martedì 29 marzo 2011

LA PRUDENZA (PARTE II)

Nel NT la prudenza, e l'uso moderato della parola, hanno una sapore fortemente cristologico e rappresentano senza dubbio uno dei vertici della perfezione cristiana: "Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto" (Gc 3,2). Inoltre, dal momento che il Vangelo può diffondersi soltanto mediante la parola umana, il linguaggio ha acquistato una serietà e un valore che prima non aveva: "La fede dipende dalla predicazione" (Rm 10,17), e ancora: "E' piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione" (1 Cor 1,21). La parola umana è quindi strumento privilegiato nel disegno divino di salvezza, in quanto che essa può essere abitata dalla Parola di Dio, partecipando così di una misteriosa forza di salvezza. Ma la Parola di Dio non può dimorare in chi fa cattivo uso della facoltà della parola o in diverse maniere la banalizza. Da quando la Parola eterna si è fatta carne, la parola umana merita il massimo rispetto, sia nel suo valore sia nel suo uso. Cristo stesso, nel Vangelo, applica alla perfezione il detto di Qoelet, secondo cui C'è un tempo per parlare e un tempo per tacere. Lui, che è la Parola, osserva lunghi tempi di silenzio. Spesso, tra un'attività e un'altra, si ritira in luoghi solitari: dopo il battesimo, prima di iniziare la sua missione (cfr. Mt 4,1); nella sua vita ordinaria evitava il tumulto cittadino e "se ne stava fuori in luoghi deserti" (Mc 1,45); scandiva il suo ministero pubblico con parentesi di solitudine: dopo i suoi miracoli la folla lo cercava, "ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare" (Lc 5,16) e insegnava ai suoi discepoli a fare altrettanto: "Venite in disparte, in un luogo solitario" (Mc 6,31); infine, durante la Passione, Gesù pronuncia pochissime parole in risposta alle domande di Pilato e del Sommo Sacerdote, e rimane addirittura in totale silenzio dinanzi alle numerose domande di Erode (Lc 23,9). Anche in Maria possiamo ravvisare una notevole sobrietà di linguaggio. Il Vangelo non riporta di Lei nessuna parola non necessaria. Lo stesso può dirsi di Giuseppe, un uomo che non cede neanche per un momento ai suggerimenti dell'impulso, ma si raccoglie in una lettura profonda delle situazioni prima di decidere il da farsi. L'uso sobrio della parola umana è pure oggetto dell'insegnamento parenetico dell'Apostolo Paolo. Nella lettera agli Efesini i cristiani sono invitati a utilizzare un linguaggio veritiero per il fatto di essere stati istruiti nella verità che è in Gesù e di essere stati rinnovati nello spirito della mente (cfr. 4,21-23). Il linguaggio dei cristiani deve perciò essere abitato dalla verità e non deve avere altra finalità che quella di giovare a coloro che ascoltano: "Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano" (4,29). Il versetto successivo esorta a non rattristare lo Spirito Santo, lasciando intendere chiaramente, in base al contesto, che proprio uno dei modi con cui una persona limita in se stessa l'azione dello Spirito è l'uso disordinato del linguaggio. Nella lettera ai Colossesi ritorna l'esortazione "non mentitevi gli uni gli altri" (3,9), ma con maggiore chiarezza che in Efesini ci viene detto dall'Apostolo quale debba essere l'argomento abituale della conversazione dei cristiani: "La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali" (3,16). In sostanza, Paolo vuol dire che i cristiani, nelle circostanze in cui si trovano a parlare di cose serie tra loro, mediante la loro stessa conversazione crescono nella conoscenza di Cristo. Quando invece si intrattengono insieme nella gioia, sogliono cantare inni.Il tema dell'uso del linguaggio e della sobrietà della parola viene ripreso nell'insegnamento dell'Apostolo anche a proposito del ministero pastorale: Timoteo e Tito, pastori delle comunità cristiane di Efeso e di Creta, si sentono indirizzare alcuni consigli pratici su come un pastore debba vigilare anche sul proprio modo di parlare. Innanzitutto, i falsi dottori sono identificati da Paolo attraverso l'uso della parola. La caratteristica dei falsi dottori è quella di lanciarsi in dispute e in costruzioni di ragionamenti per dimostrare di avere ragione. Timoteo potrà capire di trovarsi di fronte a un falso dottore, quando i suoi interlocutori si volgeranno "a fatue verbosità, pretendendo di essere dottori, mentre non capiscono né quello che dicono, né alcuna di quelle cose che danno per sicure" (1 Tm 1,6-7). Insomma, il falso dottore si riconosce mediante due caratteristiche: la pretesa di essere uno che sa e l'eccessiva quantità di parole, sotto cui sommerge il suo interlocutore. Più avanti specifica, ancora a proposito del falso dottore, che chi non segue la sana dottrina: "è accecato dall'orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose" (1 Tm 6,4). A Timoteo, invece, Paolo suggerisce di rimanere attaccato al deposito della fede e di studiarlo per averne una conoscenza sempre più profonda, così da poter nutrire la sua comunità con il suo insegnamento: "Fino al mio arrivo dedicati alla lettura, all'esortazione e all'insegnamento" (1 Tm 4,13); "O Timoteo, custodisci il deposito; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza" (1 Tm 6,20). Timoteo deve quindi approfondire personalmente la dottrina della fede ma non deve lasciarsi trascinare in dispute, verbosità e cavilli che nascono dalla "cosiddetta" scienza. Paolo vuole dire che le dispute umane sulla verità di Dio non sono "scienza", ma soltanto chiacchiere. La vera scienza non è mai parolaia ed è sempre aperta al confronto sereno della ricerca.

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