitti, o che le potenze del male siano più forti del bene, e si arrendono. (7)A quel punto ci vuole un intervento di Dio per svegliarli, come appunto accadde a Elia (cfr. 1 Re 19,1-8). (8) Altri ancora fanno come la donna di Sunem, alla quale era morto il figlio: partì di corsa a cercare il profeta Eliseo, senza neppure spendere un minuto per dare spiegazioni al marito. (9) Lo stesso fanno tutti i personaggi del Vangelo che non badano a sacrifici e a rinunce, pur di ottenere da Cristo la guarigione del corpo o dello spirito. Così Zaccheo che sale sull’albero pur di vederlo (cfr. Lc 19,2-7), così la peccatrice che sfida gli sguardi malevoli dei commensali pur di piangere sui piedi di Cristo e sentire il balsamo del suo perdono (cfr. Lc 7,36ss). (10)Così tanti altri, che non reputano la loro situazione così disperata da non potere essere ricostruita da Colui che fa nuove tutte le cose. Questi sono coloro che hanno capito cosa significa confidare nella divina Provvidenza: significa scoprire che nessuna delle proprie vie è un vicolo cieco, ma che tutte le vie sono aperte verso la perfezione cristiana, anche se sembrano strade chiuse. (11)Le strade chiuse infatti sono tali solo per chi non crede. Ma per chi crede e vive nello Spirito, ogni orizzonte si apre, e non importa se l’orizzonte talvolta ha la forma di una croce: “Tutto coopera al bene di coloro che amano Dio… Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire… ci potrà separare dall’amore di Dio” (Rm 8,28.31.38).
        (12)In sostanza, colui che confida nella divina Provvidenza lascia sempre uno spazio all’intervento di Dio nella propria vita e nel proprio “domani”, per quanto buio possa esserci. (13)Questo atteggiamento corrisponde esattamente allo sviluppo della speranza teologale. Fiducia nella Provvidenza è quindi sinonimo di liberazione da ogni sistema chiuso nel quale l’uomo si va a cacciare, quando cade nell’illusione dell’autosufficienza. (14)Ciò va ben al di là della semplice attesa del pane quotidiano o del vestito. E’ in gioco molto di più: l’ampio respiro di chi cammina col Dio vivente, o l’asfissia e la disperazione di chi, anche se professa con le labbra la nostra stessa fede, si è tuttavia collocato al centro di un sistema chiuso. (15)Nella categoria di quello che abbiamo definito “sistema chiuso” bisogna includere non soltanto lo stile di vita di chi, per la sua poca fede, non ha aspettative da parte del Signore o non ritiene che Dio possa intervenire laddove l’uomo ha toccato il fondo delle sue risorse, e continua ad annaspare come uno che affonda nelle sabbie mobili, ma bisogna includere anche la tendenza all’isolamento di colui che, per la medesima mancanza di fede, non è capace di affidarsi, nel momento del dolore, alla preghiera della comunità cristiana, alla sua solidarietà, al suo amore, e al discernimento e consiglio dei suoi pastori. (15)Non per niente il v. 24 ci ammonisce: “Nessuno può servire a due padroni”. Certo, in primo luogo questa frase significa che non c’è compatibilità tra la dottrina di Cristo e le filosofie del mondo, e che un discepolo non può trovarsi contemporaneamente su entrambi i fronti, ma significa anche che la fede, per essere autentica, deve essere completa: chi crede in Dio deve credere anche in Cristo (Gv 14,1); chi crede in Cristo deve credere anche nella apostolicità della Chiesa e nella autorità carismatica del sacerdozio (cfr. Mt 10,40; Lc 9,1; 10,16).


Capitolo 6

Art.1  L’affidamento della propria causa a Dio (vale a dire: rinuncia al giudizio e alla vendetta)
(1)Il tema del giudizio e della corretta posizione che il discepolo deve assumere dinanzi all’ingiustizia umana è trattato ai vv. 1-6 del capitolo sette.
        (2)E’ molto chiaro l’enunciato generale di partenza: “Non giudicate per non essere giudicati” (v. 1). (3)Ciò implica uno stretto legame tra il giudizio dell’uomo verso l’uomo e il giudizio di Dio. Il versetto successivo, “col giudizio con cui giudicate sarete giudicati” (v. 2), precisa che Dio non applica un criterio “standard” per giudicare gli uomini, ma utilizza lo stesso criterio che l’uomo aveva utilizzato per giudicare il suo prossimo. (4) Il concetto viene poi ripetuto, nella seconda parte del v. 2, con altre parole: “con la misura con la quale misurate sarete misurati”. Il senso è praticamente lo stesso.
        (5)L’affermazione di partenza, che suona “non giudicare”, viene fondata su un dato antropologico espresso in forma di similitudine: “non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio” (v. 3). (6)L’immagine della trave nell’occhio intende sottolineare innanzitutto i limiti della facoltà umana di giudizio e di valutazione delle cose e delle persone. La “pagliuzza nell’occhio del fratello” suggerisce invece l’idea che, spesso, colui che si sente autorizzato a giudicare ci vede meno, cioè ha la coscienza meno illuminata, della persona che è oggetto del suo giudizio. (7)In realtà, più è illuminata la nostra coscienza e meno siamo portati a giudicare; più cresciamo nella santità cristiana e meno tendiamo a colpevolizzare gli altri in ciò che a noi sembra consista la loro colpa. (8)La tendenza a colpevolizzare gli altri, infatti, non viene dallo Spirito di Dio. Si tratta piuttosto di una assimilazione al ministero di Satana, che accusa “i nostri fratelli giorno e notte” (Ap 12,10). (9)Chi accusa i propri fratelli si comporta quindi come il Maligno e, così facendo, si espone al suo potere.
        Cosa deve fare, allora, il discepolo quando subisce l’ingiustizia, visto che non può giudicare né può farsi giustizia da sé?
(10)Quando l’ingiustizia che si subisce rischia di colpire gli equilibri sociali, allora è lecito agire per vie legali, facendo ricorso all’autorità istituzionale preposta alla custodia della legalità come si vede da Is 28,6, Rm 13,1, Mt 18,17, e ciò vale sia nel campo civile che in quello ecclesiastico. (11)Non è virtù evangelica il fatto di tacere dinanzi a un’ingiustizia che penalizza molte persone. Si può tacere, se si vuole, dinanzi a un’ingiustizia che non penalizza nessuno, se non se stessi. In cose di minore portata, esiste anche la possibilità della correzione fraterna (1 Tm 5,20 e Lc 17,3-4). (12)Se poi colui che ha mancato non vuole ascoltare nessuno, si lascia andare per la sua strada: “sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt 18,17).
(13)Va inoltre precisato che l’esortazione “non giudicare” non equivale a “non discernere”; al contrario, il discepolo riceve da Dio una luce intellettiva per distinguere uomo da uomo. “Non giudicare” significa solo non assumere l’atteggiamento del “giustiziere” in tutti quegli ambiti in cui uno si può sentire ingiustamente penalizzato. (14)Non significa però chiudere gli occhi sul bene e sul male, col rischio di cadere nelle mani di uomini furbi e senza scrupoli, o addirittura di profanare le cose sante, mettendole a portata di mano di chi non ha le giuste disposizioni per riceverle (cfr. 7,6). (15)In questo senso è detto: “Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10,16). Il discepolo è tenuto insomma a custodire se stesso, tenendosi lontano dalle situazioni e dalle persone che possono seriamente minacciare il suo cammino. (16)Se è vero che il discepolo è “il sale della terra”, e come tale deve entrare anche in contatto con le situazioni umane di degrado per portarvi la luce di Cristo, è pure vero che non in tutte le fasi del proprio cammino di fede si è abbastanza forti per affrontare i rischi dell’apostolato. (17)Bisogna perciò in primo luogo saper valutare se stessi, secondo l’insegnamento del Maestro in Lc 14,18ss. Ma bisogna anche valutare i destinatari dell’annuncio, perché la Parola di Dio non sia oggetto di scherno e di beffa da parte di uomini superficiali e desiderosi solo di soddisfazioni materiali, secondo l’insegnamento di 2 Tm 2,2: “Le cose che hai udito da me… trasmettile a persone fidate”.

Capitolo 7

Il discernimento sui falsi profeti


        Art.1  Quando un cieco crede di vederci…
(1)Strettamente connesso al tema precedente è il problema del discernimento dei falsi profeti. La sezione che prendiamo ora in considerazione è 7,13-27, con l’aggiunta di  6,22-23, pericope dedicata al medesimo tema, anche se decentrata.
        (2)La pericope 6,22-23 intende sottolineare l’importanza cruciale del discernimento. (3)L’argomentazione è presentata in forma allegorica: l’occhio è la lucerna del corpo. Di fatto, l’occhio non ci vede per se stesso, è il corpo che ha bisogno dell’occhio per essere nella luce. E posto che la luce esterna sia piena, ciò non giova alla persona se è guasto l’organo della vista, ed essa si trova necessariamente nel buio anche in pieno giorno. (4)Ripensando a questa allegoria, dopo avere letto l’avvertimento relativo ai falsi profeti, il discorso si può tradurre in questi termini: la facoltà di discernimento è per l’anima ciò che l’occhio è per il corpo. (5)Una persona priva di discernimento è paragonabile a un cieco che si muove nel buio, anche in pieno giorno, con l’aggravante - aggiungiamo noi – che, a differenza del cieco, che di solito è cosciente della sua infermità, chi manca di discernimento è sempre convinto di vederci molto bene. (6)Per questa ragione l’AT dice a chiare lettere che la caratteristica principale dello stolto è quella di credersi saggio (cfr. Pr 3,5-7 e 26,12), e anche l’insegnamento di Gesù si muove in questa linea (cfr. Gv 9,39-41). Il risultato è quello di precipitare in una fossa, quando un cieco, che crede di vederci, si fa guida di un altro cieco (cfr. Mt 15,14). ). (7)La mancanza di discernimento è quindi una forma di oscurità ancora maggiore della cecità materiale; in questo senso va compresa l’esclamazione conclusiva dell’allegoria: “Quanto grande sarà la tua tenebra!” (v. 23).

        Art.2  I criteri di discernimento  (7,13-27)
(1)Il discepolo si muove tra molte insidie, perché il mondo non ama ciò che non è suo (cfr. Gv 15,18-19). (2) Le insidie che il discepolo deve affrontare non sono mai evidenti o superficiali, e sono tanto più pericolose quanto più sono nascoste. (3)Per questo il Maestro ha dato ai suoi discepoli i criteri più basilari del discernimento già all’inizio del suo ministero. Tentiamo allora di isolarne i nuclei principali:

1.   Il criterio delle due vie (vv. 13-14).
(4)Compare nel testo ai vv. 13-14. Si tratta del primo e più evidente segno di appartenenza allo Spirito di Dio: la via stretta. Il discepolo sospetta di tutto ciò che si presenta troppo convincente per la logica umana. (5)La “porta larga” altro non è che il simbolo di ciò che viene dal mondo. Proposte, idee, teorie, iniziative, esperienze troppo vicine al pensiero dell’uomo naturale e convincenti perché in sé accettevoli e gradite alla natura umana, per quanto possano sembrare buone in apparenza, devono essere vagliate a fondo, prima di essere accolte come volute da Dio. (6)Ciò che è genuinamente evangelico ha infatti due caratteristiche inconfondibili: non è modellato sulla natura umana (cfr. Gal 1,11); ha un margine di non conoscenza che richiede di abbandonarsi a Dio nella fede (cfr. Gv 14,1 e16,12). (7)Al contrario, la falsa profezia, da cui il discepolo deve guardarsi, è gradevole alle inclinazioni della natura e della logica dell’uomo, ed è piena di evidenze e di deduzioni stringenti, che quasi rendono superflua la fede intesa come abbandono fiduciale.

2.   Il criterio dei frutti (vv. 15-20).
(8)Non si raccoglie uva dalle spine né fichi dai rovi. L’allegoria è chiara: l’apparenza della persona non dice tutta la verità sui contenuti interiori e sugli obiettivi che uno persegue; occorre aspettare e osservare l’evoluzione di una persona, per poter avere un’idea circa la sua opzione fondamentale. (9) E’ insomma l’esito della vita quotidiana ciò che permette di verificare le manifestazioni esteriori dell’uomo. Gesù afferma a chiare lettere l’esistenza di “lupi travestiti da agnelli”, per mettere in guardia il discepolo, che di solito è semplice nell’animo e tende a proiettare sugli altri la propria rettitudine, pensando che tutti sono buoni e onesti come lui. Specie se qualcuno, nella sua veste esteriore, si presenta vistosamente animato da nobili propositi. (10)Il discepolo è avvertito di non trarre alcuna rapida conclusione da ciò che si vede esternamente; Satana, infatti, può talvolta infiltrare qualche suo ministro, perfettamente mimetizzato (ossia: “in veste di agnello”) tra i discepoli di Cristo, per creare disorientamento e divisione; perciò, se si vuole discernere uomo da uomo e persona da persona, occorre fare come si fa con le piante, che non si giudicano dalle loro apparenze: si aspetta che diano un frutto e poi da esso si risale alla utilità della pianta.

3.   La personificazione della Parola di Dio (vv. 21-27).
(11)Questo criterio di discernimento della persona è strettamente connesso a quello precedente; in certo senso ne è una specificazione. Il v. 21: “Non chi dice Signore, Signore, entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio”, suggerisce l’idea che il linguaggio di una persona possa essere totalmente in contrasto con la sua vita, e può succedere che persino chi apparentemente prega molto (l’espressione “Signore, Signore”, utilizzata da Cristo sembra alludere proprio alla preghiera più che a un discorso rivolto agli uomini) possa vivere in dissonanza con l’immagine di se stesso che egli dà agli altri. (12)Anzi, alla luce di uno dei tratti interiori fondamentali del discepolo, quel tratto di nascondimento e di fuga dal protagonismo, di cui abbiamo parlato, bisogna dire che un atteggiamento vistosamente pio e devoto deve sempre far sospettare. (13)Nel suo rapporto con Dio, il discepolo autentico ha infatti molto pudore, e ne lascia intravedere solo quegli aspetti che, per una serie di circostanze, non può nascondere. Un atteggiamento di devozione che attira lo sguardo, è già in se stesso quantomeno strano e mette a disagio il vero discepolo.
        (14)La preghiera, in quanto atteggiamento esterno, non è l’unico aspetto falsificabile dell’esperienza religiosa. Satana può falsificare molto di più. Può falsificare anche ciò che non sembrerebbe falsificabile: il potere di scacciare il demonio e la facoltà di compiere miracoli (v. 22). (15)Sembrerebbe incredibile, ma neppure di chi è in grado di scacciare i demoni può dirsi con assoluta certezza che in lui operi lo Spirito di Dio. L’inganno di Satana è così sottile che può imitare perfettamente tutto ciò che ha apparenza esterna di santità. (16)Perfino i miracoli. I maghi di Egitto infatti non hanno alcuna difficoltà a ripetere i “segni” operati da Mosè, o almeno una parte di essi. Anche per questo il faraone si indurisce ulteriormente: perché non riesce a distinguere tra il “segno” di Dio e la sua contraffazione diabolica. Solo nell’ultimo giorno saranno smascherate tutte le imposture (v. 23).
        (16)Anche in questi casi di difficile discernimento, l’unica possibilità di non cadere nel tranello è quella di osservare con attenzione l’esito della vita delle persone. Chi vive nell’inganno e nell’impostura, per quanto possa imitare esternamente alla perfezione una virtù che non possiede, non può certamente imitare la stabilità che contraddistingue colui che la virtù evangelica la possiede davvero. (17)Dinanzi al momento di prova, che arriva per tutti prima o poi, “soccombe chi non ha l’animo retto” (Ab 2,4). La virtù cristiana si può solo imitare indossandola come si indossa un abito, ma nel momento in cui quella virtù deve sostenere la persona nella bufera della tentazione o della sofferenza, resta in piedi solo il vero cristiano, ossia colui che è realmente sostenuto dalla forza dello Spirito. (18)Tutti gli altri vengono spazzati via. E in un certo senso è un bene, perché Dio fin da ora ha iniziato una cernita nel seno della Chiesa (cfr. 1 Pt 4,17). Il giudizio finale la porterà a compimento.
(19)Ritorna così l’avvertimento che concludeva il Brano della Sacra Scrittura precedente: “dai loro frutti dunque li potrete riconoscere” (v. 20). In questa finale del discorso della montagna, i “frutti” che distinguono i veri discepoli da quelli che invece ne imitano solo i comportamenti esterni, sono soprattutto costituiti dalla “stabilità” dimostrata nelle bufere della vita, come chi costruisce la sua casa sulla roccia. (20) Il discepolato cresce nella autenticità tanto quanto l’insegnamento del Maestro è “personificato” e non lasciato andare a vuoto. La figura veterotestamentaria che prelude al discepolato cristiano è Samuele, di cui si dice che “non lasciò andare a vuoto una sola delle parole del Signore” (1 Sam 3,19). (21) Chi in tal modo trasforma la Parola di Dio in sostanza della propria vita è come uno che, nonostante pioggia torrenziale, straripamento di fiumi e uragani, rimane in piedi, saldo nelle fondamenta della sua casa. (22) Ci sembra di udire l’eco delle parole del libro dei Proverbi: “La Sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce… volgetevi alle mie esortazioni e io effonderò il mio Spirito su di voi… Sì, lo sbandamento degli inesperti li ucciderà e la spensieratezza degli sciocchi li farà perire, ma chi ascolta Me vivrà tranquillo e sicuro dal timore del male” (cfr. 1,20-32).














“Dio ha sempre desiderato un popolo che volesse camminare in completa dipendenza da lui davanti agli occhi del mondo.
Per questo motivo Egli prese la piccola ed insignificante nazione di Israele e la isolò in un deserto. Egli stava ponendo quel popolo in una scuola di sperimentazione, per forgiare delle persone che credessero in lui a prescindere dalle loro circostanze.
Egli voleva che Israele testimoniasse: “io posso passare attraverso ogni test e difficoltà, anche al di là delle mie capacità. Come? Io so che il mio Dio è con me in ogni prova. Egli me ne trarrà sempre fuori” Considera la dichiarazione di Mosè ad Israele: “[Dio] ti ha fatto patir la fame” (Deuteronomio 8,3). Il Signore stava dicendo loro: “Io ho orchestrato la vostra prova. Non è stato il diavolo. Io possedevo tutto il pane e la carne di cui avevate bisogno per tutto il tempo e io ero pronto a farli cadere dal cielo in qualsiasi momento. Era tutto stipato nelle mie provviste, in attesa che voi lo riceveste. Ma io l’ho trattenuto per un periodo e ho fatto questo per uno scopo. Io stavo aspettando che voi arrivaste fino alla fine della vostra autosufficienza. Volevo portarvi ad un punto di crisi, dove solo io potevo liberarvi. Io ho permesso che voi sperimentaste la “fine del vostro spirito”, un posto di umana impotenza che richiedesse un miracolo di liberazione da parte mia.”
Oggi il Signore sta ancora cercando persone che dipendano totalmente da lui. Egli desidera una chiesa che testimoni sia a parole che con le opere che Dio è onnipotente nei loro confronti. Egli vuole che un mondo senza salvezza veda che Egli opera potentemente in favore di coloro che lo amano.
Giobbe dichiarò: “Poiché egli conosce la mia condotta,
se mi prova al crogiuolo, come oro puro io ne esco.” (Giobbe 23,10). Qui c’è un’affermazione incredibile, specialmente considerando il contesto in cui Giobbe la pronunciò.
Giobbe soffrì una delle peggiori prove a cui ogni essere umano potesse essere sottoposto. Egli perse tutti i suoi figli in un tragico incidente e poi perse la ricchezza e i suoi possedimenti. Alla fine egli perse la sua salute fisica. E tutte queste cose capitarono in un lasso di tempo relativamente breve, esse furono totalmente travolgenti.
Ancora, Dio aveva posto Giobbe in questo sentiero e il Signore solo sapeva dove esso l’avrebbe condotto alla fine. Era un piano così divinamente organizzato che Dio permise anche a Satana di affliggere Giobbe. Ciò perché Giobbe non potesse vedere Dio in ognuna delle sue afflizioni: “Ecco, vado ad oriente, ma là non c’è; ad occidente, ma non lo scorgo; opera a settentrione, ma non lo vedo; si volge a mezzogiorno, ma non riesco a vederlo. Ma Egli conosce la strada che io prendo”. (Giobbe 23,8-10)
Giobbe stava dicendo: “Io so che Dio è al corrente di ogni cosa che sto sopportando ed Egli conosce la strada nonostante tutto. Il mio Signore mi sta provando proprio adesso e io sono fiducioso che Egli me ne trarrà fuori con una fede più forte. Io ne uscirò purificato e affinato, con una fede più preziosa dell’oro”.

Umberto Amoroso